I racconti di Yuki

Il custode delle gru

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Introduzione – Il lago delle mille gru

Giappone, prefettura di Nagano – Inizio inverno, epoca Shōwa tardiva (fine anni ’70)

L’aria odorava di carta e gelo.
Ogni respiro diventava una nuvola lieve, sospesa per un istante prima di svanire nel silenzio ovattato del mattino. Le colline innevate intorno al lago Somon si svegliavano lentamente, lasciando che la nebbia si stendesse sull’acqua come un kimono stropicciato dalla notte.

Il grande salice piangente, radicato sulla riva orientale, si curvava come in un inchino perpetuo, i suoi rami sottili stillavano cristalli di brina. Proprio lì, su un cuscino di paglia intrecciata, sedeva Yukio.

Il vecchio era una presenza antica quanto il lago stesso. Indossava sempre lo stesso haori di lana sbiadita, macchiato d’inchiostro e tè, e un berretto lavorato a maglia che lasciava intravedere i pochi fili d’argento dei suoi capelli. Ogni mattina, prima che il sole osasse riflettersi nell’acqua immobile, Yukio si accomodava con le ginocchia piegate e il busto diritto, come se il tempo non lo avesse mai incurvato. Davanti a sé, disposte con meticolosa cura, centinaia di gru di carta: blu pallido, avorio, arancio sbiadito. Alcune erano perfette, simili a sculture di porcellana; altre piegate con mano tremante, spigolose e vive.

Un fruscio costante accompagnava i suoi gesti: il suono del washi che si piega, si tende, si modella — come un linguaggio antico capace di custodire i desideri più silenziosi.

Nessuno sapeva da quanti anni Yukio si recasse lì. Alcuni dicevano che fosse nato accanto al lago, altri che fosse giunto da lontano per onorare una promessa che superava le stagioni, i conflitti, la morte stessa.

Quel giorno, tuttavia, l’inverno portava con sé un presagio.
Un mutamento, silenzioso quanto la neve che cade.
Una piccola ombra, scalza e minuta, stava per interrompere la ritualità del custode.
E con lei, qualcosa avrebbe cominciato a sciogliersi — nel cuore, nel ghiaccio, nell’aria.

Capitolo I – Il foglio stropicciato

Il passo era leggero, ma le orme lasciavano piccoli crateri nella neve fresca.

Yukio non sollevò lo sguardo. Continuò a piegare con dita ferme, sentendo l’umidità dell’alba posarsi sulla carta. Ogni piega aveva un suono distinto: uno schiocco morbido, un sussurro appena udibile. Un respiro del mondo che si lascia modellare.

Fu solo quando la presenza si fece vicina, abbastanza da spezzare la danza del silenzio, che alzò gli occhi.
Davanti a lui, una bambina.

Non più alta del suo bastone da passeggio, tremava appena, ma non di freddo. I capelli, scuri come le ombre del lago, le cadevano disordinati sul viso. Le guance scavate raccontavano in silenzio la fame, o forse solo la solitudine. Indossava un cappotto troppo grande per il suo corpo sottile, e tra le mani, stretto con una forza disperata, un foglio di carta stropicciato.

Yukio non parlò.
Né lo fece lei.

La osservò con occhi lenti, attenti. C’era qualcosa nel modo in cui le sue dita stringevano quel foglio: non la fragilità di un bambino, ma la determinazione di chi non vuole lasciar andare ciò che è importante.

Il lago, intanto, sembrava trattenere il fiato.
Le acque immobili riflettevano il cielo lattiginoso. Un corvo gridò in lontananza, poi il nulla.

Yukio allungò la mano verso il suo cestino di bambù e ne estrasse una gru azzurra. Non un azzurro vivo, ma quello sbiadito dei ricordi, come la carta lasciata al sole troppo a lungo.
La porse alla bambina, con un gesto lento, quasi cerimoniale.

Lei esitò.
Poi prese l’origami con entrambe le mani, come si riceve un dono sacro.
La osservò a lungo, senza parlare, poi si sedette accanto al vecchio, sullo stesso tappeto di paglia ormai umido di gelo.

Fu allora che Yukio notò: non tremava più.

La bambina aprì con cautela il foglio che aveva portato con sé.
Era macchiato, rovinato. Una delle pieghe si era strappata.
Ma lei, con un’espressione ostinata, lo piegò comunque.
Male.
Storto.
Disordinato.

Yukio la guardò dal lato dell’occhio. Non la fermò.
Il suo sguardo tornò al proprio origami, ma il suo udito — così abituato al silenzio — ascoltava attentamente.
Lo sfregare incerto della carta.
Il respiro della bambina, trattenuto, poi espirato.
Il battito sordo di un cuore che imparava a ricordare la speranza.

