
“Dove il tempo si nasconde”
Capitolo 1 – Il rintocco nella nebbia
La mattina successiva, il villaggio si svegliò sotto una coltre di nebbia fitta, così densa da sembrare un velo denso di ovatta steso sul mondo. Yuki aprì gli occhi nel silenzio assoluto, rotto solo da un suono profondo e ritmico, come un tamburo lontano.
Dong.
Il suono pareva provenire dal cuore della montagna.
Dong.
Ogni rintocco vibrava nelle ossa, come se non fosse solo un suono, ma un richiamo.
Scese con cautela dal futon, il tatami umido sotto i piedi nudi, l’odore del legno bagnato che gli si infilava nelle narici con una nota di antico. Si avvolse in un haori lasciato vicino alla porta: era grezzo, tinto a mano, profumava di fumo e cedro.
Attraversando il piccolo cortile, sentì il freddo pungerlo con dita leggere. La nebbia lambiva la pelle come una carezza d’acqua, e ogni respiro si condensava in nuvole lente. Il rintocco continuava, più vicino ora, più pieno.
Fu allora che notò una figura.
Avanzava con passo lento, come se il tempo scorresse diversamente sotto i suoi piedi. Indossava un cappello di paglia e portava sulle spalle un furoshiki color zafferano, da cui spuntavano bastoncini d’incenso e una piccola campana d’argento.
Yuki si inchinò, istintivamente.
L’uomo si fermò. I suoi occhi erano velati, come coperti da una patina di pioggia antica.
«Se senti il tamburo, vuol dire che sei pronto a scendere nel cuore del villaggio,» disse.
«Quale tamburo?» domandò Yuki.
«Non tutti possono udirlo. È il kane no koe, la voce del metallo. Suona solo quando un ricordo antico vuole essere risvegliato.»
Il fumo d’incenso aleggiava tra loro, portando un profumo dolce e amaro: yuzu essiccato, pepe sanshō, legno di sandalo. Una fragranza che parlava di offerte, di addii, di ritorni.
«Seguimi.»
Attraversarono un sentiero secondario, dove le pietre erano ricoperte di muschio verde scuro. Gli alberi sembravano stringersi attorno a loro, come volessero ascoltare. Yuki sentiva ogni suono amplificarsi: lo scricchiolio della ghiaia sotto i sandali, il canto sottile di un tordo invisibile, il battito lento del proprio cuore.
Giunsero infine a un padiglione nascosto. Non aveva porte, solo tende di lino bianco che ondeggiavano lievemente. All’interno, vi era un tamburo Taiko, alto quanto un uomo, la pelle tirata e lucida come la superficie di un lago in autunno.
Attorno, disposte in cerchio, vi erano maschere di ogni tipo: di volpe, di demone, di spiriti danzanti.
«Oggi ascolterai, Yuki. Non con le orecchie, ma con ciò che porti dentro.»
L’uomo prese due bacchette, si inchinò al tamburo, e iniziò a suonare.
I colpi non erano semplici suoni. Erano onde. Visioni. Memorie.
Nel fremito dell’aria, Yuki vide flash di un tempo dimenticato: un samurai inginocchiato sotto la pioggia, una giovane donna che danzava tra le fiamme, una calligrafia tracciata con mani tremanti.
Ogni battito scavava. Ogni vibrazione disfaceva un nodo.
Quando tutto si spense, il tamburo tacque.
La nebbia era svanita. Il sole filtrava tra i bambù.
Yuki tremava. Non di freddo, ma di verità.
Il tamburo gli aveva parlato.
Capitolo 2 – Le stanze del vento
Il giorno seguente, prima ancora che il sole sorgesse tra le montagne, Yuki fu svegliato da un suono lieve, come di seta trascinata su pietra. Aprì gli occhi lentamente, ancora turbato dalle visioni del tamburo. Nella penombra della stanza, la carta delle pareti scorreva sotto l’alito di un vento leggero.
Si alzò. Fuori, il villaggio sembrava immobile, sospeso in una quiete irreale. Eppure, qualcosa era cambiato.
Davanti alla soglia della sua casa, c’era una scatola di legno laccato, finemente intagliata con motivi di susini e gru. Sopra, una striscia di carta: un ofuda rituale con un kanji scritto a pennello:
試練 – Shiren. Prova.
