
Il profumo del te perduto
Introduzione – Kyoto, oggi.
L’aria densa di incenso e del leggero aroma di matcha aleggiava nella bottega di Akemi, un santuario di creta e quiete nel cuore pulsante di Kyoto. La città fuori fremeva nel consueto brulichio di passi, voci basse e biciclette cigolanti, ma dentro quel piccolo locale nascosto in un vicolo di Gion, il tempo sembrava versarsi lento come il tè in una tazza di raku.
Le pareti, ricoperte da scaffali di legno scuro, custodivano piccole ceramiche dalle forme imperfette: tazze dai bordi irregolari, vasi panciuti come antiche risate dimenticate, piatti che sembravano catturare frammenti di luna nel loro smalto crepato. Tutto parlava di mani pazienti e gesti ripetuti con amore.
Akemi, 67 anni, capelli raccolti in uno chignon disordinato e mani segnate da una vita di terra e fuoco, si chinava sul tornio con la stessa attenzione con cui si porge una scusa. L’argilla sotto le dita era tiepida, viva, e la sua pelle ne avvertiva ogni increspatura come se leggesse un antico poema silenzioso.
Nel retro della bottega, oltre un noren blu cobalto che ondeggiava appena al passaggio del vento, si apriva un giardino segreto: una minuscola oasi di muschio, pietre posate come sillabe, bonsai antichi e piante aromatiche che crescevano ordinate ma selvatiche. Era lì che Akemi coltivava gli ingredienti del suo tè cerimoniale familiare, una miscela tramandata da quattro generazioni, la cui ricetta – mai trascritta – viveva solo nella memoria delle sue mani.
Era un tè che non si vendeva, ma si offriva: alle visite importanti, alle anime in lutto, agli amici di ritorno dopo lunghi inverni. Il suo profumo era profondo, inconfondibile. Eppure, da qualche tempo, qualcosa lo aveva alterato. Non nel gusto, ma nel respiro che lasciava dopo il sorso: un’assenza, come un nome dimenticato sulla punta della lingua.
Akemi se ne accorse una mattina di inizio settembre, quando il profumo della sua tazza sembrava… più vuoto. Non amaro, non spento. Solo, incompleto.
Sospirò. Credeva fosse solo l’umore, la stanchezza. Ma il suo sguardo si posò sul piccolo acero nero, il kuro-momiji, nell’angolo più ombroso del giardino. Le sue foglie, che normalmente brillavano di riflessi rubino, sembravano essersi diradate. E mentre un petalo di kinmokusei fluttuava piano nell’aria umida del mattino, un presentimento – vago come nebbia – si insinuò nella mente di Akemi.
Qualcosa stava cambiando. E non era solo il tè.
Capitolo 1 – Il primo haiku
Il mattino filtrava attraverso le imposte di legno sottile come una preghiera non detta. L’aria aveva l’odore leggermente ferroso della pioggia notturna, mescolato a quello delle foglie umide e del tè appena infuso. Akemi, ancora in yukata, sedeva sul tatami vicino alla finestra, stringendo tra le mani una delle sue tazze preferite: smaltata di nero profondo, con una venatura ramata che la faceva sembrare crepata dalla luna.
Portò la tazza alle labbra, assaporando il sorso con l’attenzione di chi ascolta un segreto. La prima nota era lì: calda, erbacea, rassicurante. Ma la seconda… no, non arrivava. Era come se mancasse un’eco.
Si alzò piano, le ginocchia scricchiolanti come bambù secchi, e attraversò la bottega in silenzio, scostando il noren per raggiungere il piccolo giardino. Una luce lattiginosa colava tra i rami bassi del glicine, e il muschio, di solito soffice e profumato, sembrava più spento, meno vivo.
Fu lì che notò l’assenza.
L’acero nero – kuro-momiji – era spoglio in modo innaturale. Non una foglia, nemmeno una caduta a terra. Solo rami nudi e sottili, come dita che indicano qualcosa di invisibile.
