
Il Tamburo della Luna
Il suono che non si dimentica
Giappone, Provincia di Mutsu — Anno 1728, 13° anno dell’era Kyōhō
La neve cadeva leggera come una nenia dimenticata. Avvolgeva tetti, pini e ponticelli con la grazia silenziosa di chi custodisce un segreto. Nel villaggio di Hanamura, aggrappato alle pendici delle montagne a nord, le lanterne tremolavano sotto il gelo, ma in una casa di legno annerito dal tempo, qualcosa ancora respirava oltre la quiete.
Seduta a gambe incrociate, con la schiena dritta e le mani posate sulle ginocchia, Akari ascoltava. Non con le orecchie, ma con il petto, con il ventre, con le ossa. Era cieca dalla nascita, ma distingueva i suoni come un artista legge i colori. Il crepitio del fuoco. Il fiato delle canne di bambù mosse dal vento. Il cigolio lontano di un tempio scintoista. E il battito. Il tamburo. Il suo tamburo.
Lo chiamava Tsukigoe, “Voce della Luna”. Non era uno strumento comune. Il legno proveniva da un cedro abbattuto nel cuore di un’eclissi. La pelle era quella di un cervo trovato senza ferite, accasciato sotto un torii. Nessuno conosceva il ritmo come lei, nessuno ne sapeva evocare gli spiriti. Per questo i monaci la chiamavano quando il lutto si faceva pesante, o quando l’inverno sembrava non voler finire. Perché lei, Akari, “colei che illumina”, aveva il dono di far vibrare le soglie invisibili.
Ma quella sera, il battito era diverso. Più lento. Più basso. Come un richiamo.
E da lontano, tra i sentieri innevati, qualcosa rispondeva.
Il monaco e la melodia spezzata
Il vento della sesta luna soffiava attraverso i rami come se cercasse qualcosa. Non tagliava, non graffiava: accarezzava, sussurrava. Era un vento che portava con sé odore di legno antico, d’incenso consumato, di ricordi che non volevano morire.
Akari sedeva su una roccia piatta, poco oltre il villaggio, il tamburo sulle ginocchia. Intorno a lei, solo neve, rocce e silenzio. Quel luogo — nessun sentiero, nessuna voce — era stato scelto dal tamburo stesso. Da giorni, infatti, Tsukigoe rifiutava di suonare. Le mani di Akari, di solito così certe, così lievi e potenti, scivolavano sul tamburo come estranee, senza ricevere risposta. Come se lo spirito dentro lo strumento stesse dormendo. O peggio: come se piangesse.
Fu allora che lo udì.
Passi lievi, ma decisi. Un bastone che toccava il suolo, un respiro trattenuto. Akari non si mosse, non parlò. Il silenzio è il linguaggio dei kami, e lei era abituata ad ascoltarlo prima di rompere l’aria con il suono.
«Sei tu, la donna che fa danzare i morti?»
La voce era roca, coperta di neve come il suo mantello. L’uomo non puzzava di sake né di paura: odorava di carta, pietra umida e cera. Un monaco pellegrino, forse, o qualcosa di più.
«Io suono ciò che viene chiesto» rispose Akari, senza voltarsi.
«Allora ascolta ciò che ti chiedo io» disse il monaco, porgendole un piccolo involto avvolto in lino blu.
La tessitura della stoffa era ruvida, antica. Le dita di Akari scorsero i nodi come fossero parole in braille. Dentro, qualcosa di duro e leggero: una pergamena. Non scritta. Incisa. In rilievo. Le sue dita scorsero solchi precisi, profondi, disegnati come linee di una melodia. Era… uno spartito. Non per flauto. Non per koto. Ma per tamburo. Un ritmo sconosciuto. Un richiamo antico.
«Questo è il kodama no uta. La canzone degli spiriti dell’eco. La suonavano prima delle guerre, prima dei templi. Ma nessuno osa più farlo» disse il monaco, abbassando il capo. «È proibita. Perché una volta suonata… qualcosa risponde.»
Akari non parlò. Il tamburo tra le sue mani era caldo. Per la prima volta dopo settimane, caldo come un petto vivo sotto la pelle.
La melodia spezzata era tornata. Ma cosa accade quando si ricompone qualcosa che voleva restare in frantumi?
Il tamburo e la volpe d’ombra
La notte era una coperta nera, trapunta di ghiaccio e canti lontani di civette.
