
Il suono della katana spezzata
Introduzione – Tōhoku, Inverno 1872
Il vento del nord graffiava come artigli di ghiaccio, insinuandosi tra le fessure delle capanne e portando con sé il lamento della montagna. L’aria sapeva di neve, di cenere e di legna umida, mentre il silenzio pesava come un sudario sul piccolo villaggio di Kutsuki. Le voci si erano spente da tempo: solo il crepitio del fuoco, nascosto dietro porte chiuse, osava parlare.
In fondo al sentiero, una capanna solitaria resisteva al tempo e alla memoria. Le assi annerite dal fumo portavano il segno di molte stagioni, ma non un filo di decorazione, non un tocco umano a spezzare la sua austerità. Lì viveva Ishikawa Genzō.
Un tempo samurai, ora nessuno.
Un uomo dal passo lento e dallo sguardo che non chiedeva né dava nulla.
Ogni mattina, si inchinava al sole, il volto rivolto verso l’orizzonte pallido. Il vento gli sollevava i capelli argentati, e lui lasciava che la natura fosse l’unica a toccarlo. Non pregava per il perdono: pregava per dimenticare.
La sua presenza era un enigma.
I bambini, passando vicino alla sua capanna, trattenevano il respiro e correvano via.
Le donne si inchinavano a distanza, senza osare incontrare i suoi occhi.
Gli anziani, quando lo vedevano, abbassavano il capo: riconoscevano in lui un peso che nessuno avrebbe potuto portare con leggerezza.
Ma dietro quella calma apparente, tra le assi del pavimento, dormiva il suo passato.
Spezzato.
Come lui.
Capitolo 2 – Il richiamo del sangue
La notte calò sul villaggio come un sipario di pece.
Il fuoco nelle case era spento; nessuno osava rischiare di attirare i banditi. Il vento gemeva tra le assi delle capanne, ma il suo lamento era nulla rispetto ai sussurri che infestavano la mente di Genzō.
Seduto al centro della sua capanna, le mani sulle ginocchia, respirava. Inspirava il freddo acre, espirava ricordi. Ogni volta che chiudeva gli occhi, vedeva volti: il suo signore, il giorno in cui aveva deposto le armi, la lama che aveva spezzato.
Non sei più un samurai.
La voce dentro di lui era crudele, tagliente come il filo di una katana.
Hai scelto l’esilio. Hai scelto la pace. Non tornare indietro.
Eppure, un’altra voce si alzava, più sottile, ma più insistente.
Guarda i bambini. Guarda le madri. Guarda ciò che ti hanno preso.
Il respiro si fece irregolare. Sentiva il cuore battere nelle tempie.
La sua vita di silenzio, di prostrazioni al sole, di tentativi di dimenticare, vacillava sotto il peso di un istinto antico. Il richiamo del dovere. O forse… della colpa.
Strinse i pugni. Le nocche scricchiolarono.
Fu allora che udì il rumore.
Uno dei banditi era fuori, vicino alla sua capanna.
Il legno gemette sotto i suoi passi. Una voce giovane, roca:
“Dicono che qui viva un vecchio pazzo… Chissà se ha nascosto qualcosa.”
Genzō rimase immobile.
Il ragazzo rise, un suono amaro e senza gioia. “Oggi prenderemo anche lui.”
Quel ridere accese una scintilla. Un sapore ferroso gli invase la bocca: il sapore del sangue che non era ancora stato versato.
Allungò la mano verso il pavimento.
Sollevò la botola.
Il panno di seta, ingiallito dal tempo, gli restituì il peso di un’eredità: la katana spezzata.
Le dita tremavano, ma non per il freddo.
Non era un’arma completa. Non era nemmeno una spada.
Era il passato che tornava a respirare.
Per un attimo, chiuse gli occhi.
Se la prendo, non c’è ritorno.
Il vento ululò tra le assi, come un presagio.
E lui scese la mano, stringendo il freddo metallo.
Capitolo 3 – Due colpi
La neve scricchiolava sotto i suoi passi.
Genzō avanzava lentamente, ogni movimento misurato, le dita serrate sull’elsa. Il metallo freddo della lama spezzata gli pungeva il palmo, come a ricordargli che non c’era gloria in quella notte, solo necessità.
Il respiro usciva in nuvole bianche, ritmiche, come nelle vecchie sessioni di allenamento. Ma non c’erano più maestri, né allievi, né codici: solo lui, un vecchio con un’arma monca, contro uomini affamati.
Li trovò vicino al granaio. Due ragazzi, poco più che ventenni, ridevano a bassa voce, frugando in un sacco di riso. Uno lo vide per primo.
“Chi sei, vecchio?” sputò, stringendo la lama arrugginita che portava alla cintura.
Genzō non rispose.
Si fermò a due passi da loro. Non era una posa di sfida: era solo presenza.
Il più alto fece un passo avanti, sicuro di sé. “Te ne torni subito dentro, o—”
Non finì la frase.
La lama spezzata tagliò l’aria con un sibilo.