Akemi si chinò, il cuore un po’ più pesante. Qualcosa luccicava sul terreno, appena visibile tra la terra bagnata e i sassi grigi. Un rettangolo bianco, sottile. Carta di riso.
La raccolse con mani tremanti. Sopra, vergate con una calligrafia antica e precisa, poche parole disposte con grazia. Un haiku.
Ramo spezzato cade,
Amaro rimpianto nel cuore,
Tè senza memoria.
Un fremito le attraversò il petto. Non era solo la bellezza del verso – malinconica, perfetta – a colpirla. Era la firma invisibile dietro quelle parole. Una calligrafia che somigliava a quella di suo nonno, ma più sottile, quasi femminile. O forse era solo la suggestione.
Il vento alzò un fruscio tra le canne di bambù. Akemi rimase ferma, il foglio tra le dita, il respiro sospeso. Poi, rientrò nella bottega senza dire nulla, posò il foglio accanto alla sua tazza e si sedette di nuovo sul tatami.
Portò la ceramica alle labbra. Ora sentiva il sapore mancante. L’assenza si era fatta nome.
Non era più un caso. Era un messaggio.
Capitolo 2 – La seconda assenza
La notte seguente portò con sé un vento inquieto, che fece vibrare le lanterne appese sotto il cornicione e piegò i rami del glicine come se sussurrasse qualcosa alle sue radici. Akemi non dormì. Restò seduta sul futon, ascoltando il silenzio come si ascolta un dolore antico: con rispetto e una punta di timore.
All’alba, indossò un kimono semplice color pietra e uscì nel giardino con una ciotola d’acqua e un panno. Si avvicinò alle aiuole aromatiche, decisa a controllare ogni singola pianta. Ma non dovette cercare a lungo.
Il gin-hakkaku, l’anice stellato argentato che usava per dare un sussurro dolce al tè, era scomparso. Non spezzato, non rinsecchito. Solo… svanito. Come se qualcuno lo avesse raccolto con mani esperte durante la notte, lasciando intatta la terra.
Sul bordo della pietra piatta usata per pestare le foglie, trovò un nuovo foglio di carta. Era stato lasciato con cura, appoggiato con rispetto, come un’offerta o una richiesta muta.
Silenzio tra le pietre,
Un segreto celato al vento,
Sapore svanisce.
Questa volta Akemi rabbrividì. C’era un’eleganza in quelle parole che faceva male. Non erano parole di furto, ma di lutto. Di qualcosa perso da tempo, che adesso cercava voce.
Fu in quel momento che sentì la voce alle sue spalle.
— “Zia, sei sveglia da quanto?”
Akemi si voltò. Sotto l’arco di glicine, in controluce, stava Hana, la nipote tornata da Tokyo solo tre giorni prima, con una valigia rossa, un laptop sempre acceso e un sorriso che cercava di non far rumore.
Hana si avvicinò e si inginocchiò accanto a lei. Il profumo del suo shampoo all’olio di yuzu si mescolava all’umido della mattina.
— “Cos’è questo?” chiese, sfiorando il foglio con due dita.
Akemi non rispose subito. Le porse il primo haiku, che aveva piegato e nascosto nel suo diario.
Hana li lesse entrambi. Poi si alzò in piedi e disse solo:
— “Dobbiamo capire chi li ha scritti. E perché.”
Quel pomeriggio, mentre la luce dorata del sole scivolava tra le assi del soffitto, Akemi e Hana salirono nella soffitta. Il legno scricchiolava sotto i loro passi, il profumo della polvere si mescolava a quello secco di vecchia seta e di incenso consumato.
Aprirono scatole coperte da anni di silenzio. Lettere vergate con inchiostro sbiadito, foto dai bordi consumati, quaderni cuciti a mano. Ogni oggetto sembrava appartenere a un’altra vita, eppure tutto era lì, come in attesa.
