I racconti di Yuki

Il tè del crepuscolo

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Introduzione – Kyoto, anno 1949

La guerra era finita da quattro anni, ma i suoi strascichi si stendevano ancora come ombre lunghe sui giardini della vecchia capitale.

A Kyoto, dove le bombe avevano risparmiato i templi ma non i cuori, il tempo sembrava essersi fermato. I tetti di tegole annerite scricchiolavano sotto il peso delle stagioni, e i cortili nascosti continuavano a fiorire, come se la bellezza fosse l’ultima forma possibile di resistenza.

In uno di questi cortili — un giardino privato nel quartiere di Higashiyama, protetto da siepi di tè e bambù — viveva Aki, donna di circa cinquant’anni, dal passo lieve e dalle mani che sapevano ancora parlare in silenzio.

Un tempo era stata maestra di cerimonia del tè presso una delle scuole tradizionali più rispettate della città.

Poi venne la guerra.

Poi venne la perdita.

Da allora, Aki viveva sola nel padiglione dietro la casa materna, dedicando ogni giorno al rigore dei gesti e al respiro del muschio. Nessuno la vedeva mai al mercato, nessuno la udiva più parlare a voce alta. Ma ogni anno, nello stesso giorno, una leggenda sottovoce si rinnovava tra i vicoli.

Si diceva che in quella casa, quando l’autunno si fa profumo di brace e legno umido, qualcuno tornasse.

E che qualcosa accadesse.

Un incontro senza parole.

Una presenza.

Un tè che svaniva da solo nella tazza.

Ma sono solo dicerie, racconti sussurrati da chi sa ascoltare le fronde secche e il vapore che sale.

Oppure no.

Perché il cuore, si sa, non dimentica mai il proprio tempo.

Capitolo 1 – Il torii del ritorno

Il giorno dopo, la luce filtrava con timidezza tra le fronde dei bambù, come se anche il sole esitasse a interrompere l’incanto della sera precedente.

Aki si alzò prima dell’alba. Le dita ancora umide di sonno sfiorarono la carta del kakemono appeso nella tokonoma: “Ichigo ichie – una volta, un incontro”. Le parole sembravano vibrare sotto il tocco, come scritte sul respiro e non sull’inchiostro.

Nel giardino, la brina disegnava ricami d’argento sui sassi e sulle foglie di camelia. Il suo passo, nudo e leggero, lasciava impronte fugaci sul tatami del portico, mentre il profumo lieve del cipresso si levava dalla struttura ancora umida di rugiada.

Quel giorno non era come gli altri.

Non per ciò che accadeva fuori, ma per ciò che non riusciva più a contenere dentro.

Il crisantemo bianco era ancora lì, accanto al chawan ormai freddo. Aki non l’aveva toccato, né raccolto. Quel fiore bastava a colmare il silenzio. Bastava a smuovere ricordi troppo profondi per essere detti.

Era l’autunno dell’ultimo anno di guerra quando lo aveva visto partire.
Lui non aveva indossato un’armatura, ma un kimono chiaro e il cappello di paglia basso sugli occhi. Aveva sorriso. Le aveva teso il rotolo di carta con la poesia. E poi aveva attraversato il torii in fondo al sentiero, svanendo tra gli aceri rossi.

Nessuno lo aveva più visto.

Nessuna notizia.

Solo il silenzio, come una pergamena che non si sa se leggere o bruciare.

Quel mattino, Aki si avvicinò lentamente al torii.

Il muschio cresceva ormai anche sulle sue colonne. Una ragnatela scintillava tra i pali come una mappa dimenticata. Il vento soffiava piano, eppure nell’aria si avvertiva qualcosa che sapeva di passaggio, di soglia, di non detto.

Toccò il legno con le dita: era freddo, ma vivo.

Un sussurro parve attraversarle la pelle: non era suono, né eco.

Era come un pensiero di qualcuno che pensava a lei da molto lontano.

Tornò dentro senza fretta.

Preparò di nuovo l’acqua.

Un’altra tazza. Un altro momento.

Il tè non era mai solo tè, dopotutto.

Era attesa.

Era promessa.

Era memoria in forma di vapore.

Capitolo 2 – L’eco del suo nome

La sera tornò in silenzio, con la grazia lenta dei petali che cadono.

