Le notti di Kyoto

Sekigahara

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Quella sera, alla Locanda della Luna, Aya aveva chiesto all’amica Nao di darle una mano in taverna. Il signor Okabe aveva deciso di festeggiare con i suoi colleghi la recente promozione a capo turno. Non era certo un avanzamento straordinario nella sua carriera di guardia privata, ma conoscendolo, qualsiasi occasione era buona per alzare un bicchiere in compagnia.
Il sakè scorreva abbondante tra i tavoli degli amici di Okabe, tanto più che quella sera era lui a offrire. Yoru, infastidito dai canti chiassosi di quell’allegra brigata, trovò rifugio nel magazzino della taverna, lontano dall’invadenza degli umani.
Anche la signora Fumiko, solitamente riservata, cedette alla vivacità della serata, abbandonando il suo consueto tè per concedersi due bicchierini di ottimo Awamori di Okinawa. Aya e Nao rimasero sorprese nel sentire l’anziana signora unirsi ai canti di quei maschiacci. Certo, quelle canzoni non avevano nulla a che fare con la solennità della shōmyō buddhista…
Quando l’orologio segnò l’una di notte, gli ultimi ospiti lasciarono il locale, sorreggendo un Okabe ormai ebbro che rideva, proclamando a gran voce: «Sono l’ultimo samuraiiii!»
«È stata una bella serata, Aya-san, grazie di tutto!» disse il più sobrio del gruppo, con un sorriso riconoscente.
Si erano comportati bene dopotutto, un po’ brilli, certo, ma sempre rispettosi.
Nao, però, aveva qualcosa in mente. «Si può sapere cos’hai combinato, Aya?» le chiese, con un filo di preoccupazione.
«Che vuoi dire?» rispose lei, facendo finta di nulla. Ma dentro di sé, non riusciva a scacciare il ricordo della visita inquietante dei Kappa dell’altra notte… e poi l’intervento di Jojo-yo. “Quel tengu è davvero strano”, pensò. “Però, fortunatamente, passava di lì per caso…”
Dopo aver ripulito e sistemato il locale, Aya e Nao uscirono insieme per una breve passeggiata fino a casa di Nao.
«Non vuoi fermarti a dormire qui stanotte?» le chiese l’amica con affetto.
Aya scosse la testa. «Un’altra volta, non ho nemmeno avvisato mamma e papà. Grazie comunque.»
«Come vuoi… allora buonanotte.»

Aya riprese la strada verso casa, con Yoru al suo fianco. Il silenzio della notte era una benedizione per il gatto, dopo il frastuono della serata. Kyoto, in quella zona, sembrava un luogo sospeso nel tempo, un quartiere incantato, quasi isolato dal resto del mondo… e forse non era poi solo un’impressione.
La notte avvolgeva le strade con il suo silenzio denso, rotto solo dal fruscio delle lanterne che ondeggiavano sotto la carezza di una brezza improvvisa. Fu in quella strana quiete che una voce femminile, intrisa di malinconia, ruppe il silenzio.
«Chi siete voi che avanzate? Una strana ragazza dagli occhi verdi e un gatto ancora più strano!»
Aya si fermò di colpo. Davanti a loro, era apparsa una donna sui trent’anni, con i capelli raccolti in uno chignon elegante e abiti moderni. Per un istante, si rassicurò: certamente non poteva essere uno spettro dell’epoca Muromachi.
Sorrise, ma il miagolio sorpreso di Yoru la fece trasalire. «Miaooooooo!»
Fu allora che Aya comprese che anche quella notte non sarebbe stata normale.
La donna aveva un portamento raffinato, uno sguardo gentile… ma il suo collo si allungava innaturalmente nell’oscurità, elevandosi di almeno due metri sopra di loro. Un sussurro sfuggì alle labbra di Aya.
«Sei una Rokurokubi?»

