I racconti di Yuki

Il custode delle lanterne

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🌕 Introduzione

Un racconto tra memoria, silenzio e luce nel cuore dell’estate giapponese

Nel Giappone tradizionale, luglio è un mese sospeso tra caldo intenso e attesa. Le cicale cantano senza tregua, l’aria vibra di umidità, e la natura si prepara all’arrivo dell’Obon, la festa in cui i vivi si inchinano agli spiriti degli antenati.

In questo racconto ambientato a Hiroshima, nel Parco della Pace, il suono dell’acqua si unisce al bagliore delle lanterne che scivolano sul fiume.
Attraverso lo sguardo di Sakura, una ragazza giapponese cresciuta all’estero, e l’incontro con un misterioso anziano chiamato Shigemori-san, scopriremo come i gesti semplici possano contenere tutta la profondità di un addio, o di un perdono mai detto.

Il custode delle lanterne è un viaggio breve ma intenso tra memoria e riconciliazione, tra estate e malinconia, dove le parole non dette trovano infine un modo per brillare.
Un racconto di luce, per chi ama il Giappone, le sue tradizioni e la poesia delle cose leggere.

🏮 Capitolo 1 – La pioggia sulle pietre 


L’acqua scendeva sottile come un filo di seta.

Sakura avanzava tra le pietre scure del parco, con i sandali di tela che facevano un rumore ovattato a ogni passo. Non aveva un ombrello, solo la mano sinistra alzata in modo inutile sopra la fronte, come se bastasse a proteggerla. Era arrivata a Hiroshima il giorno prima, senza programma, senza attese. Aveva prenotato una stanza in un ryokan economico e lasciato spento il telefono.


Aveva detto a sua madre che voleva “vedere qualcosa di vero”.

Non sapeva nemmeno lei cosa intendesse.


Il Parco della Pace sembrava respirare con lentezza.

Gli alberi bagnati brillavano di una tristezza silenziosa, e le statue parevano più vive delle persone.

Sakura si fermò sul ponte Motoyasu, osservando il fiume torbido scorrere lento.

Fu allora che lo vide.


Un uomo anziano, piegato su una stuoia stesa sull’erba.

Indossava un cappello di paglia largo, e la camicia bianca, zuppa d’acqua, non sembrava infastidirlo.

Con gesti metodici, stava montando una lanterna di carta. Una. Poi un’altra. Poi ancora.

Ogni lanterna aveva un piccolo kanji inciso con un pennello sottile.


Sakura non si avvicinò.

Lo osservò solo, in silenzio, incuriosita e imbarazzata.


Lui, però, la notò.

Senza alzare la testa, con voce bassa disse:

«Le vuoi scrivere anche tu, le parole che non hai mai detto?»


Lei non rispose.

Rimase lì, ferma, a qualche passo di distanza.


«C’è tempo fino al tramonto» disse ancora.

Poi, con naturalezza, le porse una lanterna ancora da montare, e un pennello.


Sakura la prese. Senza capire del tutto perché.


Il ronzio delle cicale si fece più acuto, mentre le sue dita sfioravano la carta umida.

Si sedette. E per la prima volta, dopo tanto tempo, si concesse di non sapere cosa fare.

🏮 Capitolo 2 – I nomi nell’acqua

La carta era più fragile di quanto sembrasse.
Ogni piega doveva essere precisa, ma leggera.
Sakura osservava le mani dell’uomo: grandi, nodose, macchiate dal tempo. Eppure si muovevano con una calma che la faceva vergognare della propria impazienza.

«Ogni lanterna ha un nome,» disse lui, tracciando un ideogramma con inchiostro scuro.
«Ma a volte il nome non è di una persona. Può essere un rimorso. Una frase lasciata a metà. Un silenzio.»

Sakura non sapeva da dove cominciare.
Guardava il pennello, il foglio piegato, e sentiva la gola chiusa come quando stava per piangere da bambina, ma non voleva farsi vedere.

«Se non scrivi nulla, anche quello va bene,» aggiunse l’uomo.
«L’acqua capisce.»