Nel padiglione, Aki aveva riordinato ogni oggetto come se fosse parte di un rito sacro. Ogni giorno, la stessa cura. Ogni movimento, una preghiera silenziosa. Aveva rinnovato la sabbia del kominka, spazzolato le foglie secche dal sentiero, lucidato il ferro del tetsubin finché il suo riflesso non le restituì un volto che non sapeva più se riconosceva.

Ma non era la stanchezza a piegarle le spalle.

Era il tempo.

Quel tipo di tempo che non passa, ma si accumula, come neve che non cade, ma resta.

Sedette accanto al tokonoma e scelse un nuovo kakemono da appendere: un paesaggio d’inchiostro, montagne velate e un piccolo ponte. Lo aveva dipinto lui, anni prima, in un pomeriggio di pioggia.

La carta aveva assorbito ogni tratto con la stessa delicatezza con cui il cuore assorbe le assenze.

Aki passò le dita sui contorni, fermandosi sul piccolo ponte.

Quella era la loro immagine segreta: una promessa fatta sotto la pioggia, il rumore delle gocce sulle tegole, le mani che si sfioravano appena, come se già sapessero che l’addio era vicino.

Fuori, nel giardino, la nebbia saliva dai muschi, lenta e densa come un pensiero che torna. Aki si alzò e aprì il paravento di carta, lasciando entrare la luce del crepuscolo. L’aria odorava di terra bagnata, legno vecchio e foglie morte: profumi che parlavano di fine e rinascita.

Poi lo sentì.

Una voce.

O forse un’eco.

Il suo nome, sussurrato da lontano.

“Aki…”

Si voltò, ma nessuno.

Il vento non si muoveva. Le foglie, immobili.

Era il tipo di voce che non entra dalle orecchie, ma dalle ossa.

Quel tipo di chiamata che riconosci non perché l’ascolti, ma perché ti ricorda chi sei.

Tornò a sedersi, il cuore ora leggermente fuori tempo.

Accese un incensiere.

Il profumo del kyara – profondo, antico, misterioso – si arrampicò nel padiglione come una spirale invisibile. Il fumo si arrotolava nell’aria, danzando tra le travi. Sembrava quasi prendere forma.

Un volto. Un gesto. Un ricordo?

No, non era solo memoria.

Era qualcosa di più vivo.

Di più vicino.

Aki inspirò a fondo. Il kyara sapeva di resina antica e foreste lontane. Ma quella sera, c’era un’altra nota, un aroma appena percettibile… tabacco dolce e cuoio – il suo.

Quel profumo che lui lasciava dietro di sé quando usciva nel freddo.

Forse era impazzita.

O forse il confine tra i mondi si era semplicemente assottigliato.

Come succede a volte, tra l’ultimo tè dell’autunno e il primo gelo dell’inverno.

Capitolo 3 – Il suono del tempo

La notte si avvicinava senza fretta.

Una notte d’autunno inoltrato, in cui il silenzio non è vuoto ma pieno di cose invisibili: desideri, rimpianti, attese.

Aki tornò a stringersi nel suo haori di lana grezza. Il tatami sotto le ginocchia emanava ancora un calore trattenuto, come se il legno ricordasse ogni corpo che lo aveva sfiorato. In cucina, il furo borbottava piano, come una vecchia voce che non vuole disturbare.

Fu allora che sentì il suono.

Non quello dell’acqua.

Ma un altro.

Uno strumento.

Un flauto.

Poche note, suonate lontano… oppure solo nella sua memoria.

Era un suono che conosceva.

Lui lo suonava in autunno, sotto il kaki del cortile, quando il sole cominciava a inclinarsi e l’aria diventava più sottile. Un flauto fatto a mano, con il nodo di bambù irregolare, le fessure appena bruciate con un filo di ferro caldo. Diceva che i suoni più belli sono quelli che non si possono replicare.

“Come certi momenti,” le aveva sussurrato una volta, accostando il flauto alle labbra.

Quel giorno, mentre lui suonava, una foglia era caduta nel suo tè.

Aki l’aveva osservata galleggiare, ruotare piano, fino ad affondare. Non l’aveva tolta.

Perché aveva pensato che anche il tè, a volte, dovesse conoscere la bellezza del cadere.

La memoria si era risvegliata nel corpo.

Sentiva ancora il freddo della ceramica tra le dita, il vapore che sfiorava le ciglia, la pelle di lui quando le aveva preso il polso per fermarle un gesto – con gentilezza, con decisione.

Il suo tocco.