Yuki la raccolse. Le dita gli formicolavano.
L’aria odorava di aghi di pino e fumo lontano.
Seguì un nuovo sentiero, non tracciato. Il terreno era ricoperto di aghi secchi e foglie morte, che frusciavano sotto i sandali con un suono ovattato. L’odore di umidità si mescolava a quello del ferro: il profumo acre e sottile delle armi appena lucidate.
Fuori da una vecchia costruzione, vide tre uomini inginocchiati. Non parlavano. Indossavano hakama neri e avevano al fianco delle katane con il fodero avvolto in seta cremisi. Sembravano statue. Ma lo osservarono. Tutti e tre. In silenzio.
«Benvenuto nelle Stanze del Vento,» disse una voce femminile.
Yuki si voltò. Una donna lo fissava, giovane, i capelli raccolti con un semplice pettine in osso. Indossava un kimono sobrio, ma elegante. Nei suoi occhi, la calma delle acque profonde.
«Io sono Rei. Guida di chi viene messo alla prova.»
Yuki non parlò. Sentiva che le parole avrebbero avuto il peso sbagliato, lì.
Lei lo condusse all’interno. Il pavimento era lucido, consumato in certi punti da passi antichi.
Le stanze si susseguivano come stanze di un sogno: una piena di specchi anneriti, una con solo un cuscino e una pergamena srotolata sul pavimento, una con pareti di carta traforate da colpi di lama.
«Ognuno qui affronta la propria prova,» disse Rei, sfiorando le pareti come se fossero vive.
«Non per diventare qualcuno. Ma per ricordare chi è.»
Yuki annuì, a fatica. C’era qualcosa nella gola che gli impediva di parlare. Una commozione muta, viscerale.
Rei lo condusse infine in una sala vuota. Al centro, una piccola scatola avvolta da un panno bianco.
«Qui inizierà il tuo cammino. Quando sarai pronto, aprila. Ma ricorda: ogni gesto ha un peso. Ogni scelta, una eco.»
Yuki si inchinò, e rimase solo.
Seduto davanti alla scatola, chiuse gli occhi. Inspirò lentamente: il profumo del legno, del tatami, di incenso antico ormai spento.
Poi, con mani ferme, sollevò il panno.
All’interno, vi era una semplice tessen — un ventaglio da guerra — in metallo pieghevole, inciso con un disegno che gli fece gelare il sangue: la stessa maschera che aveva tenuto tra le mani il giorno dell’arrivo.
Il tamburo.
La danza.
La maschera.
Tutto si stava intrecciando.
Il vento entrò dalla finestra, sollevando lievemente il panno bianco.
Yuki lo fissò a lungo.
Poi si alzò.
Era pronto a entrare nel ricordo che lo aveva scelto.
Capitolo 3 – Il battito sotto la cenere
Quando uscì dalla stanza, il ventaglio stretto tra le dita, il villaggio era cambiato.
Non nella forma — le case erano le stesse, le lanterne tremolavano leggere, le stradine serpeggiavano come sempre — ma nel silenzio che lo avvolgeva. Un silenzio pieno, vibrante, come quello che precede una tempesta.
Yuki sentiva ogni cosa amplificata: il suono dei propri passi, il battito del cuore nelle orecchie, il respiro trattenuto degli alberi.
Camminava senza sapere dove stesse andando, guidato dal ritmo antico che sembrava emergere da dentro di lui. Ogni passo era come un ritorno, un’eco di qualcosa già vissuto.
Fu allora che lo vide.
Al centro della piazza, il susino in fiore era avvolto da una leggera foschia grigia. I petali cadevano più fitti, come neve sottile, e tra i suoi rami appariva qualcosa che non c’era prima.
Una figura.
Immersa nella luce lattiginosa del mattino, stava immobile. Indossava un’armatura da samurai, opaca, con incisioni a spirale che sembravano muoversi da sole sotto la nebbia. Il volto era coperto da una maschera nera, uguale a quella che Yuki aveva ricevuto. Le mani erano vuote. Ma la sola presenza bastava a far tremare l’aria.
Yuki si fermò. Il ventaglio gli tremava tra le mani.
