Il suono del vento tra i bambù
Introduzione – Il tempo che avanza
Quando Antonio andò in pensione, non sapeva che farsene del tempo.
Sessantasei anni, vedovo da cinque, i figli lontani, la casa vuota che risuonava di stoviglie mai usate e orologi che scandivano solo il silenzio.
Per cinquant’anni aveva vissuto con ordine: lavoro, doveri, efficienza.
Ma dentro… qualcosa era rimasto in sospeso, come un nodo mai sciolto.
Una sera, rovistando in un cassetto che non apriva da anni, trovò un vecchio dépliant. La carta ingiallita odorava di polvere e promesse.
Una foto in bianco e nero: Arashiyama, la foresta di bambù vicino Kyoto.
Gli tornò alla mente la voce di sua moglie: “Ci andremo, quando avremo tempo.”
Quel tempo non era mai arrivato.
Fu così che, a 66 anni, Antonio fece ciò che non aveva mai osato: prenotò un biglietto per il Giappone.
Capitolo 1 – Il respiro dei bambù
Il volo era stato lungo, ma ciò che più colpì Antonio non fu l’arrivo all’aeroporto di Kansai, né il frastuono ordinato di Kyoto, con i suoi tram e le insegne che illuminavano la sera.
Ciò che lo spiazzò fu il silenzio.
Un silenzio vivo, denso, che trovò solo quando lasciò la città e raggiunse Arashiyama.
Il villaggio lo accolse con un odore di legno umido e tè tostato. Le strade strette, i tetti spioventi, le lanterne di carta che ondeggiavano leggere: ogni cosa sembrava costruita per trattenere il respiro del tempo.
Affittò una stanza in un ryokan gestito da una donna anziana che parlava poco, ma sorrideva come se conoscesse da sempre il motivo per cui lui era lì. Tatami morbidi sotto i piedi nudi, futon piegati con cura, il profumo leggero dell’incenso: era un mondo che non chiedeva nulla, se non di fermarsi.
La mattina seguente, con un passo incerto, raggiunse la foresta.
Il sentiero di pietre era bagnato di rugiada. Il sole filtrava tra i fusti altissimi dei bambù, creando lame di luce che oscillavano al vento.
Ogni passo produceva un suono diverso: il fruscio delle foglie, lo scricchiolio dei rami secchi, il canto di un corvo lontano.
Antonio camminava lentamente, respirando a pieni polmoni.
E lì, tra i bambù, sentì per la prima volta quel suono.
Un flauto.
Lontano, lieve. O forse era solo il vento.
Si fermò. Chiuse gli occhi. Ascoltò.
Il suono era lì, appena percettibile, come un respiro che non gli apparteneva.
Tornò al ryokan quella sera con una sensazione nuova: per la prima volta da anni, aveva l’impressione di non essere solo.
Capitolo 2 – Il suono che conosceva il cuore
La seconda notte, Antonio non riuscì a dormire.
Il suono del flauto – o del vento? – gli rimaneva nelle orecchie, come un sussurro che non voleva tacere. Si alzò dal futon e aprì la finestra. Il cielo era velato di nubi, eppure la foresta sembrava brillare di una luce propria.
La mattina successiva tornò tra i bambù, più a fondo, lungo un sentiero che non aveva ancora percorso.
Il vento passava tra i fusti sottili, e il suono si faceva più intenso.
C’era qualcosa di strano: più i suoi pensieri si agitavano – il ricordo dei figli lontani, della moglie che non c’era più – più il suono diventava tremulo, quasi spezzato.
Quando invece riusciva a respirare con calma, lasciando che il dolore si sciogliesse in silenzio, il flauto suonava limpido, puro, come se la foresta intera stesse cantando.
Si fermò davanti a un bambù piegato, che sembrava distinto dagli altri.
Lì trovò un biglietto, legato con un filo rosso.
La carta era sottile, ingiallita, ma la calligrafia… perfetta, elegante.
“Il vento custodisce ciò che non diciamo.
Scrivi. Lascia. Ascolta.”
Non c’era firma.