E quando, finalmente, lei completò la sua prima gru, anche se imperfetta, il vecchio sorrise piano.
La neve riprese a cadere — lenta, gentile.
Come se il cielo avesse atteso quel gesto per concedersi di nuovo al mondo.

Capitolo II – La danza delle mani

Nei giorni seguenti, la bambina tornò.
Ogni mattina, prima che il sole si levasse oltre le creste innevate, appariva sulla riva come un’ombra discreta, camminando tra gli alberi con passi sempre più sicuri.

Non portava altro con sé se non quella voglia muta di piegare.

Il silenzio tra lei e Yukio non era assenza, ma linguaggio.
Un linguaggio fatto di respiri condivisi, di gru allineate sulla coperta di paglia, di carta che si tende sotto dita ancora incerte.
Non servivano parole: c’era l’odore del washi, leggermente amarognolo, che impregnava le loro maniche; il profumo del tè al riso tostato che Yukio portava in un thermos di latta e che condivideva con lei a piccoli sorsi tiepidi.

Le mani della bambina cominciavano a cambiare.
Erano ancora piccole, ma non più esitanti.
Yukio osservava ogni gesto come un maestro di danza guarda il primo passo riuscito: la piega che finalmente seguiva la linea, il bordo che combaciava, l’angolo che non sfuggiva più.

Non elogiava, non correggeva.
Solo annuiva, a volte, appena.
E in quell’accenno di approvazione c’era tutta la gratitudine del mondo.

Una mattina, il vento si levò con più forza, piegando i rami del salice come se volesse scompigliare anche le certezze.
Le gru, posate in file regolari, iniziarono a sollevarsi una a una.
Prima tremavano, poi si sollevavano, leggere, in un turbine improvviso.

Yukio si alzò in piedi, cosa che non faceva da tempo, seguendo con lo sguardo quel volo.

La bambina si voltò verso di lui.
I suoi occhi, grandi e lucidi, riflettevano le gru che danzavano nel cielo grigio.

«Volano?» chiese.
Era la sua prima parola.

Yukio restò in silenzio, poi rispose con voce roca:
«Solo quelle che nascono da un desiderio vero.»

Lei abbassò lo sguardo verso le sue mani.
Le sfregò una contro l’altra, lentamente.
Poi prese un nuovo foglio.

Lo lisciò con cura.
E iniziò a piegare.

Fu in quel momento che Yukio comprese: quella bambina non stava solo imparando a piegare la carta.
Stava imparando a ricordare chi era.
Chi era stata.
E forse… chi voleva diventare.

Capitolo III – Il nome dimenticato

Il gelo di dicembre si fece più pungente.
Il lago, al mattino, era coperto da una sottile lastra di ghiaccio che crepitava sotto il peso degli aironi. Il respiro di Yukio si condensava in sbuffi densi, mentre il salice intorno a loro si spogliava dei suoi ultimi fili.

La bambina ora piegava con ritmo lento, ma preciso.
Aveva imparato a misurare i gesti come si misura il tempo: non con l’orologio, ma con il battito del cuore.

Yukio la osservava più spesso, ora.
Non con l’urgenza di sapere, ma con la curiosità gentile di chi riconosce in un altro una solitudine speculare.

Un giorno, mentre il tè si scaldava nel piccolo fornello a carbone, lui parlò.

«Hai un nome, piccola gru?»

Lei non rispose subito.
Continuò a piegare, il volto chino sul foglio azzurro, le labbra strette in una linea sottile.
Il silenzio si fece più fitto.
Poi, senza alzare gli occhi, sussurrò:

«L’ho dimenticato.»

Yukio non si stupì.
Molti bambini, dopo certe tempeste, dimenticano.
Non solo il nome, ma anche la voce con cui lo si pronunciava.

«Allora ne troveremo uno nuovo. Ma non oggi. Sarà la carta a dircelo.»

Lei lo guardò per la prima volta con stupore.
«La carta può parlare?»

«Ascolta quando la pieghi. Se lo fai col cuore, risponde.»

Quella notte, Yukio non dormì.
Nel piccolo ryokan dove alloggiava da anni, steso su un futon consumato, ripensava a quelle parole.
E al modo in cui lei lo guardava.
Non come si guarda un vecchio.
Ma come si guarda un sentiero nel bosco: con rispetto, e timore, e speranza.

Il mattino dopo, trovò la bambina già seduta sotto il salice.

Davanti a lei, una sola gru.

Non era perfetta.
Aveva un’ala più lunga dell’altra, un becco storto e una piega mal riuscita.