Fu Hana a trovare il primo indizio: una lettera, chiusa in una busta piegata in quattro. Sul fronte, in calligrafia sottile, un nome mai pronunciato in famiglia. “Yui”.
La carta odorava di tè e cera. Le parole parlavano di un amore sussurrato, di un dolore trattenuto per decenni, come un sorso troppo caldo rimasto in gola.
E proprio accanto, nascosto dentro un rotolo di stoffa di lino, un terzo haiku, scritto a mano, molto più vecchio:
Ciò che non si dice
si appoggia tra i petali
come pioggia lenta.
Akemi sollevò lo sguardo su Hana. Qualcosa – qualcosa di antico, di dimenticato – stava tornando in superficie.
E non erano solo parole.
Capitolo 3 – L’eco nella terra
La pioggia tornò nella notte, battendo piano contro le tegole come dita che bussano con rispetto. Il rumore dell’acqua che colava nei canali del giardino si mescolava al respiro del vento, e Akemi si svegliò di soprassalto, come richiamata da un pensiero che non era ancora sogno ma neppure realtà.
Scese lentamente, senza accendere luci. La casa dormiva ancora. Ma nel giardino, qualcosa era cambiato.
L’odore lo avvertì per prima. Non era il profumo familiare dell’umidità del muschio o del legno bagnato. Era un aroma più pungente, come di terra smossa, di radici spezzate. E lì, al centro dell’aiuola dove cresceva rigogliosa la yuki-shita – la sassifraga bianca che donava al tè la sua freschezza cristallina – trovò solo un buco scuro e fangoso.
Non una foglia. Nemmeno un frammento di stelo.
Accanto, come sempre, un altro foglio.
Silenzio tra le pietre,
Un segreto celato al vento,
Sapore svanisce.
Era lo stesso haiku del giorno prima. Ma stavolta scritto con inchiostro più scuro, più fresco, come se volesse essere letto di nuovo. Come se volesse gridare.
Il cuore le martellava piano, non di paura, ma di qualcosa di più sottile: un’inquietudine ancestrale, come se la casa stesse ricordando qualcosa che lei aveva dimenticato.
La mattina seguente, Hana la trovò a scrutare il cortile dal tatami, tazza in mano, ma senza berne il contenuto.
— “Hai mai sentito parlare del pozzo?” le chiese d’un tratto, senza girarsi.
Hana sgranò gli occhi. — “Il pozzo in fondo al giardino?”
Akemi annuì lentamente.
— “Un tempo era aperto. Mio padre diceva che si sentivano le voci dei defunti quando il vento era giusto. Poi lo coprirono. Disse che era meglio così.”
Uscirono insieme, in silenzio. Il cielo era grigio latte, l’aria densa di elettricità. Il glicine sfiorava i capelli di Hana mentre si faceva strada tra le piante, fino alla zona più dimenticata del giardino. Lì, sotto un cumulo di assi coperte di edera, trovarono il bordo di pietra del vecchio pozzo, ancora visibile. Le mani di Akemi tremavano mentre toccava quelle pietre fredde, ricoperte di muschio. Era come toccare la memoria stessa della casa.
Smisero le assi, una per una. Quando sollevarono l’ultima, un odore acre e profondo si sollevò nell’aria: umido di fondo, terra stagnante e qualcosa che sapeva di ruggine e fiori marciti.
Hana si sporse con cautela. Il buio del pozzo era compatto, impenetrabile. Ma sentì qualcosa: non un suono, ma una sensazione. Come un pensiero che saliva lento.
Poi notò qualcosa d’appoggiato sulla pietra vicino al bordo. Un altro foglio. Questa volta scritto con una calligrafia che sembrava esitare a ogni tratto.
Ombra nel pozzo antico,
Il riflesso inganna il cuore,
Verità affonda.
Hana si ritrasse, un brivido lungo la schiena.
Non c’erano più dubbi: qualcuno stava cercando qualcosa. Ma non solo piante. Cercava memoria, cercava giustizia, o forse solo la possibilità di essere ascoltato.