Così diverso da ogni altro: misurato, ma colmo. Mai invadente, ma presente come una parola non detta.

Quel tocco era ancora lì, in qualche parte segreta della pelle.

E adesso, il suono di quel flauto tornava a intrecciarsi col battito.

Aki si alzò lentamente.

La casa era ferma, il giardino immerso nell’ombra bluastra della notte. Ma in lei qualcosa si era messo in cammino.

Andò verso il piccolo ripostiglio dietro la parete scorrevole, dove teneva le cose che non voleva dimenticare ma non riusciva a guardare. Il legno scricchiolò piano. L’odore di polvere secca e carta antica le solleticò il naso.

Sollevò il coperchio della scatola laccata.

Dentro, il flauto.

Avvolto ancora nel panno di lino bianco, piegato con precisione. Come lui faceva sempre, anche con le cose più piccole. Le mani che creano la bellezza, diceva, sono le stesse che possono guarire il cuore.

Lo prese. Lo sfiorò con le labbra.

E anche se non suonava da anni, soffiò piano.

Una nota.

Tremula, imperfetta.

Vera.

Fuori, nel giardino, qualcosa sembrò rispondere.

Un colpo di vento improvviso, il suono secco di una foglia che cade e tocca l’acqua della vasca di pietra.

E ancora quella sensazione… come se lui fosse vicino.

Non come un ricordo.

Ma come un respiro.

Capitolo 4 – Il rumore delle cose che non dovrebbero muoversi

La nota del flauto non era ancora svanita nell’aria quando accadde.

Un suono secco, improvviso, ruppe il silenzio.

Non veniva da fuori.

Era dentro casa.

Uno scatto.

Come una serratura.

Come il suono del legno che si spezza sotto una tensione invisibile.

Aki si voltò di colpo, il cuore in gola. Il flauto le scivolò dalle mani e cadde sul tatami, rotolando piano fino al bordo del tappeto, dove si fermò.

Poi… silenzio.

Un silenzio diverso da tutti quelli provati fino ad allora.

Non era quiete.

Era vuoto.

Quel tipo di vuoto che resta dopo l’urlo di qualcosa che non ha voce.

Inspirò piano, tentando di riportare il battito sotto la pelle.

Fece un passo. Due.

Il pavimento sembrava più freddo.

L’aria… più densa.

Entrò nel corridoio che collegava il padiglione alla stanza della calligrafia, illuminata solo da un raggio di luna che filtrava attraverso le imposte semiaperte. Il profumo del kyara si era affievolito, lasciando al suo posto un odore metallico, sottile. Come ferro bagnato.

Come sangue.

Poi lo vide.

Il kakemono.

Non era più quello con il paesaggio di montagna.

Era cambiato.

Appeso al muro c’era un rotolo diverso, di cui non ricordava l’esistenza.

Carta spessa, consumata.

Un tratto di inchiostro rosso scuro, simile a una macchia.

Ma a guardarlo meglio… non era solo un tratto.

Era una scrittura.

Una calligrafia che tremava ai bordi, come se fosse stata tracciata con la mano di chi ha freddo. Di chi è morto da tempo, ma continua a scrivere.

Si avvicinò lentamente, trattenendo il respiro.

Lesse.

“Non ho attraversato il torii da vivo. Ma ti ho seguita, goccia dopo goccia, nel vapore del tè.”

La mano di Aki si aggrappò al montante della porta.

Il sangue le era scivolato via dal volto, lasciandole addosso il gelo di chi ha appena smesso di sognare – o ha appena iniziato a vedere davvero.

Un colpo secco fece tremare il pavimento.

Si voltò di scatto.

Nel giardino, le campanelle fūrin appese al cornicione oscillavano impazzite, anche se non c’era vento.

I bambù… sembravano piegarsi, non verso l’esterno, ma verso la casa.

Come se qualcosa stesse arrivando.

Come se qualcosa stesse tornando.

Aki fece un passo indietro.

Le mani le tremavano.

Il corpo si rifiutava di muoversi, ma il cuore sì. Batteva forte, troppo forte. Aveva il suono della fuga, ma anche quello della chiamata. Come se qualcosa dentro di lei sapesse che la soglia era stata aperta.

Una soglia che non avrebbe dovuto esserlo.

Eppure… era lui?

Era davvero lui?

O solo un’ombra nata da troppa attesa?

Si portò le dita al viso. Erano bagnate.

Ma non piangeva.

Era vapore.

