I racconti di Yuki

Sotto la neve, il crisantemo

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Introduzione – Il suono della neve

Giappone, Inverno. Provincia di Yamagata, ai confini del Tōhoku.

Il treno scivolava silenzioso tra i monti, tagliando boschi spogli e villaggi addormentati sotto un manto di neve. Livia teneva il taccuino stretto al petto, come se potesse difenderla dal vuoto che la seguiva da mesi. Non scriveva da settimane, ma le dita, dentro guanti di lana lisa, continuavano ad accarezzare i bordi delle pagine, come per ricordarsi che esisteva ancora una voce capace di uscire.

Fuori dal finestrino, i rami neri degli aceri parevano mani tese verso un cielo senza colore. Di tanto in tanto, un corvo solitario attraversava l’aria, lasciando la sua ombra sul bianco compatto del paesaggio.

Quando la voce gentile dell’altoparlante pronunciò “Yonezawa”, Livia sentì un fremito inspiegabile. Nessuna ragione precisa, solo quella parola che sembrava il nome di qualcosa perduto ma mai dimenticato.

Scese dal treno con passi lenti, affondando nella neve compatta del binario. Nessun turista, nessun rumore. Solo fiocchi sottili, che cadevano come cenere, coprendo ogni cosa con la leggerezza di un segreto.

La stazione, piccola e spoglia, sembrava una lanterna spenta. Un anziano le porse una mappa piegata in quattro, accompagnandola con un cenno del capo. Nessuna parola: solo un dito che indicava un sentiero verso il bosco.

Livia camminò finché, ai piedi di una pietra ricoperta di ghiaccio, notò un crisantemo bianco. Solitario. Immacolato. Non piegato dalla neve, non spezzato dal gelo.

Si fermò. Lo osservò a lungo.
Poi lo raccolse, stringendolo tra le dita fredde, e continuò a camminare.

Capitolo 1 – Il villaggio e la leggenda

Le case apparivano come origami stanchi, piegati dal vento e dal tempo. I tetti incurvati trattenevano la neve come mani giunte in preghiera, e le finestre, oscurate da pannelli di legno, sembravano occhi chiusi. Il vento soffiava tra i vicoli stretti, cancellando in fretta le impronte che Livia lasciava dietro di sé.

Un cane randagio attraversò la strada senza abbaiare, guardandola appena, come se sapesse che non era lì per caso. In fondo al vicolo, una lanterna rossa ondeggiava davanti a una locanda, l’unico punto vivo in quel villaggio addormentato. Il suo bagliore, attenuato dalla neve, sembrava invitare e mettere in guardia allo stesso tempo.

Livia spinse la porta. Il legno scricchiolò sotto la sua mano.

Dentro, l’aria era calda e sapeva di miso e fumo di focolare. Una donna, dietro il banco, la osservava con occhi pieni di inverni. Mani ruvide, segnate dal tempo, e un kimono semplice, consunto come un vecchio ricordo.

«Cercate la Maestra?» disse, con voce bassa e secca, come neve che si spezza sotto i piedi.

Livia sentì il petto stringersi. Nessuna domanda, nessuna presentazione: solo quella frase, come se il suo arrivo fosse stato previsto.

La donna non aggiunse altro. Si voltò, prese una ciotola di soba fumante e la porse. «Mangiate prima. Per cercare i fantasmi, serve calore nello stomaco.»

Livia si sedette su un tappetino vicino al focolare. Il brodo era semplice, il sapore del grano sobrio, ma ogni cucchiaio scaldava qualcosa più profondo della pelle.

La locandiera parlò senza guardarla, come se raccontasse una storia a se stessa.

«Dicevano che fosse un ragazzo muto. Ma combatteva come il vento d’inverno: pochi colpi, nessuna esitazione. Il maestro del dojo la lasciò restare. Non fece domande. Dicevano che sapeva. Ma non disse mai nulla.»

Si fermò, passò un panno su una tazza.

«Poi un giorno sparì. Solo il crisantemo rimase. Ogni inverno, uno solo, davanti al vecchio tempio.»

Un sorriso senza allegria le attraversò il volto. «Forse è viva. O forse è solo un ricordo che si ostina a respirare.»

Livia lasciò che quelle parole si posassero su di lei, come neve fresca. Non rispose. Nel piatto, la soba si era raffreddata, ma dentro di lei qualcosa cominciava a scaldarsi.

Capitolo 2 – L’incontro

Il sentiero era appena accennato, soffocato da radici contorte e tappeti di foglie morte che scricchiolavano sotto il passo. Ogni respiro usciva come fumo, e il silenzio intorno era così denso da sembrare vivo. Livia avanzava lentamente, con la sensazione di muoversi dentro una soglia, come se ogni ramo piegato fosse stato già sfiorato da mani invisibili.