E ora che il pozzo era stato riaperto, qualcosa era tornato a respirare.
Capitolo 4 – Il nome inciso nel buio
Nei giorni seguenti, Hana si tuffò negli archivi con la determinazione di chi cerca non solo una risposta, ma un’origine. Akemi, più silenziosa del solito, si limitava a osservare, a volte preparando il tè in una delle sue tazze più antiche – quella creata con l’argilla rossa di Shigaraki, smaltata in verde crepuscolo – e lasciandola lì, fumante, sulla soglia del giardino. Come un’offerta.
Il pozzo era stato ricoperto con cura, ma non dimenticato.
Hana ritornò alla soffitta ogni pomeriggio, setacciando lettere, foglietti ingialliti, vecchi cataloghi di mostre di ceramica. Finché, sotto una scatola di fotografie e cornici spezzate, trovò un taccuino piccolo e rilegato a mano, con copertina in seta grigia, consumata dal tempo. Odorava di muffa, ma anche di fiori secchi.
All’interno, versi sparsi, appunti sul tempo, schizzi di foglie, note botaniche e haiku. Alcuni erano firmati Yui, altri portavano solo una “Y.” Ma ciò che colpì Hana fu il tono: malinconico, preciso, intimo. Non erano pensieri per essere letti. Erano memorie sotterrate, un diario senza destinatario.
Una pagina riportava una lista di ingredienti per un tè speciale. Alcuni erano quelli usati ancora oggi da Akemi. Ma altri nomi erano sconosciuti a Hana. Ne trascrisse uno: “koke-ran” – una radice. Aveva qualcosa di familiare, ma non sapeva dire perché.
Sulla pagina successiva, però, qualcosa la gelò: un disegno a china, semplice ma elegante, raffigurava la lanterna di pietra del giardino di Akemi. Sotto, un verso tracciato con mano ferma:
Lì sotto riposa,
Dove la luce non giunge,
Il mio vero nome.
Hana corse fuori, con il taccuino stretto al petto. Il cielo minacciava pioggia, le nuvole basse e gonfie come cotone sporco. Si inginocchiò accanto alla lanterna, tastando la base. Il muschio era umido, il legno della cornice di pietra friabile sotto le dita. Notò, con il cuore che accelerava, un’incisione a stento visibile: un ideogramma antico, quasi cancellato dal tempo e dalla pioggia.
Lo seguì con l’indice, lentamente: 結 – Yui.
Scostò alcune pietre, affondando le mani nella terra. Le dita urtarono qualcosa: legno levigato. Lo estrasse con cura. Era un piccolo cofanetto di paulonia, leggero e vellutato, profumato di stagioni passate.
Dentro, adagiato su un panno color indaco, un quaderno scritto a mano. Le prime pagine erano fitte di pensieri intensi: un amore silenzioso, un’arte non riconosciuta, la descrizione attenta di ogni ingrediente del tè come fosse una lettera d’amore taciuta. E poi, la rivelazione.
Yui era una ceramista, discepola di un maestro che non aveva mai potuto chiamare per nome. Il loro legame era profondo, ma invisibile agli occhi del mondo. Avevano creato insieme, avevano condiviso infusi e sguardi, ma mai una tazza di quel tè che lui considerava sacro.
Nel quaderno, Yui annotava il dolore di non essere ricordata. Il desiderio di lasciare una traccia. Di essere, almeno una volta, riconosciuta.
L’ultimo haiku, scritto con inchiostro diluito dalle lacrime, diceva:
Radici intrecciate,
Sotto la lanterna muta,
Il mio nome attende.
Hana si passò le dita sugli occhi. Non era solo una storia d’amore. Era una storia di identità negata, di creazione dimenticata, di memoria sotterrata.
E ora, stava venendo alla luce.