Il samurai non parlò. Non mosse un passo. Eppure, tutto intorno a lui cominciò a cambiare.
Il cielo si fece più scuro, come se un manto invisibile si fosse steso sopra il villaggio. Un suono, simile a un respiro profondo, salì dal sottosuolo. Il vento si fece tagliente, odore di brace e ferro bruciato.
Yuki si inginocchiò. Chiuse gli occhi.
Nella mente, immagini: una casa in fiamme, una voce che chiamava tra la nebbia, mani sporche di cenere che afferravano una lama.
Ma non erano visioni.
Erano ricordi. Suoi.
O di qualcun altro che gli somigliava troppo.
Il ventaglio si aprì da solo. L’aria vibrò.
Il samurai mosse finalmente un passo.
Non fu un duello. Non ci furono colpi.
Fu uno sguardo.
Yuki alzò il ventaglio e lo dispiegò completamente. Su ogni piega era inciso un ideogramma.
Insieme, formavano una frase:
“Custodire ciò che brucia.”
Il samurai si fermò.
Si inginocchiò a sua volta.
Poi scomparve, come dissolto in cenere portata via dal vento.
Il cielo tornò chiaro.
Yuki era solo, inginocchiato sotto il susino. Petali bianchi gli si posavano sulle spalle, sulla testa, come una benedizione.
Rei si avvicinò in silenzio. Posò una mano lieve sulla sua spalla.
«Non sempre la prova è combattere,» disse.
«A volte, è ricordare ciò che il fuoco ha tentato di cancellare.»
Yuki non rispose. Ma qualcosa, dentro, aveva smesso di tremare.
Capitolo 4 – Il sigillo delle mani
Nei giorni che seguirono, il villaggio parve aprirsi a Yuki come un libro antico.
Le porte che prima erano rimaste chiuse ora si spalancavano lentamente, senza suono. Le persone — poche, silenziose, dai gesti attenti — iniziavano a rivolgergli lievi cenni del capo, come se finalmente lo vedessero davvero.
Ogni cosa gli sembrava carica di intenzione.
Ogni passo, una cerimonia.
Fu portato in un edificio nascosto tra glicini in fiore, dove l’aria profumava di carta di riso, di polvere d’inchiostro, di fibre di seta e metallo appena battuto. Una casa-laboratorio, lo chiamavano. Ma pareva un tempio.
Lì, gli artigiani lavoravano in silenzio, ognuno con il proprio compito sacro:
– un uomo anziano lucidava una tsuba, la guardia di una katana, sfregandola con petali di camelia secca;
– una donna tracciava ideogrammi con un pennello di crine, su fogli tanto sottili da tremare al respiro;
– due giovani sorelle tagliavano tessuti laccati per creare il fodero di un ventaglio da danza.
Nessuno parlava.
Ma ogni gesto era un dialogo.
Rei lo accompagnò accanto a una lunga tavola, coperta da stuoie. Vi erano lame grezze, ventagli incompleti, maschere appena scolpite. Al centro, una ciotola d’acqua. E accanto, le sue mani.
Non quelle fisiche.
Ma la loro impronta: tracciata in rosso su una pergamena, accanto ad altre.
«Ogni custode lascia un segno,» disse Rei. «Una volta che ha ricevuto il proprio compito.»
Yuki si guardò le mani.
Non sapeva cosa si aspettasse, ma ciò che sentì fu un richiamo. Un calore.
Le immerse nella ciotola: l’acqua era tiepida, con note di arancia amara e sakura.
Quando le posò sulla carta, il contatto fu netto. Preciso. Come se fossero attese da tempo.
Uno degli artigiani, senza parlare, gli porse una maschera ancora grezza. Aveva i contorni incerti, i tratti non definiti.
«Non è finita,» disse Rei.
«Perché sei tu a doverle dare volto. Con quello che hai visto, con quello che sei.»
Yuki prese la maschera. Era fredda, ma sotto le dita sembrava pulsare.
Ne tracciò i contorni, piano. Occhi stretti, bocca chiusa, ma angoli appena sollevati.
Non un sorriso. Non un pianto. Ma qualcosa nel mezzo.
Qualcosa di umano.