Un sospiro velato di tristezza increspò l’aria mentre la donna abbassava lo sguardo.
«Sì, mia cara, ma non sono sempre stata così… da bimba non lo ero e non sono nemmeno uno spettro. Sono viva quanto te e il tuo gatto, ma su di me grava una terribile maledizione.»
Aya si fermò, osservandola con attenzione, poi si sedette su una panchina di legno, proprio sotto le fronde maestose di un Ginkgo secolare. Yoru si acciambellò accanto a lei, gli occhi socchiusi nel silenzio della notte.
«Posso sedermi accanto a te? O ti faccio paura?» domandò la donna con timida esitazione. La sua testa ondeggiava lievemente, seguendo il movimento involontario del lungo collo.
Aya la studiò per un istante, poi accennò un sorriso. «Certo, signora. E non ho paura, e nemmeno il mio gatto. Siamo, per così dire, abituati a certi incontri insoliti. Vero, Yoru?»
Il felino si limitò a grattarsi un orecchio con eleganza, come se la questione non lo riguardasse affatto.
La donna si accomodò accanto a lei, lasciando che il suo sguardo errasse nel buio. «Sai, di giorno conduco una vita normale… lavoro come impiegata in una piccola azienda nel centro di Kyoto e sono anche sposata. Ma di notte, la mia maledizione prende il sopravvento. Esco di casa e vago fino all’alba, per non disturbare il sonno di Akira, mio marito.»
Aya inclinò la testa. «Akira lo sa?»
«Oh sì… Akira sa tutto. Per amore, ha accettato questa mia condizione. E poi… la mia dannazione è quasi al termine.»
Aya si irrigidì. «Cosa significa? Può dirmelo?»
«Certo, cara. Devi sapere che esistono diversi modi per diventare una yōkai. A me, per fortuna, è capitato quello più benevolo, se così si può dire…»
Aya sentì un fremito di curiosità attraversarle la mente. «La storia si fa interessante… la prego, continui.»
La donna annuì lentamente. «Io sono l’ultima discendente di una donna, Akane, che ebbe l’ardire di insultare un Kami.»
Aya trattenne il respiro. «Come accadde, Akane-san?»
Le palpebre della Rokurokubi si abbassarono appena, e il passato prese forma tra le sue parole, scivolando nell’ombra della notte.

Battaglia di Sekigahara – 21 ottobre 1600

Fu il giorno in cui il destino del Giappone venne deciso in un’unica, titanica battaglia.
Il mattino del 21 ottobre 1600 si levò cupo. Il cielo, gravido di foschia, sembrava trattenere il respiro, mentre un vento gelido serpeggiava tra le colline di Sekigahara. La terra umida e fangosa sarebbe presto stata intrisa del sangue di migliaia di uomini.
Nella valle stretta tra le montagne, si schieravano due eserciti pronti a combattere per il dominio del paese. A est, l’armata di Tokugawa Ieyasu, stratega implacabile, forte di 74.000 uomini guidati da generali fedeli e guerrieri valorosi. A ovest, l’esercito di Ishida Mitsunari, brillante ma odiato da molti, con 82.000 soldati, tra cui fieri samurai e ronin pronti a difendere l’ultimo baluardo contro l’ascesa dei Tokugawa.
Dalle nebbie mattutine si levò il rullo cupo dei taiko, i tamburi di guerra. Poi, le urla dei samurai squarciarono l’aria. Nel giro di pochi istanti, la pianura si trasformò in un inferno di ferro e sangue. Cavalli stramazzati nel fango, uomini che gridavano le loro ultime preghiere, il clangore delle lame che si scontravano, illuminando l’oscurità della battaglia.
In quel vortice di caos e morte, Daiki, un giovane samurai dell’armata occidentale, appena un ragazzo ma con l’animo d’acciaio, si lanciò contro la furia nemica, fendendo avversari come foglie d’autunno sospinte dal vento. Ieyasu aveva promesso terre e ricchezze ai traditori, e molti del fronte occidentale abbandonarono Mitsunari. Ma Daiki rimase. Fedele al suo onore, combatté fino all’ultimo respiro.
Quando la lama di un samurai di Tokugawa gli trafisse il fianco, il giovane cadde sulle ginocchia. Ma con un ultimo grido, affondò la sua spada nel nemico. Il suo sangue tingeva la terra scura, e il vento sembrò portare via il suo spirito, danzando tra le montagne. Il suo ultimo pensiero fu per la donna amata.
«Akane…»
Fu così che la battaglia di Sekigahara decretò la vittoria di Tokugawa Ieyasu, inaugurando l’inizio di un nuovo shogunato.