Un vapore denso e tiepido, come quello del tè…

Ma veniva dal corridoio.

Dal fondo.

Dalla stanza dove nessuno entrava più da anni.

Lì dove avevano dormito insieme per l’ultima volta.

Dove lui aveva lasciato il rotolo con la poesia.

Dove ora la porta era socchiusa.

E da sotto il legno, lentamente, si stendeva una sottile linea d’acqua calda.

Come se qualcuno stesse preparando il tè.

Per lei.

Capitolo 5 – L’ultima soglia

Il tatami sotto i piedi sembrava pulsare.

Non con il ritmo della casa.

Ma con quello del cuore.

Con quello di un altro cuore.

Aki avanzò nel corridoio stretto, le pareti di legno vecchio respiravano piano, come trattenessero fiato. Ogni passo risuonava ovattato, ma netto, come se entrasse in un luogo dove il tempo non era più una linea, ma un cerchio.

Arrivò davanti alla stanza.

La porta era socchiusa, il vapore filtrava in filamenti tremuli. Dentro non c’era luce, eppure l’aria brillava di riflessi umidi, come acqua che attende la luna.


Spinse piano.

La porta scivolò via senza resistenza, e subito l’odore del matcha la avvolse.

Ma non solo quello.

C’era anche un altro profumo.

Pelle. Cenere. Pioggia su un kimono steso a seccare.

Era lui.

Lei lo sapeva.

Lo sentiva.

Il corpo tremava, ma le mani no. Erano calme, come se tutto ciò fosse già accaduto infinite volte, o fosse destinato ad accadere da sempre.


Sul tatami, il vapore saliva da un chawan che non c’era il giorno prima.

Poggiato con delicatezza, accanto a una tazza vuota.

Di fronte, un secondo cuscino.

Come se qualcuno l’avesse attesa. Non solo ieri. Ma ogni anno, in segreto.

Sedette.

Non parlò.

Non chiamò.

Non chiese.

Solo guardò.

E nell’aria, il vapore prese forma.

Non un volto.

Non un corpo.

Ma una presenza.

Il modo in cui la nebbia si addensa su uno specchio. Il suono sottile di un respiro che si ricorda. Il calore di una mano che ha già toccato il cuore una volta e non ha mai smesso.


Poi, sentì un gesto.

Un movimento appena percettibile.

Un’ombra inclinarsi.

Una mano – o qualcosa che ne era il ricordo – afferrare il chawan.

Sollevarlo.

Portarlo alle labbra.

E bere.

Il suono del tè, quando viene sorseggiato con gratitudine, è come quello della pioggia che accarezza il legno vecchio.

Fu allora che Aki vide.

Non con gli occhi.

Ma con tutto il corpo.

Vide il giorno in cui si erano incontrati.

Il primo fiore che le aveva raccolto.

Le labbra che non aveva mai baciato, ma che avevano detto tutto senza parole.

La guerra.

L’addio.

Il torii.

La poesia.

La promessa.

E poi, questa stanza.

Dove l’amore, respinto dalla morte, era tornato a sedersi in silenzio.


Il chawan fu riposto con lentezza sul tatami.

Di fianco, un secondo crisantemo bianco.

Accanto al primo.

Aki sorrise, e il sorriso le scivolò nel cuore come un fiume che trova il suo letto.


Fuori, il vento ricominciò a soffiare.

Le foglie d’acero si staccarono in un turbinio leggero, come mille lettere mai spedite.

La casa respirava.

Il giardino ascoltava.

E Aki, per la prima volta dopo anni, si sentì piena.

Non di parole.

Non di risposte.

Ma di presenza.

Epilogo – Quando il vapore si fa soglia

Il mattino seguente, Aki si svegliò prima della luce.

Le mani ancora umide di sogno si chiusero intorno al lembo del futon.

Nessun suono, se non il respiro lento della casa che la conosceva a memoria.

Il chawan era al suo posto, vuoto.

I due crisantemi giacevano sul tatami, freschi, come appena colti.

Eppure, nel cuore, niente era finito.

Non era stato un addio.

Né un ritorno.

Ma una continuazione.


Quella sera, preparò nuovamente il tè.

Lo fece senza fretta.

Il gesto della mano che versa, quello che mescola, quello che offre: tutti identici, eppure mai uguali.

Ogni movimento conteneva il mondo intero. Ogni dettaglio vibrava di quella presenza sottile che ormai abitava i suoi giorni come una nota costante, appena sotto il silenzio.