Quando la finì, la nebbia del villaggio tornò ad alzarsi.
Come se il luogo stesso stesse trattenendo il fiato.
Rei lo guardò. Non con approvazione, ma con riconoscimento.
«Hai dato volto alla soglia,» disse.
«Ora puoi passare.»
Capitolo 5 – L’eco e il nome perduto
La notte calò in silenzio, senza passaggio.
Una pioggia leggera cominciò a cadere, profumata di terra e pietra calda, quasi volesse lavare via ogni traccia del giorno.
Yuki non dormiva.
Seduto accanto alla lanterna accesa, osservava la maschera che aveva scolpito. La luce tremolante ne alterava i tratti, come se vi fossero mille volti in uno. Ogni volta che cercava di fissarla, sembrava sfuggirgli.
Era un volto che cambiava con lo sguardo.
Fuori, il villaggio taceva. Ma nel cuore della notte, un suono si levò: non un tamburo questa volta, né un canto.
Un richiamo.
Un battito secco, metallico.
Uno solo.
Poi nulla.
Yuki si alzò. Si avvolse nel haori, prese la maschera e uscì nella pioggia. Ogni goccia era un dito sottile che gli accarezzava la pelle, fredda, sincera. Il sentiero davanti a lui non era segnato, ma lo conosceva.
Lo condusse tra i bambù, fino a un’antica cripta che non aveva mai visto. Una struttura bassa, semi-nascosta dalla vegetazione, con pietre coperte di muschio e corde di paglia intrecciata lungo l’ingresso.
Lì lo attendeva il vecchio.
Quello dell’inizio.
Immobile, con il kimono fradicio che stillava acqua.
«Hai portato la maschera?» chiese.
Yuki annuì. La porse con entrambe le mani.
«Ora ascolta.»
Entrarono insieme nella cripta. Le torce si accesero al loro passaggio, come se sapessero. Le pareti erano coperte da pergamene, disegni, nomi scritti in inchiostro indelebile. Volti incisi nella roccia: samurai, danzatrici, artigiani.
Custodi.
«Ognuno ha lasciato un’impronta. Ma non per essere ricordato. Perché ciò che è custodito non può morire, finché c’è qualcuno che sceglie di portarlo.»
Il vecchio si voltò verso di lui.
«Tu non sei venuto per caso. Lo sai, ora.»
Yuki deglutì.
«Chi ero?»
Il vecchio sorrise appena.
«Non importa chi eri. Ma chi hai deciso di essere, quando tutto il resto è stato tolto.»
Aprì una nicchia scavata nella pietra.
All’interno, una pergamena avvolta con cura, sigillata da un nodo antico.
«Questo è il tuo nome,» disse.
«Quello vero. Non quello che ti hanno dato, ma quello che hai ritrovato.»
Yuki prese la pergamena. Non la aprì.
Ne sentiva il peso, non sulla mano, ma sul cuore.
Poi il vecchio si inchinò.
«Ora puoi andare.»
«Via dal villaggio?»
«Via non significa lontano. Significa portare con te. Non sarai più quello che è arrivato. Ma sarai colui che ricorda.»
Yuki indossò la maschera.
Non per nascondersi.
Ma per onorare.
Quando risalì dalla cripta, la pioggia era cessata. Il cielo si apriva a oriente, dove la prima luce del giorno accendeva di rosa le cime dei pini.
Non aveva paura.
Il villaggio non lo tratteneva.
Non più.
Epilogo – Quando il tempo guarda indietro
Fuori dalla foresta, la città riprese a scorrere come un fiume impaziente.
Treni, telefoni, orologi, notifiche.
Ma per Yuki, tutto era diverso.
Camminava tra le persone con passo calmo, attento. Ascoltava i suoni, non come rumore, ma come stratificazioni: un bambino che rideva aveva lo stesso timbro di un tessen che si apre. Il rumore dei tacchi sull’asfalto portava l’eco di antichi tamburi. Il profumo del tè in un piccolo bar ricordava il legno e la pioggia del villaggio.
Portava con sé la maschera, avvolta nel panno bianco. Non la mostrava a nessuno. Ma ogni tanto, la sfiorava.
E allora, come un battito lontano, sentiva ancora il richiamo.
