
Il respiro della foresta Il lamento del kami, racconto sulla foresta ferita
Nel mese di fumizuki, quando l’estate giapponese soffia vapore tra i rami e i corpi cercano l’ombra come rifugio sacro, c’è un momento in cui anche gli spiriti tacciono per ascoltare.
È luglio.
E nelle montagne silenziose della prefettura di Kumano, dove i cedri antichi sfiorano le nuvole e i muschi coprono le pietre come pelle viva, si tramanda una leggenda che pochi osano ricordare ad alta voce:
“Quando la foresta smette di respirare, anche gli uomini perdono la strada.”
Ogni cento anni, raccontano i monaci del santuario Yamazato, il kami della montagna smette di parlare agli animali, agli alberi, all’acqua. Gli uccelli volano via, i cervi si allontanano. L’umidità si fa pesante come piombo, e la nebbia scende anche di giorno.
In quel tempo sospeso, una miko deve salire da sola, nel cuore del bosco sacro, per ascoltare il respiro spezzato del dio e capire come ristabilire l’armonia.
Quell’estate, toccò a lei.
A Sumire.
Una ragazza dalle dita leggere e dagli occhi scuri come la notte prima del temporale.
Ma nella foresta, nulla è come appare.
E non sempre chi ascolta esce come è entrato
L’incarico
La pioggia cadeva sottile, come aghi di luce sulla pietra.
Sumire camminava a piedi nudi sul sentiero umido che portava alla sala delle offerte. Ogni passo era un sussurro d’acqua, ogni respiro un equilibrio tra il caldo appiccicoso e l’odore del legno vecchio. Il bianco della sua veste era semplice, ma non candido: portava i segni del tatami, della cenere, del muschio.
Non parlava mai, se non quando necessario.
Eppure nel silenzio, il suo volto diceva tutto: lo sguardo basso ma vigile, le mani posate in grembo come foglie che conoscono il vento.
Aveva solo diciannove anni, ma la compostezza dei gesti tradiva anni di disciplina, forse un peso tramandato.
Il santuario Yamazato si ergeva a terrazze nella gola della montagna, nascosto tra cipressi e rocce. Il tetto era coperto da licheni, il portale torii scolorito dalla nebbia, e il piccolo stagno dietro l’edificio principale si riempiva di libellule ogni pomeriggio, come un segno che il mondo non aveva dimenticato del tutto la bellezza.
Ma da giorni, qualcosa era cambiato.
Il maestro Hōrin — un uomo curvo e severo, che odorava di incenso e radici essiccate — l’aveva convocata nel crepuscolo.
La stanza era spoglia. Una sola lanterna tremolava, riflettendo la sua luce su una calligrafia appesa:
“守りではなく、聴くことが務めなり”
“Non è proteggere, ma ascoltare, il vero dovere.”
Sumire si inginocchiò. Hōrin le versò del tè d’orzo senza guardarla.
«È tornato il tempo del respiro spezzato.»
Lei sollevò appena il volto.
«Il kami tace. Gli animali scendono a valle. I monaci più anziani sognano radici che si contorcono.»
Una pausa.
«È tuo compito andare. Questa notte, prima dell’alba. Solo chi è vuoto può ascoltare.»
Sumire non rispose. Si inchinò.
E quando si alzò, il suo sguardo era fermo, come il lago prima del temporale
L’ingresso nel silenzio
Il sentiero si apriva come una ferita sottile tra il verde, segnato da pietre grigie coperte di muschio e da radici nodose che parevano dita affiorate dal sottosuolo.
Sumire iniziò a salire quando la notte era ancora densa. La lanterna di carta oscillava tra le sue mani, proiettando riflessi rossi sulle foglie bagnate. Ogni tanto, un fruscio. Un ramo spezzato. Il verso spezzato di un gufo troppo lontano per essere un gufo.
I gradini, scolpiti secoli prima nella roccia, portavano al cuore del okuyama – il monte interno, dove il santuario antico non era fatto d’uomo ma di pietra, vento e silenzio.
Sopra di lei, l’umidità scendeva come un velo invisibile. Le cicale tacevano, e perfino le rane nel ruscello sembravano trattenere il fiato.
