Il tè dell’ultima luna
Introduzione – Il dono inatteso
Il vento di fine estate portava con sé un odore di terra bagnata e legno vecchio quando Kaede aprì la lettera.
Era sottile, la carta ingiallita come la pelle di una mano che ha vissuto a lungo, e dentro, poche righe: un nome, un indirizzo, un lascito.
Un’anziana zia – la sorella di sua nonna – le aveva lasciato in eredità una vecchia casa da tè.
Non una casa qualunque, ma una chashitsu in legno di cedro, immersa nel silenzio di un piccolo villaggio del Kansai chiamato Mizu-no-Oka.
Kaede rimase immobile per qualche istante, ascoltando il battito del proprio cuore.
Era vedova da poco.
Aveva lasciato il lavoro, i figli erano ormai grandi, e la sua vita le appariva come un tatami vuoto: senza più forme, senza più peso.
C’era solo una sensazione sospesa, quella di aver perso qualcosa che non si può nominare.
Partì il giorno stesso.
Il viaggio fu lungo, con treni che si assottigliavano sempre più – dai convogli veloci della città alle vecchie carrozze che cigolavano tra campi di risaia. Quando scese alla stazione più vicina, l’aria profumava di canne di bambù e di fumo di legna.
La chashitsu era lì, come un ricordo rimasto intatto: minuscola, silenziosa, con il tetto coperto di muschio che brillava sotto la rugiada. Le pareti di legno scurito dal tempo sembravano respirare.
Sul futon, sorprendentemente, si sentiva ancora un lieve odore d’incenso.
In giardino, le pietre erano disposte in un disegno perfetto, il muschio le abbracciava come un kimono antico.
Kaede entrò togliendosi le scarpe, sfiorando i tatami con i piedi nudi.
Il silenzio le riempì le orecchie, più denso di qualunque parola.
E fu allora che sentì – o credette di sentire – un respiro.
Caldo, invisibile, che non le apparteneva.
Forse era solo la casa che la stava riconoscendo.
Capitolo 1 – Il respiro della casa
La prima notte, Kaede non riuscì a dormire.
Il vento, che durante il giorno era stato un sussurro, diventava ora un lamento tra le travi. Ogni scricchiolio del legno le sembrava un passo, ogni ombra, un respiro che si allungava accanto a lei. La chashitsu era minuscola, eppure le pareva smisurata, come se i suoi spazi non finissero davvero con le pareti.
All’alba, trovò un vecchio tetsubin nel focolare, annerito dal tempo. Lo lavò con gesti lenti, quasi rituali. Prese una piccola scatola di latta, nascosta nel mobile basso accanto al tokonoma: dentro, un po’ di polvere di matcha. Ancora verde, ancora viva, nonostante gli anni.
Seduta davanti alla finestra che dava sul giardino, Kaede preparò il tè.
Il fruscio del setaccio.
Il sibilo dell’acqua che inizia a cantare.
Il ritmo regolare del chasen che mescola, schiuma, rende il liquido un velluto verde.
Poi attese.
Non sapeva bene perché. Forse perché il gesto in sé lo richiedeva. Forse perché il silenzio, improvvisamente, era così denso che sembrava aspettare qualcosa.
Fu allora che sentì di nuovo quel respiro.
Non suo.
Un soffio breve, caldo, come se qualcuno fosse lì, appena oltre il suo campo visivo.
Kaede si voltò di scatto.
Niente.
Eppure, sul tokonoma, una piccola pergamena che prima non c’era pendeva leggermente fuori dal rotolo appeso. Si alzò, esitante, e la toccò con le dita. Il foglio era fragile, l’inchiostro quasi dissolto.
Un haiku.
“La luna riflessa –
il tè non dice parole,
ma chi beve ascolta.”
Non c’era firma.
Eppure, Kaede sentì che non era sola. Non era mai stata sola da quando era entrata in quella casa.
Capitolo 2 – Le ombre del lago
Il secondo giorno Kaede decise di scendere in paese.
Mizu-no-Oka era minuscolo: una strada principale, un piccolo tempio, qualche bottega di alimentari e di artigianato. Gli abitanti si muovevano lenti, con quegli sguardi che ti osservano senza farlo davvero, come se vedessero più in là del presente.
Al negozio di tè, la proprietaria – una donna curva dagli occhi acuti come spilloni – riconobbe il suo nome.
«Ah… la nipote di Yae-san.»
Kaede annuì.
La donna abbassò la voce, come se il vento potesse sentire.
