I racconti di Yuki

La geisha e il drago d’acqua: leggenda di Kyoto tra danza, spiriti e memorie del periodo Edo

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La geisha e il drago d’acqua

Introduzione – Kyoto, Anno 1764 (periodo Edo)

Il vento di marzo portava con sé il profumo pungente dei fiori di susino, mescolato a quello della carta d’inchiostro che impregnava le strade di Kyoto. Nelle case da tè del quartiere di Gion, le lanterne di carta ondeggiavano leggere, proiettando ombre che sembravano danzare insieme alle geisha al di là dei paraventi di bambù.

Nel cuore di questo dedalo di viuzze, viveva Akiko, una geisha rinomata per le sue danze che sembravano trattenere il respiro degli spettatori. Non era solo la precisione dei suoi gesti a catturare: nei movimenti delle sue mani, nel piegarsi appena percettibile delle labbra, si percepiva una storia che andava oltre la sala da tè, oltre i confini stessi di Kyoto.

Quella sera, un messaggero del signore di un feudo lontano era giunto per richiederle un’esibizione privata. Un incarico che, per una geisha, era insieme onore e presagio: il potere dei grandi uomini non chiedeva mai senza prendere qualcosa in cambio.

Mentre Akiko sistemava il suo obi davanti allo specchio d’argento lucidato, un dettaglio catturò il suo sguardo: nella piccola vasca del giardino, il riflesso della luna tremava sulla superficie dell’acqua. Eppure, giurò di vedere, sotto quel riflesso, un’ombra sinuosa muoversi lenta, come la scia di un drago antico che non apparteneva a questo mondo.

Era solo un’illusione? O forse, come le avevano insegnato da bambina, i giardini delle case da tè di Kyoto custodivano ancora spiriti che non avevano dimenticato il loro nome?

Capitolo 1 – L’invito del signore

Il messaggero non aveva dato spiegazioni. Aveva lasciato soltanto un invito, inciso su carta di riso così sottile che Akiko temette di strapparla solo sfiorandola.
Il sigillo in lacca rossa, con il mon del clan di un daimyō della provincia di Tosa, era il genere di segno che non lasciava spazio ai rifiuti.

Seduta composta, con il collo nudo che brillava sotto le luci tremolanti del chōchin, Akiko scivolò con lo sguardo sulle parole del messaggio. Un’esibizione privata. Nella residenza del signore. Al calare della luna.

Il cuore le batté più forte. Una geisha sapeva che questi inviti non erano mai semplici esibizioni: erano prove. L’arte della danza era il velo sotto cui si celavano domande più oscure, richieste che potevano cambiare il destino di chi le accettava.

Nella casa da tè, il maestro di shamisen pizzicò una corda, forse per sciogliere l’attesa sospesa nell’aria. Ma il suono non riuscì a scacciare l’immagine che le era rimasta impressa poco prima: quella scia sinuosa nell’acqua del giardino.

Akiko ripensò alle parole di una vecchia compagna di apprendistato:
“Alcune case da tè di Kyoto sono costruite sopra i corsi d’acqua dove un tempo i draghi dimoravano. Se ti osservano, non ignorarli. Non sempre portano sventura. Ma pretendono rispetto.”

Quella notte, mentre saliva sulla carrozza che l’avrebbe condotta alla residenza del daimyō, Akiko ebbe la netta sensazione di non essere sola. Il riflesso della luna sulle pozzanghere seguiva il passo lento dei cavalli. Un suono impercettibile, simile a un respiro profondo, sembrava provenire dall’acqua che scorreva sotto i ponticelli di legno.

Non era superstiziosa. Non più. Eppure, quando il portone imponente della residenza si spalancò con un gemito, la pelle le si accapponò.
Non per il signore che l’attendeva, ma per l’ombra che si muoveva dietro di lui. Qualcosa che aveva il peso dell’acqua e l’eternità negli occhi.

Capitolo 2 – La danza del velo d’acqua

Il corridoio che conduceva alla sala principale era lungo come un sogno senza tempo. Le pareti di legno scuro riflettevano appena la luce delle torce, mentre l’odore di incenso alla canfora avvolgeva l’aria, pesante come una preghiera mai recitata.

Akiko entrò in punta di piedi, il volto inclinato in un inchino perfetto.
Il daimyō era già lì: un uomo di mezza età dal portamento rigido, vestito con un kimono dalle maniche larghe, ricamato con onde stilizzate che ricordavano il mare in tempesta. Sedeva su un cuscino basso, ma il suo sguardo torreggiava su tutto, freddo e penetrante.

Non parlò. Non fece cenno di salutarla.
Il silenzio era il suo modo di dichiarare il potere.

Akiko depose il ventaglio davanti a sé. Inspirò. Il mondo intorno si ridusse a tre elementi: il battito del suo cuore, il tatami sotto i piedi nudi e il riflesso della luna che penetrava dalla finestra circolare, tracciando un sentiero d’argento sulla pavimentazione.