Aveva capito che lui non sarebbe più tornato.

Perché non se n’era mai andato.

Era lì, in ogni filo di vapore che saliva dalla tazza.

Nel muschio che cresceva senza fare rumore.

Nel fruscio del kimono quando si piegava in inchino.

Nel gesto che ripeteva ogni anno, ogni stagione, ogni attesa.


Da quel giorno, Aki non attese più.

Non in quel modo.

Preparava il tè come si scrive un poema infinito, con parole invisibili.

E ogni volta che il matcha fumava, un altro mondo si apriva.


Forse c’è ancora, oggi.

Forse, in un giardino nascosto dal tempo, una donna dai capelli d’argento versa acqua calda in una ciotola di raku, mentre il vento passa piano tra i bambù.

Forse, chi beve quel tè, lo fa accanto a qualcuno che non può vedere.

Ma che sente.

Come un fiore che resta.

Come un amore che non finisce.

Come un respiro che ritorna.

Glossario culturale giapponese del racconto

Kakemono (掛け物)

Un kakemono, o kakejiku, è un rotolo verticale dipinto o calligrafato, pensato per essere appeso nella tokonoma, la nicchia d’onore di una stanza in stile giapponese. Può contenere paesaggi, poesie, ideogrammi o immagini sacre. Viene scelto con grande cura, in accordo con la stagione, l’occasione o lo stato d’animo.

Tokonoma (床の間)

Letteralmente “luogo rialzato del pavimento”, è l’alcova decorativa tipica delle stanze in stile washitsu (giapponese). È il punto focale della stanza, dove si espone un kakemono, un fiore (ikebana) o un oggetto simbolico. Non è solo decorazione, ma spazio meditativo e silenzioso, carico di significato.

Chawan (茶碗)

La ciotola da tè utilizzata nella cerimonia del chanoyu. Può essere semplice o artisticamente irregolare, realizzata in raku, porcellana o gres. Ogni chawan ha una “faccia” privilegiata e un peso pensato per il gesto meditativo di chi la tiene tra le mani.

Natsume (棗)

Un contenitore laccato utilizzato nella cerimonia del tè per custodire il tè verde matcha. Di forma rotonda e compatta, si maneggia con eleganza e misura. Anche la sua posizione sulla stuoia segue una ritualità precisa.

Furo (風炉)

Braciere portatile utilizzato per riscaldare l’acqua durante i mesi caldi nella cerimonia del tè. Emana un suono caratteristico, simile a un respiro, che accompagna l’atmosfera silenziosa della stanza.

Matcha (抹茶)

Tè verde giapponese in polvere, finemente macinato, di colore verde intenso e sapore complesso. Si prepara sbattendolo con acqua calda attraverso un frustino di bambù (chasen), fino a ottenere una schiuma sottile e cremosa. È al centro della cerimonia del tè giapponese, ma anche simbolo di impermanenza e presenza mentale.

Torii (鳥居)

Portale tradizionale giapponese, spesso in legno o pietra, che segna l’ingresso a un luogo sacro, come un santuario shintoista. Attraversarlo equivale a entrare in uno spazio altro, dove le leggi del mondo si assottigliano. Nel racconto, il torii segna una soglia tra presente e passato, tra vita e spirito.

Haori (羽織)

Giacca tradizionale giapponese, simile a un kimono corto, indossata sopra gli abiti. Calda, avvolgente, sobria nei colori. In contesti poetici, è spesso usata per evocare discrezione e intimità.

Kominka (古民家)

Casa tradizionale giapponese di legno, tipica delle epoche Meiji e Taishō. Aki abita una di queste strutture: tetto basso, tatami, shōji (porte scorrevoli di carta), e giardino interno. Rappresenta una forma di esistenza legata al tempo lento e all’ascolto del paesaggio.

Kyara (伽羅)

Tipo di incenso tra i più pregiati, ricavato da una particolare resina di legno agarwood. Il suo profumo è profondo, complesso e spirituale. Tradizionalmente usato nelle cerimonie più elevate e nei rituali di riflessione. Spesso associato alla presenza invisibile.

Fūrin (風鈴)

Campanelle a vento giapponesi, appese sotto i cornicioni. Il loro suono è delicato, malinconico e stagionale. È considerato segno di freschezza in estate e, nella spiritualità, può indicare il passaggio di spiriti benevoli.

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