
Il rintocco dell’anima
Introduzione
Kyoto, quartiere di Gion – Inverno del 1843 (10º anno dell’era Tenpō)
La città riposava sotto una coltre sottile di neve che faceva scricchiolare i tetti in legno dei machiya come se anch’essi stessero respirando piano. Le vie del quartiere di Gion, solitamente animate dal fruscio dei zōri e dalle risate leggere delle maiko, si erano svuotate con il calare della notte, lasciando spazio a un silenzio spesso e lattiginoso. Solo qualche lanterna restava accesa davanti alle case da tè, ondeggiando appena nel gelo come occhi socchiusi pronti a sognare.
L’aria odorava di cenere, fumo di pino e fiori secchi. I bracieri accesi nelle case lasciavano scappare spirali d’aroma che si perdevano tra i tetti bassi, dove la luna tagliava il cielo come una lama opaca. Da dietro il cancello del tempio di Gion, protetto da pini centenari piegati dal peso della neve, si levava un unico suono.
Un rintocco. Lento, profondo, simile al battito sommerso di un cuore antico.
Era la campana del padiglione nascosto.
Non compariva sulle mappe, né tra i consigli dei pellegrini. Si diceva che suonasse solo per chi aveva commesso l’errore di dimenticare sé stesso.
Aoyama lo sentiva da settimane.
Di giorno lo scordava, ma di notte lo udiva nitido, tra sogno e veglia, come se chiamasse lui e solo lui.
Aveva vissuto a Kyoto tutta la vita, ma non aveva mai notato quel tempio.
Eppure quella notte, mentre il gelo gli mordeva le mani e il fiato gli usciva bianco come fumo, si ritrovò a salire lentamente quei gradini. Ogni passo era un ricordo che affiorava tra le sue tempie.
I pini attorno sussurravano, il legno sotto i piedi gemeva, e l’inchiostro del cielo si faceva più denso.
Nel padiglione, il tempo sembrava essersi sciolto come neve al sole.
Quando il monaco lo accolse, non disse nulla. Solo un cenno, e il suono lieve di una porta che scivola.
All’interno, il profumo resinoso dell’incenso gli si insinuò nelle narici, mescolandosi al tepore del braciere acceso. La luce dorata danzava sulle pareti, accarezzando i nodi del legno consumato e l’unico ideogramma inciso sopra l’altare:
「己を聞けば、迷わず」
Chi ascolta sé stesso, non si smarrisce.
Aoyama si sedette, come chi si arrende senza sapere a cosa.
E attese.
Poi, la campana suonò.
E tutto cominciò.
Capitolo 1 – Il suono tra i petali
Era aprile quando Aoyama tornò.
I ciliegi di Maruyama avevano appena iniziato a disfarsi, i loro petali sparsi a terra come lettere mai consegnate. Lungo il sentiero che portava al tempio, il vento trascinava nuvole leggere di rosa pallido, e ad ogni passo, Aoyama sentiva sotto i geta il suono fragile dei fiori calpestati, come un sussurro che chiedeva perdono.
La città era sveglia, rumorosa di venditori e bambini, ma nel cuore del tempio, il mondo si ritraeva. Il profumo degli aghi di pino si mischiava a quello dell’umidità antica della pietra e del muschio. Il portale era lo stesso, ma sembrava più silenzioso. Come se avesse riconosciuto i suoi passi.
Il monaco non parlò.
Fece solo un cenno, come la prima volta.
Aoyama lo seguì, ma non entrò subito nel padiglione. Si fermò qualche istante nel cortile interno, dove la campana giaceva sospesa tra i pali di legno scuro. Era più piccola di quanto immaginasse nei sogni, eppure… custodiva un’eco più grande del cielo.
Avvicinò la mano alla corda.
Non la toccò. Solo osservò.
Il fiato gli tremava appena sulle labbra, mentre la mente gli restituiva una memoria che non aveva invocato.
Fuori, nel mondo vero, la primavera era sinonimo di rinascita. Ma dentro di lui, era ancora il tempo dei rimpianti.
Nel padiglione, il braciere ardeva come allora.
Stesso odore di legno affumicato, stessa luce dorata sulle travi. Ma qualcosa era cambiato. Non fuori. In lui.
Si sedette. E non attese il suono.
Chiuse gli occhi.
E accadde.
Il rintocco arrivò. Non dalla campana, ma da dentro.
Un suono muto, ma presente, come un petalo che tocca l’acqua.
E vide sua madre.
Non nel tempo in cui era morta, ma quando rideva tra le lenzuola stese al sole, con il kimono sciolto e le mani sporche di riso.
Un’immagine semplice. Invisibile ai ricordi consapevoli, ma viva nel cuore.
Sentì l’odore del brodo di miso che lei preparava al mattino, il rumore del legno quando si sedeva, la carezza che non riceveva più da trent’anni.
E per la seconda volta, pianse.
Ma questa volta, le lacrime erano dolci.
Quando uscì, il monaco gli porse un fiore.
Un solo fiore di ciliegio, fresco.
«Non si conserva», disse, per la prima volta. «Ma resta.»
Aoyama lo tenne tra le dita fino a casa, e quando i petali caddero, li lasciò volare via.
Quel giorno imparò che il dolore, a volte, non chiede di essere trattenuto. Solo riconosciuto.