Aveva ricominciato a disegnare.
A scrivere.
A camminare lentamente, come se ogni angolo del mondo potesse rivelare un frammento di ciò che aveva vissuto.
Un giorno, mentre sedeva al parco con un quaderno sulle ginocchia, una bambina si avvicinò.
«Che stai disegnando?»
Yuki sorrise. Le mostrò la pagina.
C’era il susino in fiore, e tra i suoi rami, una figura con la maschera, appena accennata.
«Una storia,» disse.
«Che non è finita.»
La bambina si sedette accanto a lui.
«Me la racconti?»
Yuki annuì. E cominciò.
Con voce lenta.
Con gesti pieni di tempo.
Perché non si trattava solo di ricordare.
Ma di custodire.
E quando alzò lo sguardo verso il cielo, lo vide.
Un petalo bianco, sospeso nell’aria, che non avrebbe dovuto esserci.
Un sussurro che gli accarezzò l’anima.
Il villaggio non era scomparso.
Era lì, in un angolo della realtà che si apre solo a chi ha saputo vedere.
Non segnato sulle mappe.
Non indicato nei motori di ricerca.
Ma inciso nel battito segreto di chi sceglie di ascoltare.
E in quel momento, Yuki comprese davvero.
Non era lui ad aver trovato il villaggio.
Era il villaggio ad aver trovato lui.
Glossario del racconto
Ofuda (お札)
Amuleti di carta, legno o stoffa, su cui sono scritte formule sacre shintoiste o buddhiste. Si appendono nei templi o si collocano nelle case come protezione dagli spiriti maligni. Nel racconto, l’ofuda con la scritta 「試練」(shiren – “prova”) indica l’inizio di un cammino iniziatico.
Shiren (試練)
Significa “prova” o “sfida spirituale”. Nella cultura giapponese tradizionale, le prove non sono solo ostacoli, ma momenti di verità, necessari per trasformarsi. Yuki ne affronta una che non ha nulla di violento, ma tutto di interiore.
Tessen (鉄扇)
Ventaglio da guerra in metallo, usato dagli antichi samurai sia come arma che come strumento simbolico. Rappresenta la capacità di colpire senza perdere grazia. Il tessen di Yuki è inciso con un messaggio nascosto: “Custodire ciò che brucia”.
Nō (能) – Maschera Nō
Le maschere del teatro nō sono sculture rituali che raffigurano demoni, spiriti, anziani o giovani donne. La loro espressione cambia in base alla luce e all’angolazione dello sguardo, evocando emozioni complesse. Simboleggiano l’incontro tra visibile e invisibile.
Tsuba (鍔)
La guardia di una katana, posta tra la lama e il manico. Oltre alla funzione protettiva, la tsuba è spesso finemente decorata e riflette lo spirito del samurai che la impugna. Nel racconto, viene lucidata con petali di camelia, simbolo di caducità e nobiltà.
Tatami (畳)
Stuoie rettangolari in paglia intrecciata, utilizzate come pavimentazione tradizionale nelle case giapponesi. Camminare sul tatami richiede rispetto e consapevolezza. Yuki ne percepisce il profumo, che diventa parte dell’identità del villaggio.
Haori (羽織)
Giacca tradizionale giapponese indossata sopra il kimono. Spesso semplice, ma intrisa di significati familiari e spirituali. Nel racconto, l’haori che Yuki indossa profuma di legno e fumo: una coperta simbolica tra due mondi.
Kane no koe (鐘の声)
Letteralmente “voce della campana”, ma nel racconto è il “battito del metallo”: un suono rituale che risveglia memorie. Ricorda le campane dei templi, che scandiscono i passaggi tra vita e morte, tra realtà e sogno.
Susino (Ume, 梅)
Albero simbolo della fine dell’inverno e della resistenza. I suoi fiori sbocciano nel freddo, rappresentando la bellezza nascosta nella difficoltà. Il susino al centro della piazza è il cuore segreto del villaggio, l’albero-soglia.
Glicine (Fuji, 藤)
Pianta sacra e poetica nella cultura giapponese, associata a grazia, transitorietà e protezione femminile. I suoi fiori avvolgono l’ingresso alla casa-laboratorio, come un abbraccio silenzioso.


