
La kunoichi e il crisantemo: onore, vendetta e bellezza nel Giappone segreto
Introduzione
Nell’estate del quindicesimo anno dell’era Tenshō, le piogge inzuppavano le risaie di Yamato come se il cielo volesse cancellare ogni traccia del mondo.
La terra era un impasto di fango e silenzio. I contadini abbassavano lo sguardo, e i monaci pregavano per la fine dell’umidità, ma nessuno osava pronunciare il nome di colui che controllava le montagne.
Nel villaggio di Shirakawa, ai margini della provincia, una donna si era stabilita da poco. Dicevano che fosse venuta da Iga, che conoscesse le piante medicinali meglio di un monaco e che il suo tè guarisse le febbri più ostinate.
Nessuno sapeva che quella donna, dal portamento troppo dritto e le mani troppo leggere, portava nel fodero un ago avvelenato e nel cuore un ordine.
Il signore feudale della zona, un vassallo ambizioso del clan Toyotomi, stava disboscando i boschi sacri e facendo sparire i capi villaggio.
Qualcuno a Kyoto aveva deciso che il suo nome andava cancellato.
E a scriverlo nel fango dell’estate, era stata mandata lei.
Ma quando piove troppo, anche i fiori del crisantemo possono marcire.
E non tutti gli ordini si eseguono a occhi chiusi.
Capitolo I – Il villaggio che non fa domande
Il sentiero che conduceva a Shirakawa era un filo d’erba tra due colline fradice. Le cicale cantavano senza tregua, ignare del peso che l’aria portava con sé.
Lei arrivò scalza, con i piedi coperti dal fango fino alle caviglie. Indossava un kimono semplice, blu scuro, con l’orlo cucito a mano. Sulle spalle, un fagotto: radici essiccate, una ciotola da macina, tre aghi sottili in una guaina di bambù.
Non disse il suo nome.
Solo che veniva dal sud, che conosceva le piante e che cercava lavoro come guaritrice. La vecchia che le aprì la porta la osservò per un lungo istante — occhi ciechi da un lato, acuti dall’altro — e la fece entrare con un cenno.
La casa era umida, il tetto basso, ma il futon era asciutto e il fuoco acceso. Le bastava.
Il giorno dopo, la voce della nuova “erborista” si era già diffusa tra le case. I bambini malati di febbre venivano portati da lei, le madri lasciavano in dono ciotole di riso e sale, qualcuno osava chiederle un infuso contro gli spiriti notturni.
Lei parlava poco. Non rideva mai.
Ma una volta, mentre osservava le foglie di shiso accartocciarsi sul carbone, sorrise appena.
Aveva notato qualcosa.
Il capo villaggio non c’era.
Da settimane.
E nessuno faceva domande.
Capitolo II – Il Tengu del bosco sacro
Le piogge caddero senza sosta per tre giorni e tre notti. La collina alle spalle del villaggio cominciò a franare a tratti, rivelando radici spezzate, ossa bianche di cervo, e un sentiero dimenticato. I bambini, costretti in casa, parlavano sottovoce tra di loro.
Dicevano che il Tengu fosse tornato.
Lei li ascoltava mentre preparava decotti d’orzata. Il nome era sempre sussurrato, mai detto ad alta voce davanti agli adulti. Un Tengu con ali nere e maschera rossa. Un Tengu che rubava i sogni e lasciava piume sulle soglie delle case.
Il terzo giorno, ne trovò una anche lei. Lunga, nera, lucida.
Appoggiata con cura sulla soglia.
Non era superstiziosa.
Ma quella notte chiuse il futon con una seconda corda.
Il bosco alle spalle di Shirakawa era sacro, o almeno lo era stato. Un tempo, dicevano i più anziani, nessuno poteva tagliare neanche un ramo senza lasciare un’offerta. Ora i monaci se ne erano andati, il santuario era crollato, e il nuovo signore delle terre – un vassallo del clan Toyotomi, Mashiba Hisamichi – aveva fatto costruire una palizzata per aprire una strada militare.
Lei ci andò di notte.