Akari camminava scalza nel bosco. I piedi affondavano nella neve come in un tatami dimenticato, ma il freddo non le parlava: era l’attesa a sussurrarle nella carne. Aveva avvolto il tamburo nella seta nera delle cerimonie, la stessa con cui una volta si vestivano le danzatrici funebri. Il kodama no uta era inciso nella mente, riga per riga, battito per battito, come una preghiera che non si osa recitare ad alta voce.
Il bosco intorno non era solo un bosco. Chiunque fosse cresciuto in Mutsu lo sapeva. C’erano alberi che non avevano più foglie da cent’anni, ma non cadevano. Pietre che cambiavano posto dopo la pioggia. Torii nascosti da muschi antichi, ancora profumati d’incenso. Era la foresta di Kamisugawa, dove si diceva che le volpi pregavano sotto la luna.
Ed ecco che la luna sorse, bianca come un tamburo capovolto.
Akari si fermò. Un piccolo spiazzo circolare, circondato da cedri intrecciati come guardiani. Al centro, un ceppo bruciato, annerito come da un fulmine.
Si sedette.
Chiuse gli occhi.
Iniziò.
Il primo battito fu lieve, come un’onda che sfiora la riva. Il secondo, più profondo, fece vibrare le foglie secche ai suoi piedi. Il terzo… non lo fece lei.
Una zampa toccò il bordo del tamburo.
Akari trattenne il respiro. Una presenza le danzava attorno, invisibile agli occhi ma nitida nel cuore. Un suono di piume leggere, un odore di legna bruciata e fiori notturni. Poi un soffio. Un sussurro caldo, come di labbra vicine.
«Perché mi hai chiamata, cieca dai passi silenziosi?»
La voce era femminile. Antica. Seducente come pioggia d’estate.
Akari non rispose subito. Posò le mani sul tamburo, lasciandole lì, ferme, come se lo strumento stesso dovesse decidere.
«Non volevo. È stata la melodia a farlo.»
La figura si materializzò appena oltre la luce della luna. Una volpe — nera come inchiostro, con nove code che si dissolvenvano nell’aria — e occhi color ambra, fermi su di lei. Ma non era un animale. Era una kurokitsune, una volpe d’ombra. Spirito antico. Kami di passaggio. Custode di verità che uccidono, se dette troppo in fretta.
«Suona ancora, e io ti seguirò» disse la volpe, avanzando di un passo. «Ma ogni battito ha un prezzo, e ogni prezzo un ricordo. Sei pronta a perdere qualcosa per ogni nota che risveglierai?»
Akari non tremò. Né annuì.
Solo riprese a suonare. E il bosco — o forse il mondo intero — trattenne il fiato.
La melodia cresceva come una marea.
I colpi sul tamburo non erano più semplici suoni. Erano parole antiche, pulsazioni che penetravano nel respiro degli alberi, nelle crepe delle pietre, nelle radici sepolte. Ogni battito liberava qualcosa: un sospiro trattenuto, una preghiera mai pronunciata, una memoria.
Il bosco di Kamisugawa si stava svegliando.
Akari non vedeva, ma sentiva. Le cortecce scricchiolavano, come se mani invisibili le accarezzassero. I rami si piegavano al ritmo, senza vento. Le volpi — almeno tre, forse cinque, forse cento — si radunavano in silenzio ai margini dello spiazzo. Solo la nera, la kurokitsune, si muoveva. Girava in cerchio attorno ad Akari, ora lenta, ora rapida, le code come pennelli d’inchiostro che scrivevano versi sull’aria.
Poi, il suono cambiò.
Non fu Akari a deciderlo. Fu il tamburo.
Tsukigoe vibrò sotto le sue mani come se fosse posseduto, e la melodia assunse un altro tempo. Più veloce. Più incalzante. Come se qualcosa stesse cercando di emergere… o di fuggire.
D’improvviso, un battito mancò.
Akari spalancò le mani: il tamburo si era zittito da solo.
E il silenzio fu assordante.
Le volpi scomparvero, tutte insieme, in un battito di ciglia. La luna si oscurò parzialmente, come coperta da un velo. E davanti a lei, al posto del ceppo, ora vi era un varco.
Non un portale, né un cancello. Una soglia fatta di ombre e luce, che pulsava come pelle viva. Da quella soglia, usciva un suono che Akari riconobbe subito.
Non era voce. Non era parola.
Era il suono che sognava da bambina, ogni volta che si addormentava stringendo il tamburo tra le braccia.
Una voce senza lingua le parlò da oltre la soglia.
“Se varchi, dimentichi. Se resti, ricordi.
Ma chi dimentica, perde.
E chi ricorda… offre.”