La musica iniziò: un koto suonato da un musicista nascosto dietro un paravento.
Akiko sollevò il ventaglio, aprendolo lentamente come se stesse svegliando un uccello addormentato. Il suo corpo si mosse fluido, disegnando cerchi e onde. Ogni gesto era calibrato: l’inchino del polso, il piegarsi delle ginocchia, il vibrare del tessuto del kimono che sembrava catturare l’aria stessa.

Non stava danzando per l’uomo davanti a lei. Non del tutto.
Danzava per il drago che aveva intravisto nell’acqua.

Lo sentiva.
Nel movimento delle braccia, nelle spirali che tracciava con le mani, c’era un dialogo antico. Come se le sue ossa ricordassero un linguaggio che non aveva mai imparato.

Il vento cambiò.
Un soffio gelido attraversò la stanza, sollevando appena un lembo del suo kimono. Non poteva venire dall’esterno: le porte erano chiuse, il fuoco intatto.
Akiko continuò a danzare, ma il respiro le divenne più corto. Il pavimento sotto di lei tremò, impercettibilmente, come se qualcosa si muovesse sotto le assi.

Poi lo udì.
Non un suono umano. Non musica. Un mormorio profondo, simile allo scroscio dell’acqua quando rompe una diga.

Il daimyō sorrise. “Danzate bene, Akiko”, disse infine, con una voce che le fece gelare il sangue. “Il nostro ospite vi sta osservando.”

Capitolo 3 – L’eco dell’acqua

Il daimyō non parlò più.
Restò immobile, lo sguardo fisso su Akiko, come se stesse misurando ogni respiro che le sfuggiva dalle labbra.

Lei si inchinò, chiudendo il ventaglio con un colpo secco. La danza era terminata.
Ma il silenzio che ne seguì era innaturale, troppo denso per appartenere a una semplice sala di residenza. Sembrava che ogni oggetto — le colonne di cedro, i paraventi decorati con onde, persino il koto — fosse in ascolto.

Akiko percepì un odore improvviso di pioggia, pungente e fresco, come quello che precede i temporali estivi. Eppure, fuori, il cielo era terso.

“Avvicinati”, disse il daimyō.
La sua voce non era un ordine, né un invito. Era una lama.

Akiko avanzò, contando ogni passo come se camminasse su un filo sospeso sopra un abisso. Il tatami scricchiolava sotto i suoi piedi, e per un attimo ebbe la sensazione che sotto quella superficie non ci fosse terra, ma acqua.

Quando fu a pochi passi dal signore, lo sentì: un fruscio profondo, quasi un respiro.
Come se un corpo immenso, liquido e antico, si fosse mosso sotto la residenza.

Non osò sollevare lo sguardo. Ma vide. Con la coda dell’occhio, intravide una scia scura muoversi nel riflesso della finestra circolare: un’ombra sinuosa, lunga, che si avvolgeva su sé stessa come un serpente addormentato.

Il daimyō si chinò verso di lei, così vicino che Akiko sentì il suo alito caldo e acre.
“Sai, Akiko, i draghi non amano le menzogne. E neppure io.”

Non capì se quelle parole erano un avvertimento o una confessione.
Poi, in un attimo, il silenzio fu rotto: uno schianto sordo proveniente dal giardino, come se qualcosa di enorme fosse caduto nello stagno.

Akiko si voltò di scatto.
La finestra mostrava ancora il giardino illuminato dalla luna. Ma l’acqua della vasca non era più ferma: onde concentriche si propagavano rapide, e al centro, per un istante, vide l’impossibile — un occhio. Dorato. Immenso. Che la fissava.

 

Capitolo 4 – Il patto silenzioso

Il daimyō tornò a sedersi con calma, come se lo schianto nel giardino non fosse mai avvenuto.
“Ti piace il nostro stagno, Akiko?” disse, fissando il riflesso della luna nell’acqua oltre la finestra. “È antico. Si dice che i corsi d’acqua di Kyoto ospitino ancora le creature che hanno visto nascere questa città.”

Akiko non rispose. Non poteva. La gola le era secca come sabbia.

“Ho invitato molti artisti qui,” continuò lui, piegando il capo di lato, “ma pochi riescono a compiacere il nostro ospite.”

“Il nostro ospite.”
Le parole le rimbombarono nella testa, più forti di quanto fossero state pronunciate.

Il daimyō batté le mani una sola volta. Dal corridoio arrivarono servitori silenziosi, portando un piccolo tavolo laccato. Sopra, una ciotola con sake e una coppa di ceramica smaltata. Non era un’offerta per lei. Era un’offerta per qualcun altro.

“Versa.”
Il suo tono non ammetteva esitazioni.

