Un ritorno inatteso
Aya era rimasta in piedi dietro al bancone della taverna. Aveva appena salutato la signora Fumiko, uscita insieme a Nao che, con buon senso, aveva deciso di accompagnarla a casa: quella sera l’anziana aveva preferito il sakè al tè.
Yoru era ancora acciambellato sul mobile all’ingresso, immobile come una statuetta nera dagli occhi di giada. Anche Hana, la madre di Aya, era già rientrata dopo averla aiutata a sistemare tutto per la mattina seguente.
Per un attimo Aya si ritrovò completamente sola — fatta eccezione per Yoru — nella quiete profonda della taverna. Il silenzio la riportò a ciò che era accaduto negli ultimi mesi, e a come lei e la sua famiglia avevano ereditato locanda e taverna dopo la morte della signora Akiko.
“Mi mancherà Akiko…”, pensò, lasciandosi sfiorare dalla nostalgia.
Indossò un giubbotto pesante — il freddo cominciava a farsi sentire — e raggiunse Yoru, che si era appena svegliato e la attendeva vicino alla porta. Stava per chiudere, dopo aver inserito l’allarme — una delle innovazioni della nuova gestione — quando un rumore sordo alle sue spalle la fece voltare.
E la vide.
«Aya-san… ho bisogno di te.»
La voce era la stessa che aveva ascoltato molte notti prima nel parco, eppure pareva giungere da un punto più remoto della memoria. Ono-no-Komachi era lì, sospesa a mezza luce, come se la luna fosse rimasta impigliata tra i suoi capelli. Indossava ancora il jūnihitoe bianco; il riflesso diafano del suo volto rendeva più scure le ombre tutt’intorno. Tra le pieghe dell’abito, per un istante, Aya credette di scorgere la piccola Kaoru, la gatta dagli occhi spaiati — uno verde, uno blu. La visione svanì come vapore su uno specchio.
«Komachi-sama…» mormorò Aya, sentendo la gola secca. «Cosa succede?»
Yoru, sceso dal mobile, fissava l’apparizione con le pupille dilatate.
Il fantasma inclinò appena il capo, uno sguardo di antica malinconia e urgenza. «Uno spirito oscuro è fuggito dallo Yomi. La sua natura mi sfugge, ma so ciò che cerca: una pietra verde, uno smeraldo che apparteneva ai Kami Nascosti. Se dovesse raggiungerlo, l’equilibrio del mondo si incrinerebbe come vetro sotto il ghiaccio.»
Aya deglutì. «I… Kami Nascosti?»
«Non quelli dei testi, non quelli cui si rivolgono i riti nei templi di legno e nelle sale del santuario» rispose Komachi con voce bassa. «Altri, che si ritirano nel velo della foresta e sotto le acque, nelle pieghe non viste del cielo. Nascosti non per mancanza d’onore, ma per tenere — con silenziosa grazia — i confini. Puoi chiamarli così, come li chiamavano alcuni onmyōji di cui mi fidavo.»
Onmyōji. La parola scivolò nella taverna come una lama antica. Aya aveva letto di loro: maestri dell’onmyōdō — la via dello yin e dello yang, della divinazione, dei talismani, delle stelle —, echi di nomi come Abe no Seimei e Ashiya Dōman cuciti da secoli nella stoffa del Paese. Eppure Komachi parlava di una conoscenza più segreta.
«Perché mi dici tutto questo?» chiese Aya, una mano sul legno del bancone che all’improvviso le parve più freddo.
Komachi si avvicinò; la temperatura cambiò, come quando si aprono porte su corti interne in pieno inverno. «Per ragioni che non posso spiegarti ora, sei legata a quella pietra. La tua nascita, i tuoi occhi, i sussurri che a volte ti raggiungono quando tutto tace: tutto va nella stessa direzione. Tu sola puoi ritrovarla.»
Yoru emise un flebile miagolio.
«Non capisco. Cosa devo fare?»
Un’ombra di sorriso le sfiorò le labbra. «Vai a Nara. Da tua nonna, Saeko. Lei saprà spiegarti. Ma…»
Un ululato spaccò la notte.
Le vetrate tremarono in una vibrazione sottilissima. Yoru rizzò il pelo; l’allarme della taverna emise un bip secco, poi tacque.
Gli occhi di Komachi si velarono. «È troppo rischioso per me restare. Aya, ricordati della pietra. Vai a Nara, presto. Tua nonna ti dirà ciò che io non posso. Arrivederci, e che i kami veglino sul tuo cammino.»
Svanì, inghiottita dalle ombre.
Per un lungo istante Aya rimase immobile. Il respiro le pesava in petto. L’ululato non si ripeté. Fuori, Kyoto era già nell’autunno: dalle sue labbra usciva un filo di vapore. Le lanterne, ogni tanto, oscillavano nella corrente. Dentro, l’aria pareva trattenere un freddo rimasto addosso al legno.
«Yoru…» mormorò guardando il suo compagno. Lui la fissò a sua volta, perplesso, poi ruppe il silenzio con un miagolio. Era ora di andare a casa.
Attraversarono il quartiere guardandosi intorno con sospetto, attenti a eventuali ombre in movimento; Yoru avanti, in avanscoperta. Dopo un’interminabile camminata, la luce accogliente sulla porta di casa: un rifugio.
Hana sentì rientrare Aya e andò in cucina. Trovò la figlia che scaldava l’acqua per il tè.
«Aya? È successo qualcosa?»
«No, mamma, nulla. Solo stanchezza…» mentì, abbozzando un sorriso.
«Senti, mamma,» continuò, «come sta nonna Saeko?»
«L’ho sentita qualche giorno fa: i soliti acciacchi. Perché?»
«Vorrei andarla a trovare, cosa ne pensi?»
«Oh, a Saeko farà piacere. Ma come mai?»
«Così… mi mancano i suoi mochi. Se per te non è un problema, ci andrei questo fine settimana. Magari chiedo a Nao di coprire una sera in taverna.»
Hana assentì con la testa e, mentre Aya andava a dormire, la seguì con lo sguardo, pensierosa. Yoru la tallonò saltellando.
Prima di coricarsi sul futon, Aya aprì la finestra. La luna piena sembrava avere riflessi verdi — suggestione, forse, alimentata dalle parole di Komachi.
Quella notte dormì poco, e quel poco fu un sonno irrequieto: una strana pietra verde sospesa sopra le acque di un grande lago, immobile, la chiamava senza voce.