Dopo una curva, il tempio apparve. Piccolo, spoglio, il legno annerito dal tempo e dagli inverni. Due lanterne di pietra, coperte di muschio, stavano come guardiani assopiti. Il cancello di bambù era semiaperto: quando Livia lo spinse, il cigolio sembrò un saluto e un avvertimento insieme.

Sulla veranda, seduta in seiza, c’era una donna.

Molto anziana, minuta, i capelli raccolti in un nodo basso. Indossava un kimono color inchiostro, semplice ma impeccabile. La schiena, dritta come quella di un tronco giovane, contrastava con la pelle sottile delle mani posate sulle ginocchia.

Fu lo sguardo a inchiodarla. Nero, denso, immobile. Non rifletteva, osservava.

Livia si fermò. Le gambe esitavano, ma il cuore no. Fece un passo, poi un altro. Le ginocchia toccarono il legno freddo della veranda, che odorava di resina e brina.

La donna non parlò. Poi, con una lentezza carica di grazia, prese una tazza di ceramica rustica, screziata, e la porse. Dal bordo saliva il vapore del tè, profumato di erba amara e sottobosco.

Livia accettò con mani tremanti. Inspirò. Il calore le invase il volto e il petto.

Dal taschino del cappotto, estrasse il crisantemo bianco e lo posò accanto a sé. Il fiore, intatto, sembrò vibrare nel freddo.

Solo allora, la donna mosse appena il capo. Un cenno quasi impercettibile. Ma sufficiente a confermare ciò che Livia non osava pensare: era lei. La Maestra silenziosa. La guerriera di cui tutti parlavano.

Poi si alzò. Il kimono frusciò piano. Raccolse il fiore con entrambe le mani, come una reliquia, e aprì le porte scorrevoli del tempio. Entrò, lasciando dietro di sé l’odore del tè e la scia di un mistero che non faceva più paura.

Livia rimase lì. Non c’era bisogno di correre. Aveva attraversato il tempo. Ed era arrivata.

Capitolo 3 – Il diario e la scoperta

L’alba velava il bosco con una luce lattiginosa, e il sentiero che il giorno prima pareva ostile ora sembrava riconoscerla. La neve scricchiolava sotto i suoi passi, più sottile, come polvere d’argento.

La porta del tempio era socchiusa. Livia entrò in punta di piedi, come si entra in una preghiera che non è la propria.

L’interno era essenziale: tatami consunti, un’alcova con una calligrafia sbiadita, il suono lento di un orologio nascosto. L’odore del legno antico si mescolava a quello di incenso spento e tè tostato.

La donna l’attendeva accanto a un kotatsu basso. Di fronte a sé, un quaderno rilegato a mano: copertina di stoffa azzurra, carta spessa, e al centro un crisantemo tracciato a pennello.

Con un gesto lento, lo spinse verso Livia. Non un dono, non un ordine. Un invito.

Il quaderno era tiepido al tatto, come se avesse aspettato proprio lei.

Lo aprì.

La calligrafia era piccola, precisa, incisa più che scritta. Il giapponese arcaico le era estraneo, ma il senso le arrivava netto, come se le parole parlassero direttamente al corpo.

“Il primo colpo lo diedi senza sapere come si impugna una spada. Mi sanguinarono le mani. Ma nessuno vide. Nessuno guardava davvero.”

Livia chiuse gli occhi. E vide.
Un cortile innevato. Una figura minuta, i piedi nudi, le nocche spaccate. La spada che sfuggiva alle dita troppo giovani. Il sangue che macchiava il ghiaccio.

Voltò pagina.

“Avevo quattordici anni. Mi tagliai i capelli con un coltello da cucina. Mia madre pianse. Mio padre tacque. Legai il fundoshi più stretto che potei. Era tutto ciò che potevo fare per non tremare.”

Il suono secco delle forbici improvvisate. Ciocche nere che cadevano su un pavimento di legno. Una madre che si volta, le mani sulle labbra. Un padre che non distoglie lo sguardo, ma non dice nulla.

“Il maestro mi scoprì il settimo giorno. Non disse nulla. Mi guardò. Poi mi consegnò una spada nuova. ‘La usi chi ha il cuore saldo,’ disse. Nient’altro.”

Un dojo silenzioso. Un vecchio maestro che posa una spada avvolta in seta. Nessuna domanda, nessun rimprovero. Solo quel dono, e uno sguardo che pesa più di ogni parola.

Pagina dopo pagina, il diario era un colpo, un respiro, una lama. Non una confessione, ma un’offerta.

“Vincere, ma non essere vista. Colpire, ma non restare nella storia. Che valore ha la vittoria, se nessuno pronuncia il tuo nome?”

La pelle d’oca le percorse le braccia. Livia chiuse il quaderno, incapace di andare oltre per un momento.