Akiko prese la bottiglia con mani tremanti e riempì la coppa. Il daimyō la sollevò lentamente e la depose davanti alla finestra aperta.
Il vento cambiò di nuovo. Questa volta era freddo, tagliente. L’odore di pioggia diventò più intenso, mescolato a quello ferroso dell’acqua stagnante.

Il tatami sotto di loro scricchiolò, come se qualcosa di pesante si stesse muovendo sotto le assi. Akiko sentì la pressione nelle orecchie aumentare, come quando ci si immerge in profondità.

“C’è chi chiede al drago ricchezze,” disse il daimyō, la voce bassa, quasi un sussurro. “Chi chiede potere. Io chiedo che Kyoto non dimentichi il mio nome.”

Akiko alzò lo sguardo, e per la prima volta incrociò i suoi occhi: non erano più quelli di un uomo. Brillavano di un riflesso dorato, come l’occhio che aveva visto nello stagno.

Un colpo di vento spalancò i paraventi dietro di loro. La stanza fu invasa dal rumore dell’acqua, ma non pioveva. Non ancora.
Akiko capì che non si trovava davanti a un semplice signore.
Era davanti a un uomo che aveva fatto un patto. E il prezzo di quel patto era ancora sconosciuto.

Capitolo 5 – La prova del drago

La coppa di sake era ancora lì, intatta, davanti alla finestra.
Ma Akiko sapeva che non era più solo un’offerta: era un invito.

Il daimyō si alzò senza far rumore. Il suo kimono ondeggiò come acqua mossa, e per un istante Akiko ebbe l’impressione che non fosse più un uomo che camminava, ma un’ombra che scivolava.
“È soddisfatto di te,” disse. “Non accade spesso.”

Akiko sentì un formicolio lungo le braccia. Il respiro le si fece corto.
“Soddisfatto… di me?” riuscì a sussurrare.

“Non del tutto,” rispose lui, senza voltarsi. “Ma ti ha scelta per la prova. E i draghi non scelgono mai a caso.”

Il suono dell’acqua, che fino a poco prima sembrava provenire dal giardino, ora era dentro di lei: un fiume che scorreva sotto la pelle, nelle ossa, nei polmoni.

Chiuse gli occhi. E allora lo vide.
Non nella stanza, non nello stagno. Dentro la sua mente.
Una creatura immensa, avvolta da spire liquide, con occhi d’oro che la fissavano come se potessero attraversarla.

Una voce — o forse un pensiero che non era il suo — si fece spazio:
“Mostrami ciò che danzi davvero. Non per il daimyō. Non per il tuo pubblico. Per me.”

Aprì gli occhi di scatto. Il daimyō era tornato al suo posto, immobile, eppure sapeva che aveva sentito anche lui.
Akiko comprese. Non era stata invitata per intrattenere. Era stata convocata per sopravvivere a una prova.

Si alzò lentamente.
Senza ventaglio, senza musica, iniziò a danzare. Ogni movimento era una confessione: il suo timore, il suo coraggio, la sua vita compressa in gesti. Non più la danza elegante di una geisha, ma la danza cruda di un’anima nuda davanti a un dio.

Il vento aumentò, rovesciando la coppa di sake.
L’acqua del giardino iniziò a ribollire, e l’odore di pioggia divenne quello del mare in tempesta.

Quando Akiko si fermò, esausta, il silenzio tornò. Ma era un silenzio diverso.
Uno che sa di risposta.

Epilogo – Il patto dell’acqua

Akiko restò immobile, con il respiro che le bruciava in gola. Non c’erano più musica, né vento, né daimyō: soltanto lei e il silenzio carico dell’acqua che la circondava.

Chiuse gli occhi. E il drago parlò di nuovo.
Non con parole, ma con immagini che le attraversarono la mente: fiumi che diventavano strade, piogge che cancellavano guerre, stagni che custodivano memorie.

Capì.
Il drago era il guardiano della continuità.
Non un mostro, non un dio capriccioso: un antico spirito che vegliava perché Kyoto non dimenticasse chi era stata. Ogni artista convocato, ogni offerta versata, era parte di un patto silenzioso tra uomini e divino: ricordare, attraverso l’arte, ciò che il tempo tenta di cancellare.

“La tua danza non è solo movimento. È memoria. Ed è mia ora.”
La voce dentro di lei era ferma, priva di minacce. Ma assoluta.

Akiko comprese che aveva superato la prova perché aveva osato danzare senza maschere. Non per compiacere, ma per esistere.
E quel gesto l’aveva legata al drago.

Quando riaprì gli occhi, il daimyō la stava fissando. Non parlò: non serviva.
Entrambi sapevano che da quel momento Akiko non era più soltanto una geisha. Era diventata custode di un segreto antico quanto le acque che scorrevano sotto Kyoto.

Mentre lasciava la residenza, sentì ancora il profumo di pioggia e il gorgoglio dello stagno.
Non era un addio.
Era un patto.
E, dentro di lei, il drago taceva. Ma vegliava.

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