Antonio rimase immobile, con il foglio tra le mani.
Non capiva chi lo avesse lasciato lì, né perché sembrasse indirizzato proprio a lui.
Ma sentì, senza potersi opporre, che quelle parole chiedevano risposta.
Quella sera, nel silenzio della sua stanza, prese un foglio del suo taccuino.
E scrisse.
Una frase soltanto.
“Perdonami per tutto ciò che non ti ho detto.”
Il giorno dopo, appese il foglio allo stesso bambù, legandolo con un pezzo di spago trovato in tasca.
Poi chiuse gli occhi e ascoltò.
Il flauto suonava limpido, come se avesse atteso proprio quel gesto.
Capitolo 3 – I rimpianti che sanno parlare
Da quel giorno, la routine di Antonio cambiò.
Ogni mattina percorreva il sentiero che portava al bambù piegato, quello che ormai sentiva come suo.
Ogni sera, prima di dormire, scriveva una frase.
Un ricordo.
Un rimpianto.
Una colpa che non aveva mai confessato.
“Non sono stato accanto a mio padre quando ne aveva bisogno.”
“Avrei dovuto ascoltare di più i miei figli.”
“Ho promesso viaggi che non abbiamo mai fatto.”
All’inizio le frasi erano brevi, quasi trattenute.
Poi, col passare dei giorni, divennero più lunghe, più sincere, come se il foglio potesse sopportare il peso di tutto ciò che lui non aveva mai osato dire a nessuno.
E il suono…
Il suono cambiava.
Non era più solo un’eco lontana: era vicino, chiaro, a volte sembrava muoversi attorno a lui, seguendo il ritmo del suo respiro.
Quando scriveva qualcosa di particolarmente doloroso, il flauto gemeva, acuto.
Quando lasciava andare, il suono diventava dolce, come una carezza.
Una notte di pioggia, Antonio fece un sogno.
Camminava nella foresta, i piedi nudi sul terreno bagnato.
I bambù erano più alti, più fitti, e il flauto non proveniva da un punto preciso: era ovunque.
E poi la vide.
Una figura vestita di bianco.
Un kimono semplice, i capelli raccolti in uno chignon basso, il volto appena sfiorato dalla luce lunare.
Non parlava, ma lo guardava.
Negli occhi – se davvero erano occhi – Antonio lesse qualcosa che non vedeva da anni: comprensione.
La figura chinò lentamente il capo, come in segno di saluto.
E svanì, nel suono del flauto che continuava a suonare, anche nel sogno.
Antonio si svegliò con il cuore che batteva forte.
Si avvicinò alla finestra.
Il vento aveva smesso di soffiare.
Eppure, giurerebbe di aver sentito ancora una nota, sottile, provenire dalla foresta.
Capitolo 4 – Il volto tra i bambù
Le notti successive Antonio non riuscì più a dormire profondamente.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, rivedeva la figura del sogno: il kimono bianco, i capelli raccolti, il volto indefinito eppure incredibilmente familiare.
Non era paura, non del tutto.
Era qualcosa di più sottile: il richiamo di una verità che non sapeva nominare.
La mattina seguente, tornò nel bosco con un passo diverso, quasi febbrile.
Il sentiero che conosceva sembrava cambiato: i bambù, quella volta, sembravano più fitti, come se volessero condurlo altrove.
E lì, vicino al suo solito albero, trovò un nuovo biglietto.
“Il silenzio non è vuoto.
È ciò che resta quando smettiamo di fuggire.”
Antonio lesse e rilesse quelle parole, mentre il cuore gli batteva in gola.
Chi le lasciava? E perché sembravano rispondere ai suoi pensieri, ai suoi sogni, ai suoi tormenti più nascosti?
Quella sera, anziché tornare subito al ryokan, rimase nella foresta.
Seduto a terra, ascoltava.
Il flauto era lì. Più vicino. Così vicino che a un certo punto sentì quasi di poter distinguere il suono dei tasti, il respiro di chi lo suonava.
“Chi sei?”, sussurrò, senza sapere se stava parlando con il vento, con un fantasma, o con se stesso.