Salì il pendio in silenzio, nel buio. Il vento sapeva di resina e fumo. Trovò la palizzata, il cantiere, e due uomini addormentati al posto di guardia. Poi, tra i tronchi caduti, vide qualcosa brillare: una maschera rossa con becco lungo e piume nere.
Non era di legno.
Era antica. Laccata. Forse Noh. Forse Yamabushi.
Era stata appesa a un ramo, e sotto di essa… un corpo.
Il volto del capo villaggio, annerito, gli occhi spalancati. Nessun sangue.
Solo un segno inciso nel petto: il crisantemo a dodici petali. Lo stemma dell’imperatore.
Tornò prima dell’alba, le dita gelide, la mente annebbiata.
Nel suo rifugio, tirò fuori dalla sacca la lettera che portava da Kyoto.
Una sola frase, incisa con inchiostro denso:
“Mashiba Hisamichi. Eliminare. Nessun testimone.”
Strinse il foglio fino a strapparlo.
Poi, lentamente, prese la piuma dalla soglia e la infilò nel nodo del kimono.
Qualcuno la stava avvisando.
Ma non era chi le aveva dato l’ordine.
Capitolo III – La donna dai capelli bianchi
Il giorno dopo, il cielo cambiò. La pioggia si placò, ma l’aria rimase sospesa come il respiro prima di un colpo.
Nel villaggio, nessuno parlava del capo scomparso. Chi lo aveva conosciuto abbassava gli occhi. I bambini avevano smesso di sussurrare leggende. Solo una vecchia, che viveva in una capanna tra le canne del fiume, parlava ancora a voce alta.
La chiamavano Tsuyu-no-Okina, “la Vecchia della Pioggia”.
Lei la cercò.
Attraversò il fiume con i pantaloni arrotolati e il bastone in mano. Le rane tacevano al suo passaggio. La capanna odorava di argilla e cipresso. La vecchia la attendeva seduta su un cuscino di paglia, i capelli lunghi e bianchi come nebbia bagnata.
— «Tu sei venuta per uccidere, non per guarire.»
Lo disse senza odio. Come si constata la caduta di una foglia.
Lei non rispose. Si sedette.
Tsuyu-no-Okina le porse una ciotola di brodo. Non tremava. I suoi occhi erano chiari, lucidi come pietre del fiume.
— «Mashiba è un uomo senza ombra. Ha venduto parte dei boschi a Kyoto. Ha fatto sparire i kami della collina. Ma non è lui il più pericoloso.»
Fece una pausa. Poi tirò fuori da una scatola una piuma nera, identica a quella della soglia.
— «Il Tengu non è leggenda. Esiste. Ma non è un demone. È un uomo mascherato. Un servitore ribelle dell’Impero. Uccide chi deve essere protetto. Fa quello che tu non puoi.»
Lei fissò la piuma a lungo.
Poi disse solo:
— «Dove lo trovo?»
La vecchia sorrise, mostrando denti consumati.
— «Non si trova il vento. Ma quando soffia, porta con sé i fiori secchi.»
Quella notte, tornò nel suo rifugio.
Sedette sul tatami, accese una candela, e scrisse un messaggio su carta di gelso.
Piegò il foglio in forma di crisantemo e lo lasciò sull’uscio, sotto la piuma.
Era un codice.
Una domanda.
Una sfida.
Capitolo IV – I tre nomi nascosti
Al mattino il crisantemo non c’era più. Né la piuma.
Al suo posto, una lastra sottile di legno nero, incisa con un kanji appena visibile: “Yoru” – Notte.
Un messaggio. L’invito era chiaro.
Lei uscì senza preparare infusi. Indossò un kimono dai toni neutri, nascose tre aghi avvelenati sotto le maniche, e partì prima del tramonto. La collina del santuario era silenziosa, percorsa solo da cinghiali e vento. Ma appena entrata nel bosco, sentì l’aria cambiare.
Non era sola.
Sotto il grande cedro marcio, il Tengu l’aspettava. Maschera rossa, becco lungo, occhi scuri che brillavano alla luce della luna. Ma non era un’apparizione. Era reale. Alto, calzature da yamabushi, hakama neri. E silenzioso.
Non parlò.
