I racconti di Yuki

Il tè con l’Imperatrice

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Le luci al neon del coworking di Ferrara tremolavano sulle pareti. Alessia appoggiò il palmo sul tavolo di quercia, sentendo il graffio della penna sul taccuino. Intorno a lei, scricchiolavano sedie di legno e si udiva il ronzio dei computer: notifiche, email, commenti. In quell’andirivieni digitale, il suo respiro era diventato ansimante.

Scorse, tra bozze di articoli e tazze di caffè gelato, l’invito: “Una settimana di chanoyu a Kyoto”. Le dita le sfiorarono il foglio, come tastando un oggetto fragile. Il suo istinto le sussurrò che quell’“ok” avrebbe potuto rompere quel vuoto che percepiva.

La mattina prima della partenza, Alessia camminò lungo le mura medievali, il vento di maggio le scompigliò i capelli. Vide i riflessi dorati del sole sul Po, e per un attimo il tempo parve arrestarsi: non un’abitudine, ma una carezza. Raccolse una foglia di ginkgo caduta e la tenne tra le dita prima di lasciarla scivolare nell’acqua.

Quella sera, impacchettò libri di poesia, il taccuino e due kimono leggeri: il bianco del silenzio, il verde della speranza. Si voltò verso il piccolo studio, immaginando già il vuoto che quel viaggio avrebbe creato e poi colmato.
L’aereo sfiorò le luci di Osaka all’alba, come una nave che attracca in un porto sconosciuto. Scesa dalla scaletta, il profumo sconosciuto le avvolse i sensi.
A Kyoto, un’esplosione di colori, e odori.

Entrò nello roji, il “sentiero della rugiada”: terra umida, esalazioni di muschio. Ogni passo risuonava soltanto nel suo petto.

Il maestro Nakamura la accolse con un inchino misurato: un gesto che parlava più di mille parole.

Il tatami odorava di paglia fresca. Alessia si inginocchiò.
Nakamura Sōhei entrò nel tatami con un fruscio di kimono color cenere; posò due dita sul bordo della ciotola fumante, come a misurarne il respiro, e in quell’istante l’intera sala tacque.

Le rughe sottili agli angoli degli occhi parlavano di decenni trascorsi a piegare il tempo in gesti essenziali; al polso, un bracciale di cipresso consumato dai rituali di un antico tempio batté piano contro la ceramica, ricordando a tutti che ogni cosa, se custodita con rispetto, può continuare a servire il silenzio.

Alessia cercava di concentrare lo sguardo sul maestro, che insegnava la postura delle mani: pollice e indice uniti, palmo concavo.

Provi, disse.
Versò l’acqua con un gesto flessuoso, ma la ciotola cadde con un tonfo sordo.

Il maestro chinò il capo, poi le porse un fazzoletto di seta: “Non nascondere l’errore; mostrane la bellezza.”
Alessia asciugò a fatica le lacrime, fu assalita da sorpresa, imbarazzo e un filo di senso di colpa; ma avvertì anche un seme di calma crescere dentro.

Al terzo giorno il silenzio era diventato un compagno. Ogni mattina, Alessia spazzava pietre minute dal giardino, ascoltando il fruscio delle foglie. Decifrava il ritmo del cielo e sentiva il proprio ritmo piegarsi a quel respiro collettivo.

Quando il maestro la chiamò davanti alla “Imperatrice”, il petto le si serrò. Miyako sedeva su un cuscino di broccato, la pelle del collo tesa sotto il kimono bianco. Gli occhi le sorridevano senza parlare.

Con mani leggermente tremanti, Alessia raccolse il chasen e setacciò la polvere verde.
Il silenzio pesava come una campana, eppure ogni suono, il gorgoglio dell’acqua, il fruscio del bambù, il battito del suo cuore, si fece nitido.

Quando Miyako accostò la ciotola alle labbra, Alessia chiuse gli occhi e vide: una bambina in un cortile di Tokyo, che danzava sotto i ciliegi, un giovane poeta veneziano che descriveva la rosa rossa come “mare di fuoco”. E ancora, la guerra divenuta ricordo, l’arte come rifugio.

Aprì gli occhi e notò la minuscola crepa nella ceramica: un segno imperfetto, un segno di vita. Senza pensarci, inclinò la testa e disse: “Arigatō… per avermi insegnato a guardare.”

Il giorno prima della partenza, Alessia scrisse nel taccuino con la calligrafia incerta:

“La vera maestria non è nel gesto perfetto, ma nel respirare il silenzio.”

Spazzò via la polvere di tè, prese commiato dal maestro e da Miyako. Nel giardino, un petalo rosa si adagió sull’acqua del catino: un benvenuto e un addio.

A Ferrara, la scrivania era immutata, ma dentro Alessia tutto vibrava diversamente. Poteva sentire, persino lì, il lento respiro del chanoyu. Inserì il microfono e iniziò a raccontare, a tessere immagini di foglie e broccati, di gesti antichi che parlavano più forte di ogni parola.

Sul tavolo, la tazza di matcha fumante brillava come un faro: un richiamo a fermarsi, ad ascoltare. E mentre digitava le prime righe del reportage, un sorriso le sfiorò le labbra. Il silenzio, aveva capito, è la poesia che sussurra fra le pieghe del mondo.

 

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