Sumire avanzava leggera.
Il nodo della cintura le stringeva la vita, ma non rallentava il passo.
Il bianco del suo abito si confondeva con la nebbia che si alzava tra i tronchi.
Giunse infine a una soglia di pietra.
Un portale naturale formato da due tronchi intrecciati e una lastra di roccia inclinata.
Nessuna scritta. Nessun torii.
Solo un suono sottile, quasi impercettibile.
Come un respiro.
Si fermò.
Posò la lanterna.
Si inginocchiò.
E attese.
Il vento si alzò.
Ma non era vento.
Era qualcosa che si muoveva tra le foglie senza piegarle. Un suono, ma anche un’assenza.
Il silenzio della foresta era diventato troppo perfetto.
Sumire sentì un calore salire dalla terra attraverso le ginocchia.
Chiuse gli occhi.
Il suo petto si sollevò lentamente.
Inspirò.
Poi, aprì la bocca. Ma non per parlare.
Per ascoltare.
E fu allora che qualcosa si spezzò nel fitto degli alberi.
Non un ramo. Non un animale.
Un suono.
Debole. Lungo.
Simile a un lamento.
Il kami aveva cominciato a parlare.
O a soffrire.
Dove la foresta tace
Il sentiero era svanito.
Dove prima c’erano gradini e muschio, ora solo terra nuda, come se la montagna avesse ritirato la sua accoglienza.
Sumire non si fermò.
Non perché fosse sicura, ma perché la paura non aveva posto nel suo passo.
Sotto i piedi, il suolo era caldo.
Non come il sole che scalda la pietra, ma come un corpo che respira appena sotto la pelle.
Ogni albero sembrava inclinarsi in una direzione impercettibile, come attratto da un centro invisibile.
Nessun canto d’insetti.
Nessuna libellula.
Solo una leggera pressione nell’aria, come se qualcosa di immenso trattenesse il fiato.
Tra le fronde, Sumire scorse per un attimo una macchia bianca. Si bloccò.
Ma era solo una carta shide, agitata da un filo di vento che non si sentiva.
Allora vide.
Una radura.
Nel centro, un albero cavo.
Immenso, contorto, annerito sul lato esposto a sud.
La corteccia non era bruciata. Era marcita, eppure viva.
Da una fessura, usciva un vapore sottile.
Umido. Denso. Quasi salmastro.
Si avvicinò.
Le mani protese davanti, come se non potessero toccare.
Il cuore le batteva nel collo.
Sotto le radici, c’erano piccole figure scolpite nella terra: volpi, cervi, uccelli. Tutti con la testa rivolta verso il tronco.
Ma erano deformi.
Le zampe spezzate. Gli occhi graffiati.
Come se qualcosa li avesse respinti.
Un fruscio alle sue spalle.
Non il vento.
Qualcosa si muoveva. Lentamente.
Si voltò.
Niente.
Poi, dal tronco, un suono.
Non umano.
Un respiro lungo, basso, profondo.
Ma roco, spezzato a metà.
Il kami.
O ciò che ne restava.
Sumire cadde in ginocchio.
Non perché temeva.
Ma perché riconobbe.
La rottura
L’aria intorno a Sumire si fece densa, vischiosa, come acqua stagnante.
Ogni respiro richiedeva uno sforzo.
Eppure il silenzio era rotto.
Il suono proveniente dall’albero era diventato ritmico. Non un respiro… ma un gemito.
Come se qualcosa al suo interno stesse cercando di uscire, di liberarsi.
O forse… stesse morendo.
Sumire si inginocchiò, le mani a terra, il volto rivolto alla radice contorta che si apriva come una bocca.
Le sue labbra si mossero senza suono, poi cantarono.
Non un inno.
Non una preghiera.
Un frammento di melodia che sua nonna le aveva insegnato da bambina, quando ancora non portava la veste bianca, ma correva scalza tra i ciliegi del tempio.
“Kami no inochi wa
fukaku nemuru mori
watashi wa kiku”
(La vita del kami
dorme nella foresta profonda —
io ascolto.)
Al primo verso, la terra tremò.
Al secondo, il vapore cambiò direzione.
Al terzo, l’albero si illuminò.
Non come fuoco.