Le porse un rotolo. Poi si voltò e scomparve tra gli alberi senza rumore.
Nel suo rifugio, alla luce del fuoco, lei srotolò il messaggio. Il kanji iniziale le fece trattenere il respiro: “Seigi” – Giustizia.
Sotto, tre nomi.
Mashiba Hisamichi
Kozai Genshin – consigliere del clan Toyotomi
Sen no Rikyū
L’ultimo nome le tremò tra le mani. Il maestro del tè. L’uomo più influente del momento.
Un protetto di Hideyoshi, sì, ma anche… anche vicino alla filosofia di equilibrio, silenzio e grazia che governava l’anima delle arti. Cosa ci faceva il suo nome accanto a due uomini corrotti?
Ripercorse la calligrafia. Era fluida, ferma, elegante. Quella di un uomo che scriveva da solo.
Non un soldato. Un poeta.
All’alba, salì di nuovo sul pendio. Nel punto in cui il corpo del capo villaggio era stato trovato, ora c’era solo un crisantemo giallo, posato su una pietra.
Ne raccolse i petali e tornò in silenzio.
La missione per cui era stata mandata era mutata. Mashiba non era che un ramo. Ma lei sentiva che la radice stava più in profondità. Forse a Kyoto. Forse proprio nella casa del tè più sorvegliata del Paese.
E il Tengu… non era più un nemico.
Era la lama che precede l’ombra.
Capitolo V – La cerimonia interrotta
Partì da Shirakawa all’alba, a piedi, seguendo il sentiero dei monaci attraverso le montagne boscose. Conosceva il cammino: lo aveva percorso anni prima, come messaggera, quando portava ordini nascosti tra le cuciture del kimono.
Attraversò fiumi, dormì in capanne abbandonate e mangiò solo riso secco e foglie di shiso. Dopo tre giorni di cammino, giunse a Kyoto, la capitale che non dormiva mai.
I cancelli della città erano affollati di pellegrini e mercanti. Lei entrò senza essere notata, come una foglia che cade con il vento. In Gion, i templi erano pieni di canti, ma i giardini di Daitoku-ji conservavano il silenzio. Proprio lì, il maestro Sen no Rikyū stava per tenere una cerimonia estiva nella sala privata del padiglione Nansen-in.
Non c’erano guardie armate, ma occhi ovunque.
Vestita da pellegrina, si mescolò ai servi e si nascose dietro un paravento di canne, da cui poteva osservare senza farsi vedere. Il profumo del tatami fresco, il fruscio dell’acqua, il battito regolare del suo cuore: tutto si fuse in un solo respiro.
Sen no Rikyū era seduto di fronte agli ospiti, nella compostezza di chi conosce la bellezza della morte. Preparava il tè con gesti precisi, come se ogni movimento fosse inciso nella memoria del tempo.
Fu allora che accadde.
Un colpo secco alla porta scorrevole.
Un messaggero, piegato in due, consegnò una pergamena. Rikyū la lesse con calma. Poi posò il chawan, si alzò e parlò:
— «L’estate non sopporta l’inganno. Il crisantemo non dovrebbe fiorire in questa stagione.»
Era una frase in codice.
Lei lo capì.
Quella notte, nel giardino esterno, il Tengu era già lì.
Ma questa volta, tolse la maschera.
Era un volto femminile. Rughe leggere. Occhi vivi. Non più giovane, ma intatto.
— «Anche i kami tacciono davanti al maestro», disse la donna-Tengu. «Ma non per sempre.»
Le porse un rotolo di bambù inciso.
Dentro, solo tre versi:
Il fiore cade
prima che giunga l’autunno.
Troppo perfetto.
Era firmato con un sigillo in rosso: Sen.
Il crisantemo era caduto.
Ma i petali avevano seminato qualcosa.
Capitolo VI – Il manoscritto sepolto
Le piogge erano cessate, ma l’aria sopra Kyoto era ancora troppo ferma. Le cicale tacevano. I giardini tacevano. Tutto sembrava in ascolto.
E lei, kunoichi dell’Iga, sapeva cosa significava quell’attesa.
Qualcosa stava per accadere.