Si sedettero sotto un olmo basso, dove la pioggia cadeva solo in gocce sporadiche. Le lanterne completate erano già dieci, allineate su una stuoia. Tutte diverse, tutte silenziose.
Sakura pensò a suo nonno, che non aveva mai conosciuto.
Pensò a sua madre, sempre così distante da quando avevano lasciato il Giappone.
Pensò a tutte le volte in cui avrebbe voluto dire qualcosa, ma le parole si erano sciolte prima ancora di arrivare in bocca.

Alla fine, scrisse solo due cose.
Un nome, Haruki.
E poi, sotto, una parola semplice: gomen nasai — mi dispiace.

L’uomo annuì appena.
Non chiese nulla.
Rimise il coperchio al flacone d’inchiostro, e prese un’altra lanterna.

Il sole cominciava a scendere, tingendo il fiume di un arancio tiepido, quasi irreale.
Una coppia di aironi attraversò il cielo basso.

«Ti domandi chi sono?» chiese lui, con un sorriso appena accennato.

Sakura scosse la testa.
«No. Ma credo di sapere perché sei qui.»

Lui rise, piano.
«Allora sai più di me.»


🏮 Capitolo 3 – Quando la luce respira 


Il cielo non era ancora buio, ma già le prime stelle avevano cominciato a farsi strada tra le nuvole.

Shigemori-san — così si era infine presentato — sistemava con cura le lanterne una accanto all’altra, lasciando uno spazio preciso tra ognuna. Non c’erano corde né segni. Solo misura interiore. Solo tempo.


«La luce dev’essere libera di respirare,» disse mentre ne accendeva una con un fiammifero lento, dalla punta arancione.

«Se si ammucchiano, soffocano. Come i ricordi.»


Sakura rimase in piedi, le mani ancora bagnate d’inchiostro.

Nel piccolo bacino del parco, l’acqua tremolava appena. Il fiume era stato chiuso da una barriera per contenere il flusso delle lanterne. Sembrava aspettare. Come loro.


Una lanterna si accese, poi un’altra.

Le fiamme non erano forti, ma stabili.

La carta lasciava filtrare una luce tiepida, morbida, che sembrava parlare senza voce.


«Ogni fiamma è un pensiero che prende forma,» disse Shigemori-san.

«A volte, le parole non bastano. Per questo bruciamo qualcosa.

Non per distruggere, ma per trasformare.»


Sakura si inginocchiò accanto a lui.

«Cosa scrivi tu, ogni anno?» chiese, guardandolo accendere la sua lanterna personale.


Shigemori la tenne tra le mani un istante, prima di rispondere.

«Il nome di chi non mi ha mai risposto.»


Non aggiunse altro.


Eppure, in quell’attesa che si allungava tra le mani, Sakura capì.

Non era una persona da perdonare, ma se stesso.

Perché anche il silenzio può essere colpa, e a volte è più difficile da portare di qualsiasi parola.


Il fiume cominciava a brillare.



🏮 Capitolo 4 – Le parole che non galleggiano 


Il fiume prese la luce come un respiro trattenuto troppo a lungo.

Le lanterne, adagiate sull’acqua con mani lente e rispettose, cominciarono a scivolare. Alcune si urtavano dolcemente, poi si separavano, seguendo traiettorie che nessuno avrebbe potuto prevedere.

Sakura osservava la sua: si era piegata leggermente a sinistra, poi aveva ripreso il centro della corrente, come se sapesse dove andare.


Dietro di lei, il parco si era popolato di silenzi.

Nessuno parlava. Solo passi lievi sull’erba e qualche bambino che guardava in silenzio. Le persone prendevano la lanterna, la accendevano, si chinavano, e lasciavano.

Era un gesto antico.

Essenziale.

Pieno.


Shigemori-san si era seduto su una panchina di pietra. La schiena curva, il cappello appoggiato accanto.

Aveva il viso stanco, ma gli occhi accesi come candele.


Sakura si avvicinò.