Ma sul dorso, con una calligrafia tremolante fatta con un pennellino troppo grande per quelle dita, una sola parola:

“Aya.”

Yukio sorrise.
Non disse nulla.
Si inginocchiò accanto a lei, e iniziò a piegare.

Capitolo IV – Sotto la neve, le verità

Il giorno che seguì fu il più freddo dell’anno.

La neve non scendeva più lieve come nei giorni precedenti: cadeva in larghi fiocchi pesanti, e il lago pareva scomparso sotto un velo opaco. Anche i suoni erano mutati: nessun uccello, nessun sussurro di vento. Solo il rumore ovattato della neve che si posava sul mondo.

Aya arrivò comunque.

Aveva avvolto un vecchio scialle di lana attorno alle spalle, troppo grande per lei, troppo leggero per quella stagione. Yukio, al suo arrivo, le porse la tazza di tè senza dire nulla.
La bambina la stringeva con entrambe le mani, cercando calore nel vapore.

Quel giorno non piegarono subito.
Sedettero fianco a fianco, guardando il bianco inghiottire le rive, i rami, i confini.

Fu Aya a parlare per prima.

«Le sento, sai… le voci.»

Yukio rimase immobile.

«Le gru. Quando volano… mi parlano. Ma non con parole. È come… come se mi ricordassero qualcosa.»

Il vecchio si voltò verso di lei, lentamente.
«Cosa ti ricordano, Aya?»

Lei abbassò gli occhi.

«Una stanza. Con molte voci… tutte uguali. E poi il silenzio. E io che corro. Qualcuno urla il mio nome, ma io non riesco a girarmi. È lì che ho dimenticato chi ero.»

Yukio si accorse allora di una piccola cicatrice dietro l’orecchio della bambina. Una linea sottile, appena percettibile.
La vide mentre lei si grattava piano, distratta.

Il cuore del vecchio si fece più pesante.
C’erano storie che aveva sentito.
Di bambini portati via, di centri che “curavano” il silenzio con la disciplina, l’isolamento, l’oblio.

Grattacieli lontani, città troppo grandi.
E poi il nulla.
Fino a una riva ghiacciata, un salice e una gru azzurra.

«Le voci non vanno scacciate,» disse Yukio.
«Vanno ascoltate. Anche quando fanno paura.»

Aya annuì.
Poi, senza aggiungere altro, prese un foglio rosso.
Lo lisciò con attenzione, e iniziò a piegare.

Quella sera, prima di andarsene, posò la gru sul palmo di Yukio.
Era perfetta. Precisa, netta.
Aveva scritto qualcosa sotto un’ala.

Il vecchio lesse in silenzio:

“Ricordo.”

Il vento si alzò.
E cinque gru, posate vicino al lago, presero il volo.

Capitolo V – Mille gru, un solo desiderio

Fu l’alba più chiara dell’inverno.

Le nuvole si erano ritirate come cortine, lasciando spazio a un cielo lavato di blu, limpido come uno specchio d’acqua. Il lago rifletteva ogni cosa: il salice spoglio, la figura curva di Yukio, la bambina rannicchiata accanto al fuoco.

Davanti a loro, le gru si erano moltiplicate.

Occupavano ogni superficie: il cesto di bambù, la coperta, i ciottoli ghiacciati, persino i rami più bassi del salice, dove il vento non arrivava. Erano centinaia, forse più. Di ogni colore e forma. Alcune piegate con mani sapienti, altre sbilenche e leggere come sogni acerbi.

Aya ne sollevò una con cautela.
Era fatta di carta di giornale.
Sulla pancia della gru si intravedeva ancora una riga stampata: “Sopravvissuta.”
La bambina la sfiorò con il dito.

Yukio, intanto, prendeva nota su un piccolo taccuino consunto.
Ogni desiderio, ogni nome sussurrato nei giorni precedenti, era stato annotato.

«Quante ne abbiamo fatte?» chiese lei.

Yukio socchiuse gli occhi.
«Quasi mille. Ma non è il numero che conta.»

«Allora cosa?»
La sua voce era ferma, quasi adulta.

«Conta l’intenzione con cui sono nate. Una sola, fatta col cuore, vale quanto mille piegate per dimenticare.»

Aya si fece silenziosa.
Poi si alzò in piedi.
Raccolse le sue prime gru, quelle storte, fragili, le più imperfette.
Le posò sulla neve, con cura.
E sussurrò, quasi impercettibile:

«Per chi ha perso la voce.
Per chi non sa dove andare.
Per chi aspetta ancora.»

Yukio la guardò senza muoversi.

Il vento soffiò.
Piano, all’inizio.
Poi con forza crescente.