Da giorni, Sen no Rikyū si era chiuso nel padiglione del tè, rifiutando visite, compresa quella di un importante messaggero dello Shōgun. Era un suicidio politico. Ma forse anche un’altra cosa.
Nella notte senza luna, tornò al giardino di Daitoku-ji. Aveva individuato un punto che solo un occhio abituato a osservare l’invisibile poteva notare: una lanterna di pietra spezzata, un ramo d’acero rivolto a nord, un’ombra troppo scura sotto il muschio.
Scavò.
Trovò una scatola laccata, nera come pece, avvolta in un panno rosso, sigillata con cera spezzata. Non era un contenitore qualsiasi. Era un’offerta. O una confessione.
Dentro: un manoscritto in carta di gelso, custodito come si tiene in mano un ricordo che brucia. Il titolo era inciso in pennellate fini:
Kiku to Ame – Crisantemo e Pioggia
Non era un diario di strategia. Era un testamento interiore.
Appunti sulla cerimonia. Frasi su estetica e impermanenza.
Ma tra quei versi, qualcosa cambiava tono.
Compare una calligrafia diversa. Più tesa. Più umana.
Un passaggio era cerchiato:
Quando anche la bellezza diventa minaccia,
la cerimonia si spezza.
Ma la lama nascosta nel fiore
conosce il suo tempo.
E sotto, in grafia femminile:
Se non puoi salvare il maestro, salva il gesto.
Se non puoi fermare la pioggia, cammina dentro l’acqua.
Lei lesse quelle parole con il respiro corto. Era un messaggio.
Non era stata mandata solo per eliminare Mashiba Hisamichi.
Era lì per scegliere se proteggere o distruggere un equilibrio fragile come la cerimonia stessa.
La kunoichi strinse il diario al petto.
Non avrebbe eseguito l’ordine. Non ancora.
L’arte del ninjutsu insegnava il dissimulo, la fuga, l’assassinio.
Ma nessuno l’aveva preparata a questo: scegliere di non colpire per preservare qualcosa che non si vedeva… ma si sentiva.
Nel tempio, le luci si accesero all’alba.
Una pergamena fu trovata inchiodata a una colonna del padiglione:
Il fiore cadrà, ma nel silenzio.
Il suo profumo resterà nell’invisibile.
Firmata con un solo ideogramma:
女 – Onna (Donna).
Epilogo – Quando cade l’ultimo petalo
Shirakawa, dieci anni dopo.
Il villaggio era cambiato. Le nuove generazioni coltivavano il riso nei campi bonificati, i boschi erano tornati verdi, e la pioggia cadeva meno spesso. Nessuno ricordava più il nome del signore locale, e neppure il suo volto. Scomparso come acqua sulla carta.
Ma in cima alla collina, dietro il vecchio santuario, qualcuno aveva piantato un albero. Un crisantemo imperiale, dai petali larghi e profumati. Fioriva ogni anno fuori stagione, a luglio.
Ogni tanto, durante il festival delle stelle, una donna dai capelli raccolti, vestita di indaco, appariva tra la folla. Portava un ventaglio piegato nella manica e una ciotola con un decotto dal profumo sottile. Non si fermava mai a lungo. Ma i bambini dicevano che, dove passava, l’aria si faceva più fresca.
Nella sua casa di legno, lontana dalla strada principale, custodiva ancora un manoscritto. Le pagine erano ingiallite, i bordi fragili. Ma l’inchiostro era intatto. Kiku to Ame.
Ogni anno, allo stesso giorno, apriva il diario e preparava una tazza di tè con le stesse foglie raccolte sotto la pioggia. Era un’offerta.
Non per un dio.
Non per un signore.
Ma per un uomo che aveva scelto la bellezza, anche sapendo di morire per essa.
E per una se stessa più giovane, che aveva imparato che non sempre l’arma più affilata è quella che colpisce.
Nessuno sapeva più che fosse stata una kunoichi.
Ma ogni volta che un crisantemo fioriva in luglio, il vento pareva sussurrare il suo nome.
E nel silenzio che segue la pioggia, ancora oggi,
qualcuno la ascolta.