«Tu li conoscevi? Tutti quei nomi?»

«No,» rispose lui.

«Ma qualcuno doveva scriverli. Alcuni non hanno nessuno. Altri hanno figli che non tornano mai. Così li scrivo io, per non farli svanire.»


Fece una pausa. Poi indicò il fiume.

«Sai, ogni tanto c’è una lanterna che non galleggia. Che si ribalta, affonda. La gente dice che è tristezza troppo pesante.»


Sakura lo guardò.


«E tu?»

«La mia galleggia sempre,» disse con un sorriso amaro.

«Ma a volte mi chiedo se è perché ho smesso di aspettare… o se perché non so più scrivere il vero nome.»


La ragazza restò in silenzio.


Il suo cuore, invece, parlava forte.


Perché anche lei aveva un nome che non aveva mai detto. Una persona che aveva lasciato scivolare via senza parole.

Non per rabbia.

Per paura.


🏮 Capitolo 5 – Il nome segreto 


Le lanterne erano ormai lontane, piccole luci galleggianti sul velluto del fiume.

Il cielo, ora scuro, sembrava trattenere il fiato, come se anche le stelle fossero in ascolto.

Sakura si chinò lentamente, raccolse un piccolo foglio bianco dalla tasca. Era piegato in quattro, con un bordo un po’ consumato.


Non lo mostrò a nessuno.

Lo tenne sul palmo, lo aprì, lo guardò per qualche secondo.

Poi lo portò alle labbra e lo lasciò andare sull’acqua.


Non era una lanterna. Non era luce.

Era carta e inchiostro.

Un nome che non aveva mai osato pronunciare.


Keiko.


Sua sorella.


La bambina che aveva smesso di parlare dopo la morte del padre.

Che la madre aveva voluto dimenticare.

Che Sakura aveva cercato di raggiungere per anni, tra città diverse e messaggi ignorati.


Sulla carta non c’era scritto altro. Solo quel nome.

E un piccolo cerchio a fianco, come un sole incompleto.


Shigemori-san, alle sue spalle, non disse nulla.

Ma Sakura sentì la sua presenza come si sente l’alba: con la pelle prima ancora che con gli occhi.


«Tornerò il prossimo anno,» disse lei.

Non era una domanda.


L’uomo annuì.

Poi si alzò, lentamente, e ripose gli strumenti nella scatola di legno.

Con un gesto rapido, tracciò un kanji sul suo ventaglio, e glielo porse.


記憶 – Kioku – Memoria.


«Tienilo. Ma usalo solo quando vorrai ricordare davvero.»


Lei lo prese tra le mani.

Era leggero.

Eppure, le tremava il respiro.


🌌 Epilogo – Dove vanno le luci 


Il fiume era tornato scuro.

Le lanterne si erano disperse nella notte, forse spegnendosi, forse continuando a brillare dove gli occhi non arrivano.

Nessuno lo sapeva davvero.

Ma nel cuore di chi le aveva affidate all’acqua, qualcosa era cambiato.


Sakura sedeva da sola sul ponte, con il ventaglio tra le mani.

Lo aprì lentamente.

Il kanji inciso sembrava brillare appena, riflettendo la luce fioca di una lanterna rimasta impigliata tra due rocce.

Memoria.


Non quella dei fatti, né delle date.

Ma quella che vive nei gesti, nei silenzi, nei nomi che non si dimenticano anche quando smetti di pronunciarli.


Alle sue spalle, il parco stava svuotandosi.

Shigemori-san era scomparso, come se fosse venuto solo per quella sera, come se appartenesse più al fiume che alla terra.


Sakura non cercò di trattenerlo.

Sapeva che sarebbe tornato.

O che forse non era mai esistito davvero — se non come un volto che la vita le aveva prestato per imparare a lasciar andare.


Il ventaglio scattò tra le sue mani come un respiro.


E in quel gesto leggero, mentre la brezza di luglio le sollevava i capelli, Sakura sentì che qualcosa — qualcuno — aveva finalmente trovato pace.


🏮 Fine

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