Come bagliore riflesso nell’acqua: instabile, mobile, vivo.
Dal cuore della fenditura emerse una luce pallida.
All’inizio, sembrava solo nebbia. Poi prese forma: un flusso di foglie che si sollevava in spirale, girando attorno a una figura che non aveva volto, ma peso.
Non era un animale.
Non era umano.
Era una presenza.
Sottile, dolorosa, bellissima.
Sumire non si mosse.
La figura la guardava.
Non con occhi, ma con esistenza.
Poi il suono si fece più alto.
Stonato.
Crudele.
Le radici cominciarono a spezzarsi.
Il terreno vibrava.
E Sumire capì.
Il kami non stava cercando aiuto.
Stava avvertendo.
C’era qualcosa che aveva ferito il cuore della foresta.
Qualcosa che veniva dall’uomo.
Un odore nuovo si diffuse nell’aria.
Plastica. Metallo.
Asfalto.
Sumire vide, nel bagliore, un’immagine.
Una strada in costruzione.
Ruspe, alberi abbattuti, corsi d’acqua deviati.
Poi tutto si spense.
L’albero emise un ultimo respiro.
E tacque.
Il kami era sparito.
O forse si era ritirato.
Ferito.
O peggio.
Sumire era sola.
E la foresta… non respirava più.
Il voto silenzioso
La luce del mattino filtrava appena tra i rami, ma non portava calore.
Il verde della foresta sembrava sbiadito, come se qualcosa avesse sottratto il colore dall’aria.
Sumire si rialzò lentamente. Il silenzio era ora assordante.
Nessun battito d’ali. Nessun frinire.
Nemmeno il suono del suo respiro.
Davanti a lei, l’albero era immobile.
Spento.
Non morto — ma ritirato.
Le radici che prima parevano pulsare, ora giacevano secche, come artigli rassegnati.
Sumire poggiò la fronte sulla corteccia.
“Perdonaci.”
La sua voce si spezzò contro il legno.
Poi, si voltò.
Non tornò al santuario.
Non scese.
Seguì un sentiero che non esisteva.
Verso la sorgente dimenticata del monte, da cui si diceva nascesse lo spirito primordiale della regione.
Camminò per ore.
Giorni, forse.
Il bianco della veste si sporcò di terra.
I capelli si sciolsero, gonfi di pioggia.
Le mani si screpolarono.
Ma ogni volta che si fermava a dormire, nel cuore del muschio, lasciava un’offerta: un canto, una ciotola d’acqua, un pensiero sincero.
E poco alla volta, la foresta rispose.
La prima a tornare fu una libellula.
Poi il suono lontano di un picchio.
Poi un filo d’erba che tornò verde accanto alla sua ciotola.
Non miracoli.
Segni.
Sumire iniziò a costruire piccoli altari con pietre e foglie.
Ogni notte, intonava la stessa melodia.
Non per evocare.
Non per costringere.
Ma per ascoltare.
E un giorno, mentre il vento saliva dalla valle portando con sé l’odore della pioggia, la sentì.
Un soffio.
Non fuori.
Dentro.
La foresta aveva ripreso a respirare.
La ragazza che ascoltava
Oggi, nel santuario Yamazato, una sola stanza è tenuta chiusa al pubblico.
È piccola. Profuma di incenso e pioggia antica.
Le sue pareti sono nude, tranne per una calligrafia in inchiostro nero, incorniciata da muschio vivo:
> 「聞く者、森を癒す」
“Colei che ascolta, guarisce la foresta.”
Non c’è il nome di Sumire.
Nessuna statua, nessuna leggenda nei libri.
Solo il ricordo nei gesti delle giovani miko che ogni luglio salgono, una per volta, a lasciare un dono tra gli alberi: acqua, semi, parole non pronunciate.
E ogni volta, la foresta accoglie.
C’è chi dice che, al crepuscolo, si possa ancora intravedere tra i tronchi una figura vestita di bianco, con i capelli sciolti e lo sguardo rivolto al cielo.
Che canti da sola, sotto un albero spezzato che non muore mai.
E che, se ci si ferma abbastanza a lungo, si possa sentire quel suono sottile…
Il respiro.