Primo colpo: al polso. L’arma del ragazzo cadde nella neve, il grido si confuse col vento.
Secondo colpo: al fianco. Non abbastanza profondo da uccidere, ma sufficiente a piegarlo in ginocchio, a farlo capire.
Il compagno indietreggiò, occhi spalancati. Vide negli occhi di Genzō non rabbia, non vendetta, ma una calma inumana.
Fuggì senza voltarsi.
Non ci fu duello. Non ci fu onore.
Solo due colpi, precisi, necessari.
Il villaggio si svegliò al suono delle urla dei banditi in fuga. Nessuno uscì: spiavano dalle finestre, trattenendo il respiro.
Genzō restò immobile ancora un istante, poi abbassò la lama.
Non disse nulla. Non guardò nessuno.
Si voltò e tornò verso la sua capanna.
Capitolo 4 – Occhi che pesano
Quando tornò alla capanna, la neve aveva cancellato le impronte dei banditi.
Non le urla. Quelle, il vento le aveva portate di capanna in capanna, come un annuncio funesto: il vecchio ha combattuto.
Le porte si aprirono piano, una dopo l’altra.
I bambini fissavano Genzō con un misto di paura e meraviglia, stringendosi alle gonne delle madri. Le donne chinavano il capo, ma i loro occhi, per la prima volta, lo seguivano con attenzione: non più un eremita silenzioso, ma un uomo capace di brandire ancora una spada.
Gli anziani, invece, si scambiarono sguardi pesanti. Nessuno parlò. Nessuno si avvicinò.
Genzō sentiva quegli sguardi su di sé. Bruciavano più del freddo. Non erano gratitudine. Non ancora.
Erano domande che nessuno aveva il coraggio di fare:
Chi sei davvero? Perché hai agito? Cosa hai risvegliato?
Un bambino si fece avanti. Non più alto di un secchio d’acqua, con le mani screpolate e il naso arrossato.
“Vecchio… li hai fatti scappare?”
La voce era sottile, ma bastò a incrinare il silenzio.
Genzō lo guardò appena. Non rispose.
Il bambino abbassò lo sguardo e corse via.
Piano, le porte si richiusero. Il villaggio tornò a respirare.
Ma l’aria era diversa: più pesante, più carica.
Genzō rientrò nella capanna.
Si inginocchiò al centro, posando la katana spezzata accanto a sé. Il legno scricchiolò sotto il suo peso.
Chiuse gli occhi.
Non sentiva trionfo. Non sentiva pace.
Solo il ritorno del passato, come un’ombra che non smette mai di allungarsi.
Capitolo 5 – Il silenzio del giorno dopo
All’alba, il villaggio si radunò davanti al granaio.
L’aria gelida pizzicava la pelle e faceva scendere lacrime involontarie. Nessuno parlava, ma tutti guardavano la porta della capanna di Genzō.
Fu il capo degli anziani a bussare. Tre colpi secchi, senza esitazione.
Il legno cedette e il vecchio samurai apparve, seduto come sempre, la lama spezzata sulle ginocchia. Non si era nemmeno tolto la neve dai capelli.
“Vecchio Ishikawa,” disse l’anziano, piegando il capo, “questa notte hai difeso ciò che resta di noi. Ma perché?”
Genzō non rispose subito. Inspirò profondamente.
L’odore del fumo e della cenere del villaggio gli riempì i polmoni. Il dolore alle mani, il sangue secco sotto le unghie, il metallo gelido tra le dita: tutto lo riportava a una vita che aveva giurato di seppellire.
“Non per voi,” disse infine, con voce roca.
La gente trattenne il fiato.
“Perché non potevo più fingere di essere morto.”
Nessun altro parlò.
Un silenzio strano, denso, scese sul gruppo. Poi, uno alla volta, i villager si inchinarono. Non per devozione, ma per riconoscimento.
Non era più solo il vecchio pazzo delle montagne.
Non era un samurai.
Non era un bandito.
Era Genzō.
Un uomo che aveva fatto ciò che andava fatto.
Quando tutti se ne andarono, lui rimase seduto.
Chiuse gli occhi, ascoltando il rumore della neve che cadeva dai rami.
Un suono lieve, come un respiro antico.
Epilogo – Kansha
Quella sera, Genzō tornò a sollevare la botola della capanna.
Ripose la katana spezzata nel suo panno di seta, lentamente, come se stesse coprendo un corpo. Poi la nascose di nuovo sotto il pavimento.
Non l’avrebbe brandita ancora.
Non perché il pericolo fosse finito.
Ma perché il suo cuore lo era.
Si sdraiò sulla stuoia, fissando il soffitto annerito. Il vento fischiava tra le assi, portando con sé un suono che non udiva da tempo: non il lamento del passato, ma un sussurro di pace.
感謝.
Kansha.
Gratitudine.
Per l’inverno.
Per il dolore.
Per il fatto che, anche solo per un momento, era tornato a essere vivo.
E mentre chiudeva gli occhi, la neve continuava a cadere, silenziosa, coprendo ogni impronta del giorno precedente.

