I racconti di Yuki

La Volpe e il Mandorlo

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Il sentiero che profuma di fiori antichi

La prima volta che Hiroshi vide la volpe, non si stupì.
Era il mese di marzo, e il mandorlo davanti al tempio di pietra era appena fiorito. Una pioggia rosa pallido ricopriva il sentiero, mischiandosi all’odore della terra bagnata e dell’incenso spento. I vecchi del villaggio dicevano che quell’albero non aveva più fiorito da quando la guerra aveva portato via il sacerdote. Ma quell’anno, senza alcun motivo apparente, era rinato.

Hiroshi aveva settantadue anni, una schiena curva come il bambù sotto la neve, e mani ruvide da giardiniere. Ogni mattina saliva lentamente fino al tempio, per spazzare il sentiero, annaffiare i fiori selvatici e accarezzare le pietre muschiose con uno straccio umido. Diceva che parlavano, ma solo se si ascoltava col cuore, non con le orecchie.

Quella mattina, però, non fu una pietra a parlargli.

Sul masso più grande, proprio accanto al tronco contorto del mandorlo, c’era una volpe dal manto color fuoco. Non fuggì. Non ringhiò. Lo fissò.
Aveva occhi dorati e immobili come le lanterne votive dimenticate. Un filo di vento le sollevò i peli sul dorso e piegò i petali dei fiori come mani in preghiera.

Hiroshi si fermò.
Abbassò lo sguardo.
E la volpe gli parlò.
Non con la voce, ma con il silenzio.

Era l’inizio di qualcosa che non poteva ancora comprendere, ma che il cuore — quel cuore stanco e pieno di tempo — aveva già riconosciuto.

Il nome della volpe

Il giorno dopo, Hiroshi tornò con le tasche piene di edamame lessati e una ciotola di porcellana crepata, quella che sua moglie usava per i giorni di festa.

Non c’era più nessuno ad attenderlo nella vecchia casa di legno che odorava di hinoki e riso bruciato. Ma ogni cosa aveva un posto preciso, come se fosse ancora lei a sistemarle. Anche la ciotola, sempre messa con delicatezza sul tavolo, come se contenesse qualcosa di più del cibo.

Quel mattino l’aria sapeva di neve sciolta e terra viva. I fiori del mandorlo, più aperti del giorno prima, lasciavano cadere petali come promesse. Hiroshi si chinò, con il respiro corto e le ginocchia che scricchiolavano come il pavimento della vecchia scuola, e posò la ciotola sul masso.

La volpe era lì.

Apparve tra le ombre dei bambù come un pensiero antico: silenziosa, elegante, reale e irreale allo stesso tempo. Si avvicinò con passo leggero, annusò i fagioli, poi si sedette, calma.

La guardava. Lo guardava.

Quel momento durò il tempo sospeso tra due battiti di ciglia e un secolo.

«Posso darti un nome?» chiese Hiroshi.

La volpe reclinò il capo.

«Ti chiamerò Yuki. Perché sei apparsa come la neve che nessuno si aspettava più.»

Il vento mosse i rami del mandorlo e un fiocco di petali gli cadde sulla spalla.

Da quel giorno, ogni mattina Hiroshi portava a Yuki qualcosa: un po’ di riso, una mela, un origami che aveva imparato a piegare da bambino. In cambio, riceveva silenzio. Ma era un silenzio denso, pieno di presenza, come un sutra senza parole.

Nel villaggio iniziarono a mormorare. “Il vecchio parla con i fantasmi.” “Forse la volpe è un kami.” “O forse è impazzito.”

Hiroshi sorrideva. Le voci non gli facevano più paura.

Una notte, sognò il mandorlo fiorito nel buio. Al suo piede, la volpe parlava con voce di donna.

«Hai dimenticato chi sei, ma io ti ricordo.»

Si svegliò con la bocca secca e il cuore in gola.

Era solo un sogno.

Ma il giorno dopo, Yuki lo stava aspettando. E tra i denti stringeva un piccolo oggetto: un pettine d’osso, vecchio e intagliato, che Hiroshi non vedeva da decenni.

Era appartenuto a sua madre.

Il tempo delle radici

Le notti cominciarono a cambiare.

Non era solo il canto delle rane, né il lamento distante dei cervi nel bosco.
Era l’aria.
Più densa.
Più viva.
Come se qualcosa si muovesse tra gli alberi quando nessuno guardava.
Come se il tempo avesse rallentato il passo, cullato dal respiro di cose che non hanno nome.

Hiroshi iniziò a svegliarsi sempre alla stessa ora, con il cuore che batteva piano e la sensazione di non essere solo. Una luce tenue, bluastra, filtrava dalle pareti sottili di carta. A volte, nell’angolo della stanza, gli sembrava di vedere un’ombra ricurva — simile alla figura della madre quando preparava il tè nel silenzio dell’alba.
Ma non c’era nessuno.