Akari abbassò le mani. Il tamburo tremava ancora.
Accanto a lei, la volpe d’ombra si fece donna.
Non completamente. Era corpo, ma anche fumo. Pelle, ma anche seta.
«Hai aperto la soglia delle mille voci» disse, senza esitare.
«Ora devi decidere: vuoi sapere perché il tamburo ha smesso di cantare? Allora entra. Ma sappi che là dentro non c’è solo il suono. C’è il tuo silenzio.»
Akari tese la mano. Non per toccare.
Per ascoltare.
La soglia dalle mille voci
La melodia cresceva come una marea.
I colpi sul tamburo non erano più semplici suoni. Erano parole antiche, pulsazioni che penetravano nel respiro degli alberi, nelle crepe delle pietre, nelle radici sepolte. Ogni battito liberava qualcosa: un sospiro trattenuto, una preghiera mai pronunciata, una memoria.
Il bosco di Kamisugawa si stava svegliando.
Akari non vedeva, ma sentiva. Le cortecce scricchiolavano, come se mani invisibili le accarezzassero. I rami si piegavano al ritmo, senza vento. Le volpi — almeno tre, forse cinque, forse cento — si radunavano in silenzio ai margini dello spiazzo. Solo la nera, la kurokitsune, si muoveva. Girava in cerchio attorno ad Akari, ora lenta, ora rapida, le code come pennelli d’inchiostro che scrivevano versi sull’aria.
Poi, il suono cambiò.
Non fu Akari a deciderlo. Fu il tamburo.
Tsukigoe vibrò sotto le sue mani come se fosse posseduto, e la melodia assunse un altro tempo. Più veloce. Più incalzante. Come se qualcosa stesse cercando di emergere… o di fuggire.
D’improvviso, un battito mancò.
Akari spalancò le mani: il tamburo si era zittito da solo.
E il silenzio fu assordante.
Le volpi scomparvero, tutte insieme, in un battito di ciglia. La luna si oscurò parzialmente, come coperta da un velo. E davanti a lei, al posto del ceppo, ora vi era un varco.
Non un portale, né un cancello. Una soglia fatta di ombre e luce, che pulsava come pelle viva. Da quella soglia, usciva un suono che Akari riconobbe subito.
Non era voce. Non era parola.
Era il suono che sognava da bambina, ogni volta che si addormentava stringendo il tamburo tra le braccia.
Una voce senza lingua le parlò da oltre la soglia.
“Se varchi, dimentichi. Se resti, ricordi.
Ma chi dimentica, perde.
E chi ricorda… offre.”
Akari abbassò le mani. Il tamburo tremava ancora.
Accanto a lei, la volpe d’ombra si fece donna.
Non completamente. Era corpo, ma anche fumo. Pelle, ma anche seta.
«Hai aperto la soglia delle mille voci» disse, senza esitare.
«Ora devi decidere: vuoi sapere perché il tamburo ha smesso di cantare? Allora entra. Ma sappi che là dentro non c’è solo il suono. C’è il tuo silenzio.»
Akari tese la mano. Non per toccare.
Per ascoltare.
Il ricordo che batte nel buio
Attraversò.
Non con i piedi, ma con il respiro. Bastò un passo oltre la soglia, e la realtà si piegò come carta sotto la pioggia. Il bosco sparì, e al suo posto si aprì un vuoto senza tempo, fatto di suoni sospesi, profumi dimenticati, battiti lontani. Akari non camminava: scivolava tra echi. Ogni eco era un ricordo, ma non suo.
Una madre che piangeva un figlio disperso in guerra.
Una geisha che danzava per l’ultima volta prima di scomparire.
Un contadino che offriva il suo tamburo al fuoco perché non suonasse mai più.
Un neonato abbandonato ai piedi di un torii innevato.
Quel neonato…
Quel suono…
Era il suo primo battito.
Akari si piegò in avanti, il fiato spezzato. Non era dolore. Era verità che faceva male.
Le mani cercarono il tamburo, ma non c’era. Non più. Al suo posto, le sue ossa battevano. Le costole, il petto, la pelle. Ogni parte di lei era tamburo. Lei era suono, e il suono era storia.
E poi udì lui.
Una voce profonda, ruvida come legno vecchio e miele scuro.
La voce di un uomo che non aveva mai visto, ma che il sangue riconobbe.
“Figlia. Io ti ho lasciata. Ma non per abbandonarti.
Ti ho affidata al ritmo, perché il suono custodisce ciò che la luce non sa.”
Lui era lì. Non davanti. Dentro.
