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Quel sabato mattina di fine aprile l’aria era fresca e il cielo terso quando Aya scese dall’auto, una volta giunti ai piedi del Monte Koya. Al suo fianco, Yoru, il suo inseparabile gatto nero dagli occhi color giada, sbucò timidamente dal veicolo. I suoi occhi, spalancati, catturavano ogni dettaglio con un misto di curiosità e lieve inquietudine.

Aya inspirò profondamente. L’odore dell’umidità che saliva dal sottobosco la avvolse come un velo sottile. Davanti a lei, un mare di verde ondeggiava nell’aria leggera del mattino, quasi a proteggere quel luogo antico e sacro.

«Che ne pensi, Aya?» chiese la madre, avvicinandosi a lei con un sorriso dolce e la valigia in mano.

Aya annuì, lasciando scorrere una mano tra i capelli. «È magnifico! Diverso da tutto quello che ho visto a Kyoto. Sembra di essere entrati in un altro mondo.»

«Sai, io e tuo padre siamo stati qui solo una volta, tanti anni fa…» disse sorridendo al marito che, alzando le sopracciglia, disse «Eravamo più giovani, Hana»

Ryuji, dopo aver scaricato i bagagli, indicò un piccolo ryokan poco distante. La struttura, tutta in legno scuro, sembrava parte integrante del paesaggio: un edificio tradizionale con un piccolo giardino zen vicino all’ingresso, dove la ghiaia bianca era pettinata in eleganti cerchi attorno a poche, selezionate rocce.

Quando varcarono la soglia, Aya fu subito colpita dal suono sottile del vento che faceva tremare lievemente gli shoji, le porte scorrevoli di carta di riso.

Yoru si muoveva incerto sulle zampe, miagolò piano, guardandosi intorno, disorientato; era la sua prima vacanza fuori Kyoto.

«Anche lui deve abituarsi a tanta pace, abituato com’è al rumore della taverna!» disse il padre ridendo. «Intanto riposiamoci un po’, poi cominceremo a esplorare.»

Dopo aver sistemato i bagagli nella loro stanza, semplice ma elegante con futon candidi e una piccola veranda che dava su un boschetto di bambù, si incamminarono per la loro prima esplorazione.

 

La strada che conduceva al Kongōbu-ji, il principale tempio del Monte Koya, era costellata di pellegrini e turisti. Alcuni camminavano in silenzio, con in mano il juzu, la corona di preghiera, altri sorridevano e salutavano Aya e la sua famiglia con cenni gentili e inchini cortesi. L’atmosfera era pervasa da un senso di serenità viva, una spiritualità che vibrava nell’aria come un’eco antica.

Aya si sentiva immersa in qualcosa di più grande, in un flusso eterno di fede, storia e natura. Il silenzio era interrotto solo dal fruscio degli alberi secolari e dal tintinnio sommesso di campanelli appesi alle soglie dei templi.

Quando giunsero al Kongōbu-ji, Aya rimase senza fiato.

Il grande portale in legno intagliato li accolse come un abbraccio. All’interno, il giardino di pietra, il più grande del Giappone chiamato Banryutei, si stendeva come un oceano silenzioso. Le rocce, disposte con cura millenaria, rappresentavano montagne che emergevano dalle onde create dalla sabbia bianca, perfettamente rastrellata. Ogni linea, ogni curva sembrava respirare, raccontare storie di tempi remoti.

Aya camminava a piccoli passi, rapita da ciò che la circondava.

«È come se il tempio stesso avesse un’anima…» mormorò, quasi temendo di rompere l’incantesimo.

La madre le posò una mano leggera sulla spalla. «È vero, piccola mia. Qui si sente davvero la sacralità che pervade certi luoghi mistici del Giappone.»

Anche Yoru sembrava essersi finalmente calmato. Camminava al fianco di Aya con passo lento, il pelo nero che assorbiva la luce soffusa del pomeriggio, gli occhi attenti a ogni dettaglio, come se potesse vedere ciò che sfuggiva agli occhi umani.

Il pomeriggio trascorse con la visita ai templi, percorrendo i sentieri che si perdevano tra gli alberi maestosi. I monaci, vestiti di abiti semplici ma impeccabili, incrociavano i pellegrini con inchini rispettosi, e la gentilezza di ogni persona che incontravano scaldava il cuore.

 

Quando il sole iniziò a calare, tingendo il cielo di sfumature dorate e rosate, Aya, i suoi genitori e Yoru iniziarono a tornare verso il ryokan. La luce del tramonto disegnava ombre lunghe sulla loro strada.

Fu allora che Aya lo vide.

Un monaco si avvicinava lentamente, il bastone da pellegrino che tintinnava a ogni passo; indossava un koromo, una veste di foggia antica, e portava un kasa, il tipico cappello di paglia inclinato a nascondere parzialmente il volto. Quando fu abbastanza vicino, sollevò il capo e incrociò lo sguardo di Aya.

Gli occhi del monaco erano neri come la notte più buia e il suo sguardo trapassò Aya come una brezza ghiacciata. Fece un lieve cenno del capo e sussurrò, quasi senza muovere le labbra:

«Strani occhi verdi…»

Aya trasalì. Si voltò verso i genitori, ma loro proseguivano tranquilli, come se nulla fosse successo e come se non si fossero accorti dello strano monaco. Solo Yoru, pochi passi dietro di lei, fissava il monaco con sospetto.

Quando si voltò di nuovo, il monaco era scomparso, inghiottito dalla nebbia che cominciava a salire dalla terra.

Il cuore di Aya batteva forte mentre riprendeva il cammino. Qualcosa, dentro di lei, le diceva che quell’incontro non era dovuto al caso. Scacciò dalla mente quegli strani pensieri e raggiunse i suoi genitori e, insieme, tornarono al ryokan.

L’esplorazione del Monte Koya, un luogo davvero incantato, sarebbe proseguita il giorno seguente, dopo una notte di riposo.

 

Alcune notizie sul Monte Koya – Cuore spirituale del Giappone

Immerso tra le nebbie leggere e le foreste di cedri secolari, il Monte Koya (Kōyasan) è uno dei luoghi più sacri del Giappone. Fondato all’inizio del IX secolo dal monaco Kūkai, conosciuto anche come Kōbō Daishi, il monte è il centro della scuola buddista Shingon e rappresenta ancora oggi una meta di pellegrinaggio e meditazione.

Il cuore spirituale del Kōyasan è il Kongōbu-ji, il grande tempio principale, noto non solo per la sua importanza religiosa, ma anche per il suo straordinario giardino di pietra: il più vasto del Giappone, dove onde di sabbia bianca circondano isole di roccia che simboleggiano paesaggi mistici e leggendari.

Non lontano si estende l’Okunoin, il più grande cimitero del Giappone, avvolto in un’atmosfera silenziosa e solenne. In fondo al sentiero principale riposa Kōbō Daishi stesso, che secondo la tradizione non è morto, ma si trova in eterna meditazione, vegliando sul mondo e offrendo salvezza a chi lo invoca.

Passeggiare al Monte Koya è come camminare sospesi tra mondi: quello terreno, fatto di umani passi, e quello spirituale, sussurrato dal vento tra gli alberi e inciso nelle pietre millenarie. I monaci, i pellegrini e i visitatori che giungono qui non possono fare a meno di percepire una presenza viva e benevola, come se l’anima del luogo si rivelasse a chi sa ascoltare.

Kōyasan non è solo un luogo da visitare: è un’esperienza da vivere con il cuore aperto e la mente in ascolto.

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