Capitolo 5 – L’infusione della verità
Quel pomeriggio, il cielo aveva un colore strano: tra il rame e il giada, come se il giorno stesso esitasse a lasciare spazio alla notte. Il cortile era immobile, come in attesa.
Akemi aveva disposto con attenzione gli strumenti della cerimonia: chawan, chasen, natsume. Il vapore leggero del bollitore si alzava come un pensiero che non voleva dissolversi. Sul tatami, davanti a lei, Hana teneva tra le mani il quaderno di Yui, rilegato con un nuovo nastro rosso.
— “Hai deciso di usarla?” chiese, indicando la vecchia tazza raku – quella nera, screziata d’ambra, che nessuno usava più da anni.
Akemi annuì.
— “Fu lei a cuocerla. Mio nonno la teneva nascosta. Diceva che aveva qualcosa di… imperfetto. Ma era perfetta. Solo che non portava il suo nome.”
Hana si alzò e, dal cofanetto di paulonia, estrasse un piccolo sacchetto di lino. Dentro, custodita come una reliquia, la radice essiccata di koke-ran: la nota dolceamara mancante, ritrovata accanto al diario.
La sminuzzarono insieme, con cura quasi sacra. L’aroma che ne uscì era intenso: umido e legnoso, con un sentore lontano di miele affumicato. Mescolarono le foglie rimaste, ognuna al suo posto. Il tè era completo.
Akemi versò l’acqua con gesto lento, roteando il chasen con fermezza. Il suono del bambù contro la ceramica sembrava un battito. Quando sollevò la tazza, il vapore le baciò il volto. Inspirò profondamente.
Era tornato.
Il profumo: profondo, stratificato, come un canto antico. La prima nota, erbacea. La seconda, dolce. La terza, inattesa: un retrogusto di malinconia, quasi una lacrima. Ma poi, una luce. Come se il passato, finalmente accolto, avesse trovato la via del ritorno.
Akemi bevve. Le mani tremarono appena. Poi porse la tazza a Hana, che sorseggiò con gli occhi lucidi.
— “Ora capisco perché lo chiamavi il tè della memoria,” mormorò.
La luce filtrava tra le stecche di bambù, sfiorando le loro spalle. Il giardino respirava. Il glicine si muoveva appena, come inchinandosi.
Quella sera, mentre riponevano gli strumenti, Hana propose:
— “Dovremmo raccontare questa storia. A chi beve questo tè. Far sapere chi era Yui.”
Akemi sorrise. Un sorriso pieno di rughe e gratitudine.
— “Non sarà più solo il nostro segreto.”
Nel piccolo santuario di creta e silenzio, il tempo riprese a scorrere. Ma qualcosa era cambiato per sempre.
Epilogo – Il profumo perduto
Ogni stagione ha il suo silenzio. Quello dell’autunno era diverso, pensava Akemi mentre sorseggiava lentamente il tè sul tatami, le mani strette intorno alla tazza raku. Era un silenzio che non faceva male, ma che riempiva, come le pause tra le parole di un haiku.
Nel giardino, le foglie di kuro-momiji avevano ricominciato a spuntare. I petali di kinmokusei rilasciavano la loro fragranza leggera nell’aria, e le erbe aromatiche – sassifraga, anice stellato, glicine – sembravano aver ritrovato il respiro.
Sulla mensola accanto alla porta, il quaderno di Yui era stato rilegato con copertina nuova e inciso con il suo nome, finalmente inciso a mano con oro sottile. Non era più nascosto, né dimenticato.
Hana aveva realizzato un piccolo libretto da accompagnare alle confezioni di tè offerte nella bottega: una storia da leggere mentre si beve, fatta di versi, appunti e nomi ritrovati. Il tè aveva ora un nuovo nome, scritto in calligrafia rotonda su un’etichetta semplice:
“Yui no Kaori” – Il profumo di Yui.