Alzò lo sguardo. La donna era lì, immobile. Solo gli occhi, profondi come stagni d’inverno, la tenevano ancorata al presente.

E poi, per la prima volta, parlò.

«Ikiru.»

Vivere.

La voce era bassa, ruvida, come carta usurata. Ma piena di una forza che non aveva bisogno di spiegazioni.

Capitolo 4 – L’eredità

Le giornate scorrevano come un rituale lento: il bosco imbiancato, il fuoco che crepitava, il tè versato senza fretta. Livia tornava ogni mattina al tempio, senza bisogno di annunciarsi. Hanae era sempre lì, come se non si fosse mai mossa.

Non servivano parole. Nei suoi gesti, c’era più linguaggio di quanto Livia avesse mai sentito: il modo in cui porgeva una pagina del diario con entrambe le mani, come si fa con un oggetto sacro. Il silenzio che lasciava tra un tè e l’altro, vuoto che non era mancanza ma spazio per respirare.

Un pomeriggio, Hanae aprì un armadio scuro e ne estrasse una scatola laccata. La posò tra loro due, con movimenti lenti e decisi. Dentro, una benda bianca arrotolata con cura e una piccola spilla d’argento a forma di crisantemo. Il gambo, spezzato e saldato, portava i segni di una ferita rimarginata.

Hanae prese la benda. Si avvicinò a Livia e, con gesti sicuri, gliela passò intorno al petto, serrandola come fosse un’armatura. Non era un abbraccio, ma una vestizione. Le dita sottili annodarono il tessuto dietro la schiena, stringendo con la stessa fermezza con cui l’aveva indossata un tempo su di sé.

Poi, con una lentezza solenne, appuntò la spilla al colletto del cappotto di Livia. Il metallo freddo le punse la pelle, ancorandola a quel momento.

Si inginocchiò di fronte a lei e disse:

«Kimi no tame.»
Per te.

La voce era secca, come rami in inverno, ma limpida e definitiva.

Livia non trovò parole. Il respiro le rimase sospeso tra gola e cuore, mentre le lacrime scendevano senza dolore. Non piangeva per pietà. Piangeva per riconoscimento.

Hanae si alzò, fece un piccolo inchino e si ritirò dietro le porte del tempio, lasciando a Livia la benda, la spilla e un silenzio che non pesava più.

Livia rimase seduta a lungo, con le mani strette su quel piccolo simbolo. Non era un dono. Era una promessa.

Capitolo 5 – Il ritorno e la trasformazione

Ferrara la accolse con un cielo basso, opaco. Il traffico scorreva come sempre, i telefoni suonavano, le voci riempivano i portici. Ma tutto le sembrava più distante, come se non appartenesse più allo stesso tempo.

Nel taschino del cappotto, la spilla d’argento pesava più di un libro. Ogni volta che il metallo toccava la pelle, sentiva il freddo del tempio e il calore delle mani di Hanae.

Non parlò a nessuno del viaggio. Né del tempio, né del diario, né della donna. Alcune storie non si raccontano. Si custodiscono.

Riprese a scrivere, ma diversamente. Poche parole, scelte come pietre levigate dall’acqua. Non cercava più di riempire le pagine: lasciava che il bianco parlasse.

In inverno, il giorno della prima neve, Livia uscì all’alba. Indossò il cappotto e appuntò la spilla al colletto. Camminò fino al parco vicino al fiume, dove l’erba gelava sotto le scarpe. Portava con sé un crisantemo bianco.

Si fermò, lo posò sulla terra dura e restò lì, in piedi, senza dire nulla.

Non era un rito per essere visto. Era un dialogo muto con ciò che aveva ricevuto.

Quando il fiore sfiorò il ghiaccio, il vento cambiò direzione. E, per un istante, sembrò che qualcuno le avesse risposto.

Epilogo – La neve e il nome

Il libro uscì a dicembre. Non aveva protagonisti, né date, né spiegazioni. Solo un titolo inciso con semplicità:
“Sotto la neve, il crisantemo.”

Chi lo leggeva scriveva cose strane: “Ho pianto.” “Mi sono sentita riconosciuta.” “Mi ha ricordato mia madre.”
Non era un bestseller. Non era pensato per esserlo. Era un seme, lasciato nel gelo, in attesa di chi sapeva ascoltare.

Livia non smise mai il suo nuovo rito. Ogni inverno, alla prima neve, si alzava presto. Indossava il cappotto, appuntava la spilla, e portava un crisantemo bianco al parco. Lo posava a terra, senza parole, e restava in piedi, in silenzio.

Perché ci sono storie che non gridano. Non bussano. Non si presentano.

Cadono come la neve. E quando te ne accorgi, hanno già coperto tutto.

E il crisantemo, ogni volta, sembrava ringraziare.

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