«Sua zia era… elegante. Ma sempre sola. Veniva ogni mese qui a comprare il tè migliore. Diceva che aveva un ospite speciale. Ma non lo abbiamo mai visto in faccia.»
Un anziano che stava scegliendo del riso si voltò verso di loro.
«Io sì. O almeno… credo.»
Il tono era lento, graffiato dal tempo.
«Veniva solo nelle notti di luna piena. Un uomo alto, con un cappello di paglia che gli copriva il volto. Si fermava sempre davanti al lago, prima di entrare.»
«E poi?» chiese Kaede, cercando di mantenere la voce ferma.
L’anziano scosse la testa. «Non parlavano. Almeno non come facciamo noi. Rimanevano seduti per ore, guardando il vapore salire dalle tazze. Poi, un giorno, lui smise di venire. Ma tua zia continuò a preparare il tè, ogni mese, per due. Sempre alla stessa ora. Finché…»
Si fermò, guardando il vuoto.
«Finché?»
«Finché anche lei non c’era più.»
Kaede tornò alla casa con un nodo nello stomaco.
Quella sera, la luna piena trasformava il lago in un disco d’argento. Decise di avvicinarsi al molo. L’acqua era immobile, eppure un’ombra sembrò muoversi appena sotto la superficie, come se qualcuno stesse camminando sotto il lago.
Un brivido le corse lungo la schiena.
Quando tornò nella chashitsu, trovò la porta scorrevole leggermente aperta.
Non l’aveva lasciata così.
Sul tatami, accanto al futon, c’era una tazza di tè fumante.
Kaede rimase immobile.
Il vapore saliva lento, come un respiro.
Un altro respiro.
Non era sola.
Capitolo 3 – Il visitatore senza volto
Quella notte Kaede non riuscì a rimanere distesa sul futon.
L’immagine della tazza fumante la teneva sveglia come una ferita aperta.
Si alzò. La chashitsu era immersa in un buio che non apparteneva solo alla notte, ma sembrava colare dalle travi come un’ombra viva. Accese una candela: la fiamma tremolò, alta, come disturbata da un soffio.
Decise di preparare il tè, per calmarsi.
Il rito la rassicurava: scaldare l’acqua, setacciare il matcha, creare un ordine nel caos. Ma quella sera, mentre mescolava con il chasen, il suono del bambù che frustava la tazza si fece diverso. Non un sibilo regolare: un ritmo. Due colpi lenti, uno più veloce.
Come se qualcuno stesse rispondendo al suo gesto.
Si voltò.
La porta che dava sul giardino era aperta. La luna entrava, fredda, bianca, disegnando un’ombra allungata sul tatami.
Un uomo.
Non lo vide davvero. Vide la sagoma: alta, immobile, con un cappello di paglia che nascondeva il volto.
Kaede chiuse gli occhi. Li riaprì.
Vuoto.
La candela si era spenta.
Tornò a sedersi, tremante. La tazza davanti a lei era piena.
Non l’aveva riempita.
Bevve un sorso. Il tè era caldo, amaro, eppure aveva un sapore che non conosceva: ferroso, come acqua di fonte mescolata a sangue.
Non sapeva quanto tempo passò. Forse minuti, forse ore.
Si accorse solo dopo che aveva iniziato a parlare.
Non ricordava le parole.
Non ricordava a chi.
Quando il giorno sorse, era ancora seduta davanti alla tazza ormai fredda.
E sulla soglia della stanza, c’era un’impronta di fango. Grande, pesante.
Non era la sua.
Capitolo 4 – La luna negli occhi
Il giorno dopo, Kaede cercò risposte.
Frugò nei cassetti bassi della chashitsu, sollevò vecchi pannelli, trovò scatole di carta washi ingiallite.
Dentro, piccoli oggetti: un netsuke a forma di gru, un ventaglio di seta logoro, un paio di bacchette di lacca rossa, un quaderno sottile.
Il quaderno era quasi vuoto. Solo alcune pagine riempite da una calligrafia ordinata, elegante.
“Lui viene quando la luna è piena.
Beviamo senza parlare.
Non servono parole.”
Nulla più. Nessun nome, nessuna data.
Kaede chiuse gli occhi. Per un istante le parve di sentire la mano di quella donna – sua zia – sulla carta, ancora calda.
Nel pomeriggio andò al lago. Il cielo si specchiava nell’acqua, grigio e lattiginoso. Sulla riva c’era un albero di salice, i rami piegati a toccare la superficie. Quando si avvicinò, vide qualcosa muoversi tra le fronde: non un animale. Una figura.