Una notte sognò ancora Yuki.
Ma stavolta non era una volpe.
Era una donna vestita di bianco, con lunghi capelli rossi come fuoco antico. Lo guidava lungo il sentiero del tempio, camminando a piedi nudi tra i petali, mentre il mandorlo perdeva i fiori come lacrime.
«Ascolta le radici, Hiroshi-san.»
La sua voce era un sussurro, eppure vibrava come un tamburo.
«Dentro di te c’è qualcosa che dorme. E io sono qui per svegliarlo.»

Si svegliò con la fronte umida e un senso di assenza difficile da nominare.

Quella mattina, sotto la pietra piatta del mandorlo, trovò qualcosa di nuovo.
Un foglio di pergamena arrotolato.
Lo aprì con mani tremanti.
Vi era tracciato un kanji antico, inciso con un pennello sottile: Ki – 木 – albero.
Ma il tratto centrale era spezzato, come fosse stato inciso con dolore.

Quella notte non tornò a casa.
Restò al tempio.
Seduto ai piedi del mandorlo, aspettò.
Il vento si placò. Le cicale tacquero. La luna si levò tra le nubi leggere.
Yuki apparve. Ma stavolta non lo guardò.
Si voltò verso il tronco e, con lentezza solenne, si inginocchiò.

Hiroshi allora vide.
Sul fianco del mandorlo, nascosta dalle crepe della corteccia, una piccola nicchia votiva: dentro, una statuetta in pietra consunta raffigurava una volpe con tre code, protettrice dei sentieri e dei confini tra i mondi.

Il cuore gli balzò in petto.
Il ricordo gli tornò all’improvviso:
una notte d’infanzia, una lanterna accesa, il padre inginocchiato davanti all’albero, in silenzio.

Era un kami.
Era sempre stato lì.
E lui lo aveva dimenticato.

Oltre il confine del sentiero

Il giorno successivo il mandorlo cominciò a perdere i fiori più in fretta.

Non era ancora tempo di caduta, eppure l’albero sembrava voler chiudere un ciclo. I petali cadevano come neve rosa sul terreno, coprendo la pietra, la ciotola, le radici contorte.

Yuki non era apparsa.

Non al mattino.

Non al tramonto.

Il silenzio era più profondo del solito. Anche il vento sembrava trattenere il fiato.

Hiroshi restò. Dormì lì, con il pettine della madre stretto in mano e la vecchia foto piegata sotto la giacca. I sogni quella notte furono frammenti taglienti.

La donna dai capelli rossi.

La sorella scomparsa da giovane, ridere e poi svanire.

Il padre inginocchiato davanti al mandorlo, piangere.

Un nome sussurrato: Shinzen.

Un patto dimenticato.

Al risveglio, c’era nebbia.

Densa, bassa, lattiginosa.

Hiroshi si alzò lentamente e seguì un sentiero che non aveva mai notato. Era segnato da piccole pietre bianche e conduceva dietro al tempio, tra due rocce coperte di muschio. Oltrepassandole, si trovò in uno spiazzo circolare, dove crescevano soltanto funghi e felci. Al centro, un piccolo torii di legno scolorito.

Una volpe era lì, seduta.

Ma non era Yuki.

Aveva cinque code. Gli occhi d’ambra bruciavano come carbone. Il suo sguardo era il confine.

Non tra vita e morte.

Tra ricordo e oblio.

«Hai servito il mandorlo» disse una voce, che non usciva dalla bocca della volpe, ma dall’aria stessa.

«Hai onorato l’accordo antico.»

Hiroshi si inginocchiò.

«Non ricordavo.»

La volpe si avvicinò. Lo annusò. Si fermò davanti al suo cuore.

«Ora ricordi. E poiché ricordi, puoi donare. Il tuo tempo. Il tuo corpo. Il tuo nome. Così che il kami resti sveglio ancora un po’.»

Hiroshi abbassò la fronte sulla terra.

Non aveva più paura.

Un’ultima volta, il mandorlo fiorì.

 Il custode silenzioso

Sono passati tre inverni.

Il sentiero del tempio è coperto di muschio nuovo, e il mandorlo, contro ogni logica delle stagioni, fiorisce ogni anno prima degli altri.

Chi vive nel villaggio racconta di un vecchio giardiniere che un giorno è salito lassù e non è più sceso. Qualcuno dice che se n’è andato nel sonno. Altri che è diventato spirito tra gli spiriti.

Ma c’è chi giura di vederlo ancora, seduto sulla pietra piatta accanto all’albero, a offrire silenzio e fagioli a una volpe.

Yuki c’è ancora.

Appare all’alba, quando l’aria è immobile e l’incenso brucia da solo. I bambini che osano salire fin lassù ricevono in dono origami lasciati tra le radici: gru, volpi, lanterne. Nessuno li vede piegare, ma ogni piega ha il respiro di mani antiche.

Nessuna lapide ricorda Hiroshi.

Nessun nome inciso.

Solo il tronco del mandorlo, che ha preso a incurvarsi come una schiena china, e le radici che si sono allargate come dita a proteggere qualcosa.

Forse un cuore.

Forse una promessa.

Chi si ferma a lungo sente una presenza che veglia.

Non preme, non pesa.

Respira con te.

E ti ricorda ciò che hai dimenticato.

 

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