«L’attesa della mia antenata fu lunga, carica di angoscia. Infine, qualcuno si fece avanti tra i sopravvissuti. La sua voce era un sussurro tremante, appena udibile sopra il vento che soffiava dalle colline di Sekigahara. Daiki era caduto.»
Una lacrima le solcò il bel volto.
«Il suo Daiki giaceva ora immobile, perso tra i cadaveri disseminati sulla pianura insanguinata. Un dolore lancinante si fece strada nel cuore di Akane. Le gambe presero a muoversi da sole, come spinte da un impulso disperato. Corse su per il pendio fino al piccolo santuario dedicato a un antico kami. Il respiro le incendiava la gola, il cuore martellava nel petto.»
Aya sentì un’ondata di tristezza sommergerla e accarezzò Yoru, che ascoltava silenzioso.
«Akane gridò: “Perché?” e le lacrime erano un fiume caldo sul suo volto.»
«Perché non hai protetto Daiki? Credevamo in te! Sei un traditore spietato!»
Ad Aya sembrò di vedere quella tragica scena, tanto era immersa nel racconto di Akane.
«Un’ombra calò sulla terra, densa e minacciosa. Il kami, offeso nel suo potere e nella sua sacralità, si manifestò. Era un corvo, enorme e imponente, con piume nere come la notte e occhi ardenti come fiamme vive. “Amore e guerra sono fili intrecciati nel destino del mondo, mortale.”»
«La sua voce era un tuono, una sentenza ineluttabile. “Hai osato oltraggiarmi, e per questo, maledico la tua stirpe. Per secoli, il dolore che ti attanaglia si manifesterà nella carne delle tue discendenti.”»
«Un vento gelido si levò e, con quell’ultima, disperata imprecazione, Akane condannò tutte le donne della sua linea di sangue. Per centinaia d’anni, nelle ore oscure, il loro collo si sarebbe allungato, come le ombre del suo inconsolabile lutto.»
Aya rabbrividì quando la Rokurokubi riaprì gli occhi. Il velo del passato si dissolveva lentamente, ma il peso della maledizione sembrava ancora sospeso nell’aria.
«Secoli di sofferenza,» mormorò la donna, «un fardello tramandato di madre in figlia, nato dal cuore spezzato di Akane…»
Yoru agitò la coda con un fremito, i suoi occhi di giada brillavano nella penombra.
Aya inspirò profondamente. «Ci sarà una soluzione?» La sua voce tremava appena.
«Deve esserci un modo per spezzare questa catena.»
La Rokurokubi sollevò il capo. Per la prima volta da anni, una scintilla di speranza brillò nei suoi occhi velati di tristezza.
«Sì, mia cara fanciulla dagli occhi verdi…»

La sua voce era un soffio, una promessa appena percettibile.
«La ragione è proprio davanti a me.»
Aya ascoltò in silenzio.
«Quando ero bambina,» iniziò la donna, «andai con i miei genitori a Okinawa per visitare mio nonno, il padre di mia madre. Sarebbe morto di lì a poco… Durante quel viaggio, incontrammo una donna molto vecchia, una sciamana del culto di Amamikiyo, l’antica dea.
Quella donna mi predisse qualcosa. Disse che, se una notte avessi incontrato una fanciulla dagli occhi stranamente verdi, la maledizione sarebbe cessata il 21 ottobre di quell’anno, nell’anniversario della battaglia di Sekigahara.»
Un silenzio inquietante si distese tra loro, denso come la foschia di Kyoto.
«Ed ora, finalmente… tu sei qui.»
Aya sentì il cuore martellarle nel petto.
«Io…»
«Non dire nulla.»
La donna le posò due dita sulle labbra, con dolcezza, invitandola ad ascoltare.
«Dimmi solo il tuo nome.»
Aya deglutì. «Mi chiamo Aya…»
La Rokurokubi annuì lentamente, poi continuò:
«Ascoltami, Aya-chan. Tu sei speciale, e questo lo sai. Come altri incontri che hai fatto e farai nelle notti di Kyoto, questo non è dovuto al caso. Ora devo tornare da Akira… probabilmente è sveglio e preoccupato. Prima di andare, però, devo dirti una cosa che quella vecchia sciamana mi sussurrò. Riguarda te.»
Aya sentì un brivido scorrerle lungo la schiena.
La Rokurokubi abbassò lo sguardo, poi pronunciò la profezia con voce appena percettibile:
«La fanciulla dagli occhi verdi porterà in sé due destini!»
«Questo predisse la vecchia,» continuò, «e aggiunse che saresti stata costretta a fare una scelta. Da questa decisione dipenderanno i destini di coloro che ami.»
Aya stringeva Yoru contro di sé.
«Non capisco… cosa significa?»
«Non lo so,» sussurrò la Rokurokubi, «credo che dovrai scoprirlo tu.»
Il vento si sollevò, solleticando le lanterne sospese.
L’ombra della Rokurokubi sembrò dissolversi piano nell’oscurità della notte.
«Per ora, grazie… e spero di rivederti.»
Aya rimase ferma, mentre la figura della donna svaniva tra le strade silenziose.

La notte continuava il suo corso, ma qualcosa era cambiato.
Una folata improvvisa fece rabbrividire Aya.
Cosa l’aspettava nell’ombra?
«Andiamo a casa, Yoru. Mi è venuto freddo.»
Il gatto sollevò gli occhi verso il Ginkgo, rimasto immobile e silenzioso, come se avesse ascoltato ogni parola.
«Non è solo il freddo, Aya-chan…» pensò Yoru, le sue pupille scintillanti nella penombra.

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