Nessuna risposta. Solo una melodia lunga, malinconica, che gli scese dentro come un fiume.
Quando rientrò nella sua stanza, la donna del ryokan lo guardò come se sapesse.
“Ha incontrato… qualcuno?” disse, in un inglese stentato.
Antonio non rispose.
Non avrebbe saputo spiegare.
Ma quella notte sognò di nuovo.
Stessa figura, stesso sguardo.
Questa volta, però, la sentì parlare.
“Non sei venuto qui solo per ricordare.
Sei venuto per lasciare andare.”
Al risveglio, aveva le mani tremanti.
E un pensiero che non riusciva a scacciare: quella voce… somigliava terribilmente a quella di sua moglie.
Capitolo 5 – Il messaggio che non si può rimandare
Il giorno dopo, Antonio si svegliò con una sola idea: raggiungere il punto più profondo della foresta, là dove il sentiero smetteva di essere sentiero.
L’aria era più fredda, intrisa di un odore di muschio e terra bagnata. Il vento soffiava piano, come un respiro controllato. Il suono del flauto non era più intermittente: era costante, pieno, come se qualcuno stesse suonando per lui, e solo per lui.
Camminò finché le gambe non gli bruciarono.
E lì, su un bambù isolato, trovò un ultimo biglietto.
“Quando sei pronto, scrivi l’unica frase che hai sempre avuto paura di dire.”
Antonio rimase immobile a lungo, le mani che stringevano il foglio mentre la memoria si apriva come una ferita.
C’erano tante frasi che avrebbe potuto scegliere: “Perdonami”, “Mi manchi”, “Non so vivere senza di te”.
Ma sapeva quale fosse la più vera.
Tornò al ryokan, prese il suo taccuino e scrisse lentamente, con una calligrafia incerta:
“Ti ho amata più di quanto io stesso sappia ammettere.”
Legò il foglio con un pezzo di spago e, al tramonto, tornò al bambù piegato.
Lo appese.
Chiuse gli occhi.
Il vento cessò.
Il suono del flauto divenne limpido, profondo, come se tutta la foresta stesse suonando per lui.
E poi, per un istante, la sentì.
Una mano calda sulla sua spalla.
Un profumo leggero di fiori di susino.
E una voce che non aveva bisogno di parole per dirgli: “Va bene così.”
Antonio rimase lì, a lungo, finché la notte non inghiottì ogni cosa.
E per la prima volta da anni, non sentì più il peso del rimpianto.
Epilogo – Tra le foglie che sanno ascoltare
La mattina successiva, la foresta era immobile.
Il vento taceva.
Il flauto non suonava più.
Antonio rimase fermo davanti al suo bambù, quello che ormai sentiva come parte di sé. Non prese il biglietto che aveva appeso la sera prima: non ce n’era bisogno. Quella frase non era solo sua, non lo era più da quando l’aveva lasciata lì.
Tornò al ryokan, preparò la valigia.
Quando la proprietaria lo salutò, chinando il capo con la discrezione di chi conosce i segreti degli altri senza doverli chiedere, Antonio rispose con un sorriso che non gli apparteneva da anni.
Sulla via del ritorno, la città di Kyoto gli apparve diversa. Non caotica, non estranea: viva. Il brusio dei passanti, il profumo dei takoyaki, il calore del sole sulle mani – ogni cosa aveva il peso semplice e pieno di ciò che è presente.
Prima di partire, scrisse ancora un ultimo messaggio, che lasciò nella cassetta di legno accanto al tempietto all’ingresso della foresta:
“Tornerò a casa.
Ma una parte di me resterà qui, tra le foglie che sanno ascoltare.”
Oggi, se cammini ad Arashiyama all’alba, quando la luce è ancora morbida e i sentieri sono deserti, potresti sentire un suono sottile tra i bambù.
Un flauto che non ha musicista, ma conosce il cuore di chi ascolta.
E, se guardi bene, potresti trovare un piccolo foglio appeso a un ramo.
Con parole che sembrano scritte proprio per te.
	
	
	
			
			