Le gru cominciarono a sollevarsi. Una ad una.
Si staccavano dalla terra come piume, disegnando nel cielo un turbine di battiti.

Il cielo si riempì.
Sembravano stelle in pieno giorno.
Ali leggere che si libravano verso un altrove che nessuno poteva vedere, ma tutti potevano sentire.

Aya rise.
Una risata piena, rotonda.
Come un canto.

E Yukio, con gli occhi umidi e le mani giunte, seppe che in quel momento il suo desiderio si era compiuto.

Epilogo – Il custode e il cielo

Passarono gli anni.

Le stagioni scorrevano lente, come acqua sotto il ghiaccio.
Il salice sulla riva del lago aveva ripreso a fiorire ogni primavera, ma le sue fronde sembravano più sottili, come capelli d’argento che il tempo pettinava con cura.

Yukio non sedeva più ogni mattina sulla stuoia.
Il suo corpo si era fatto leggero come carta, e le sue mani non piegavano da tempo.

Ma le gru, quelle sì, continuavano ad apparire.

Qualcuno diceva che la bambina fosse tornata a vivere in città, che avesse un laboratorio di origami e che ogni anno, il giorno della prima neve, spedisse mille gru a chi ne aveva bisogno.
Altri parlavano di lei come di una leggenda — la bambina che fece volare i sogni di un villaggio intero.

Un giorno d’inverno, come quello in cui tutto era cominciato, una ragazza dai capelli scuri tornò al lago.
Camminava con passo deciso.
Aveva con sé un grande cestino, colmo di carta washi.

Si sedette sotto il salice, senza dire nulla.
Posò le mani sulle ginocchia, chiuse gli occhi.
E ascoltò.

Il vento soffiava piano, carezzando le fronde.
L’acqua del lago tremava, riflettendo un cielo grigio e silenzioso.

Poi, come in risposta, qualcosa si mosse.

Una sola gru, azzurra sbiadita, si sollevò da terra.
Non c’era vento sufficiente per farla volare.
Ma volò.

Si librò in aria con un battito invisibile, salendo verso l’alto, lasciando dietro di sé una scia di luce.

Aya sollevò il viso.
E sorrise.

Il desiderio più grande era stato esaudito.
Non per sé.
Non una volta sola.
Ma mille volte, per mille cuori dimenticati.

Nel silenzio del lago, sotto il cielo d’inverno, il custode continuava a vegliare.
Non con le mani, ma con ciò che aveva lasciato:
una promessa,
una memoria,
e un volo che non conosceva fine.

📚 Glossario 

Washi (和紙)

Carta tradizionale giapponese fatta a mano, ottenuta da fibre naturali come il kozo (gelso da carta). È resistente, sottile e leggermente traslucida. Utilizzata per origami, calligrafia, pittura e rituali.

Origami (折り紙)

L’arte giapponese di piegare la carta per creare forme, animali o oggetti simbolici senza usare colla né forbici. La gru è la figura più iconica, simbolo di pace, longevità e desideri esauditi.

Gru (tsuru – 鶴)

Simbolo sacro in Giappone. Nella tradizione si crede che piegare mille gru di carta (senbazuru) permetta di esprimere un desiderio profondo o ottenere guarigione. Sono anche offerte nei templi e nei memoriali di pace.

Haori (羽織)

Giacca tradizionale giapponese che si indossa sopra il kimono. Nel racconto, Yukio ne indossa una di lana, tipica delle zone montane o fredde.

Ryokan (旅館)

Locanda tradizionale giapponese con pavimenti in tatami, futon e spesso bagni termali (onsen). Yukio vive in un ryokan semplice, che richiama un Giappone d’altri tempi.

Senbazuru (千羽鶴)

Composizione di mille gru di carta unite da fili e offerte come preghiera. Secondo la leggenda, chi le piega tutte può esprimere un desiderio o portare conforto a chi soffre.

Shōwa (昭和)

Periodo storico giapponese che va dal 1926 al 1989, segnato da grandi trasformazioni: guerra, ricostruzione, boom economico. Il racconto è ambientato nella fase tarda di quest’epoca, negli anni ’70, in un Giappone sospeso tra modernità e memoria.

Aya (彩)

Nome femminile giapponese che significa “colore”, “disegno” o “intreccio”, a seconda dei kanji utilizzati. È scelto simbolicamente dalla bambina per indicare il ritorno alla memoria, all’identità e alla creatività.

Tè al riso tostato (Genmaicha – 玄米茶)

Tè verde miscelato con riso integrale tostato. Ha un sapore caldo e confortante, spesso associato alla semplicità della vita quotidiana e ai momenti di calma.

 

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