La stessa ombra, alta, il cappello di paglia.
Non si mosse quando lei la guardò.
Ma Kaede sentì che, in qualche modo, l’ombra la guardava.
Non osò fare un passo. Non osò distogliere lo sguardo.
Un improvviso vento mosse i rami, il riflesso della luna si frantumò nell’acqua – e la figura sparì.
Kaede tornò di corsa alla chashitsu.
Chiuse la porta.
Il silenzio le cadde addosso come una coperta pesante.
Poi lo sentì: un lieve fruscio. Non veniva da fuori.
Dal tokonoma, la pergamena appesa si era srotolata da sola. Un nuovo verso appariva in basso, scritto con lo stesso inchiostro sbiadito:
“Non sono mai andato via.”
Il cuore le martellava.
Non era più solo un ricordo.
La presenza era viva.
E aspettava.
Capitolo 5 – Il tè per due
La luna piena era un occhio aperto sopra il lago.
Kaede spense ogni luce, lasciando che solo il chiarore argenteo entrasse nella chashitsu.
Il tatami odorava di incenso antico, le travi scricchiolavano come ossa.
Posò due tazze davanti a sé.
Per la prima volta, parlò a voce alta:
«Se sei tu che aspetti… stasera sono pronta.»
Il vento si placò. Un silenzio denso riempì la stanza, come se persino il bosco trattenesse il respiro.
Scaldò l’acqua, setacciò il matcha, mescolò lentamente. Ogni gesto era più preciso, come se le mani non fossero le sue ma guidate da qualcun altro.
Versò il tè nella prima tazza. Poi, nella seconda.
Non era sola.
Non lo vedeva, ma lo sapeva: qualcuno era seduto di fronte a lei.
Un colpo secco, improvviso: il legno del pavimento dietro di lei si piegò come sotto il peso di un passo.
Kaede non si voltò.
Il vapore del tè prese una forma innaturale, allungandosi come un velo. Si piegò verso di lei, avvolgendola.
Era caldo. Respirava.
«Yae.»
Una voce, roca, appena un sussurro.
Kaede rabbrividì. Non era il suo nome, ma quello di sua zia.
La voce veniva da accanto a lei, ma non c’era nessuno.
Chiuse gli occhi.
Il tatami tremò leggermente.
Poi sentì un tocco, leggero ma inequivocabile: una mano, fredda come pietra, che le sfiorava il dorso della mano.
Aprì gli occhi.
Di fronte a lei, l’ombra con il cappello di paglia era finalmente nitida.
Non un sogno. Non un ricordo.
«Non ti ho mai lasciata.»
Kaede non gridò. Non fuggì.
Sollevò la tazza.
E bevvero insieme.
Epilogo – Ciò che non muore
Il mattino dopo, il sole filtrava tra le persiane, tiepido e stranamente nuovo.
Kaede non ricordava quando si fosse addormentata, né se davvero avesse dormito.
La seconda tazza era ancora lì, vuota.
Eppure, non c’era polvere, non c’erano impronte: come se nessuno l’avesse mai toccata.
Si alzò, ancora stordita. Sul tokonoma, accanto al vecchio rotolo, trovò una pergamena che non aveva mai visto. L’inchiostro, questa volta, era scuro e nitido, come appena tracciato.
“Grazie per avermi aspettato.
Il tempo non mi ha concesso di tornare.
Ma lei non smise di ricevermi.
Non smettere anche tu.”
Non era firmata.
Ma accanto alla pergamena, c’era una foto: ingiallita, scattata forse negli anni ’50.
Sua zia Yae, sorridente. E accanto a lei, un uomo alto, con un cappello di paglia in mano.
Un ufficiale dell’esercito, a giudicare dalla divisa.
Il cuore di Kaede si strinse.
Forse un amore mai riconosciuto. Forse un addio mai consumato.
Capì allora che la chashitsu non era solo un luogo, ma un ponte.
Non solo memoria, ma attesa: quella di chi non aveva potuto concludere la propria storia.
Quella sera preparò di nuovo il tè.
Due tazze.
Una per sé.
Una per lui.
E quando il vapore si alzò, caldo e denso, le parve di sentire un respiro familiare accanto al suo.
Non aveva più paura.
Non era più sola.
Il tè, il silenzio, la luna piena.
Tre cose semplici.
Tre gesti antichi.
Tre modi per ricordare ciò che non muore.
	
	
	
			
			