Il tamburo era suo padre. O meglio: la pelle, il legno, il battito… erano i resti sacri di un tamburo che lui aveva costruito per non sparire. La leggenda del tamburo forgiato in eclissi, del cervo sotto al torii: non erano miti.
Erano memoria mascherata da favola.
Era lei il tamburo.
Era lei la figlia e l’erede.
Un urlo — seppur muto — la attraversò come vento in burrasca.
E poi, il silenzio. Ma un silenzio pieno, come dopo un canto sacro. Un silenzio che contiene. Che abbraccia. Che risponde.
La volpe apparve accanto a lei. Non più d’ombra. Ma di luce.
«Ora sai» disse, semplicemente.
Akari non aveva bisogno di parole.
Aveva il battito. Ed era tornato.
La danza degli spiriti
La neve tornò sotto i piedi. Il respiro dell’inverno riprese a fluire tra i cedri e le rocce. Akari era di nuovo nel bosco di Kamisugawa, inginocchiata al centro dello spiazzo, il tamburo tra le braccia.
Solo che non era più lo stesso.
La pelle di cervo brillava di una luce tenue, come se il tamburo conservasse ora il chiarore di una luna interiore. Il legno, caldo e vibrante, sembrava pulsare con un ritmo che non apparteneva né al mondo dei vivi né a quello degli spiriti, ma a una terra di mezzo che Akari ora abitava.
Non era più solo musicista. Era custode.
Attorno a lei, le volpi erano tornate. In cerchio. Silenziose. Ma non immobili. Una alla volta, iniziarono a muoversi. Saltelli, piegamenti, rotazioni — una danza. Antica, rituale, mai insegnata. Era il loro modo di pregare, di onorare. Di ringraziare.
Akari sollevò le mani. Il vento le sfiorava le dita.
Poi cominciò.
Il primo colpo fu leggero, ma penetrante. Come la prima goccia di pioggia su una pietra rovente. Il secondo fu un richiamo. Il terzo, una risposta. Poi il ritmo crebbe, si allargò, divenne cerchio.
I rami si piegavano, le cime degli alberi ondeggiavano come cortigiani in un inchino. Le lanterne al tempio, in lontananza, si accesero da sole.
E gli spiriti arrivarono.
Non come ombre spaventose. Ma come fiammelle che danzavano in silenzio tra le code delle volpi, tra le braccia nude degli alberi, tra i capelli di Akari. Erano ricordi, anime, antenati. Voci dimenticate che ora trovavano suono.
Uno spirito prese forma accanto a lei. Una figura maschile, vestita da artigiano, con le mani ancora sporche di resina e legno. Le sorrise. Non disse nulla. Non serviva.
Akari danzava col tamburo. Le sue mani erano leggere, il corpo piegato, la schiena curvata in avanti come in un antico bugaku. Non era una performance. Era offerta.
La volpe, nel frattempo, sedeva ai margini, osservando. Non più guida, non più spettro, ma testimone.
Quando l’ultimo battito venne dato, il tempo si fermò.
Poi il vento riprese. La neve cadde.
Le volpi svanirono.
Gli spiriti si dispersero, come fumo al mattino.
Akari, sola, tenne il tamburo al petto. Sapeva che la vera musica non era ciò che aveva suonato, ma ciò che aveva risvegliato.
Tsukigoe
Il tamburo era tornato al silenzio. Ma non per stanchezza. Per pienezza.
Seduta sul tatami della sua casa, Akari passava le dita lungo il bordo dello strumento come si accarezza una guancia amata. Le notti nel bosco sembravano lontane, ma dentro di lei nulla era più lo stesso.
I villaggi vicini avevano ricominciato a chiamarla. Ma non per placare la morte o invocare i defunti. Ora la cercavano per ascoltare. Per ricordare. La sua musica non portava più solo conforto: risvegliava soglie.
Ogni volta che posava le mani su Tsukigoe, non suonava più per gli altri.
Suonava con gli altri.
Con gli spiriti. Con gli alberi. Con i battiti mai detti delle vite passate.
Un giorno, una bambina cieca fu portata da lei. Le dissero che non parlava da mesi. Akari le porse il tamburo. Non disse nulla.
La piccola toccò la pelle tesa, chiuse gli occhi… e sorrise.
Il tamburo aveva parlato.
Il suono che Akari aveva trovato non era per essere posseduto.
Era per essere trasmesso.
E così il ritmo proseguiva.
Sottile. Profondo.
Come la voce della luna che canta senza bisogno di parole.