Chi entrava nella bottega spesso lo faceva per curiosità, attirato dal design raffinato o dal profumo che filtrava fino alla strada. Ma chi ne usciva portava con sé qualcosa in più: la sensazione di aver toccato una storia, di averla sorseggiata, silenziosamente.
Akemi, nel chiudere le imposte ogni sera, si inchinava alla lanterna di pietra, ora ripulita e circondata da piccoli fiori. A volte, lasciava lì una tazza. Vuota, ma tiepida.
Un gesto semplice.
Un modo per dire:
“Non ti ho dimenticata.”
🌿 Glossario
Akemi (明美)
Nome femminile giapponese che può significare “bellezza luminosa”. Nel racconto, è la protagonista: ceramista e custode della tradizione familiare del tè.
Hana (花)
Significa “fiore”. Nipote di Akemi, simbolo di nuova fioritura e intelligenza analitica, è colei che svela il mistero del passato.
Gion (祇園)
Storico quartiere di Kyoto famoso per le sue case da tè, geisha, vicoli in pietra e atmosfera tradizionale. È l’ambientazione principale del racconto.
Tazza raku (楽焼 chawan)
Tipo di ceramica giapponese usata tradizionalmente nella cerimonia del tè. Ogni pezzo è unico, fatto a mano, spesso imperfetto e per questo profondamente poetico. Simboleggia l’armonia e l’unicità dell’istante.
Matcha (抹茶)
Tè verde in polvere finissima usato nella cerimonia del tè giapponese. Il suo aroma vegetale e persistente è centrale nella cultura del tè.
Kuro-momiji (黒紅葉)
Acero nero giapponese. Le sue foglie scure, con riflessi rubino, sono rare e conferiscono un tocco terroso al tè. Simbolo di bellezza profonda e segreta.
Gin-hakkaku (銀八角)
Anice stellato argentato. Ingrediente aromatico non comune, associato alla dolcezza delicata e alla chiarezza dei pensieri.
Yuki-shita (雪下)
Sassifraga alpina giapponese. Cresce sotto la neve, simboleggiando resistenza e purezza. Nel tè, dona una freschezza cristallina.
Kinmokusei (金木犀)
Osmanto fragrante, fiorisce in autunno. I suoi petali minuscoli emanano un profumo dolce, simile all’albicocca e al miele. Nell’immaginario giapponese è legato ai ricordi d’infanzia e ai ritorni.
Koke-ran (苔蘭)
Nome inventato, ma coerente con la nomenclatura botanica giapponese, indica nel racconto una radice aromatica che rappresenta la memoria profonda e dolceamara.
Noren (暖簾)
Tenda tradizionale giapponese in tessuto, appesa agli ingressi dei negozi o delle stanze. Qui segna il passaggio tra la bottega e il giardino segreto.
Tatami (畳)
Stuoie di paglia intrecciata, base tradizionale dei pavimenti giapponesi. Camminarvi scalzi crea un contatto diretto e rituale con lo spazio.
Chawan (茶碗)
Ciotola da tè utilizzata durante la cerimonia del tè. Oggetto centrale, spesso fatto a mano, incarna la filosofia wabi-sabi.
Chasen (茶筅)
Frustino di bambù usato per mescolare il matcha con l’acqua calda e creare una schiuma fine e omogenea.
Natsume (棗)
Contenitore laccato per conservare il matcha in polvere, usato nelle cerimonie. È considerato un oggetto prezioso e personale.
Lanterna di pietra (石灯籠 – ishi-dōrō)
Elemento simbolico dei giardini giapponesi. Illumina simbolicamente il cammino spirituale. Nel racconto, custodisce il segreto della protagonista dimenticata.
Yui (結)
Nome femminile che significa “legame”, “connessione”. È il nome segreto dell’artista dimenticata, la cui voce riemerge attraverso gli haiku e il quaderno ritrovato.
Yui no Kaori (結の香り)
“Il profumo di Yui”. Nome attribuito al nuovo tè, simbolo di memoria ritrovata e riconciliazione con le proprie radici.



