
Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 6 di 7)
Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 6 di 7)
La serata alla locanda era trascorsa in modo tranquillo. Nao era venuta a dare una mano con il servizio, non perché avesse bisogno di lavorare, ma per stare in compagnia. La signora Fumiko aveva discusso con una certa veemenza col professor Tanaka: l’argomento della serata? La gioventù d’oggi. Tanaka sosteneva che i giovani dovessero essere più rispettosi; Fumiko, invece, riteneva che un po’ di libertà in più, rispetto ai tempi andati, non potesse fare male. Alla fine, davanti a un buon tè, si erano riconciliati, grazie anche all’intervento allegro del signor Okabe, che aveva raccontato una barzelletta ai due. In verità, risero più per le condizioni di Okabe – che, libero dal lavoro quella sera, aveva bevuto un bicchierino di sakè di troppo – che per lo scherzo in sé.
Stranamente, anche quella sera Haruki non si era visto. Aya si domandò dove fosse finito. Desiderava vederlo, senza sapere bene il perché.
«Pensieri strani?» disse Nao, intromettendosi tra lei e le sue riflessioni.
«No, Nao-chan, niente di che. Stavo solo osservando il vuoto…»
“Il tuo vuoto deve avere un nome!” pensò l’amica, sorridendo tra sé.
Giunte alla chiusura, dopo aver sistemato, Nao si fece avanti:
«Insomma, Aya, sono tua amica da sempre. Tu nascondi qualcosa e non me ne vuoi parlare! Potrei offendermi!» disse, più scherzosamente che seriamente.
«Ma no, Nao-chan, cosa ti viene in mente. Certo che sei mia amica… anzi, la mia migliore amica. Ma credimi, non c’è nulla che ti stia nascondendo. Nulla di importante.»
«Non mi convinci, furbetta. Comunque, se mai avrai voglia di parlare dei tuoi “segreti”, sappi che io sono qui. E lo sai, di me ti puoi fidare.»
Chiusa la locanda e salutata Nao, Aya si preparava a dirigersi verso il giardino dei glicini. Era la sesta notte.
Yoru era impaziente. Con un deciso miagolio glielo fece capire.
«Ho capito, Yoru. Fammi solo chiudere il giubbotto: questa notte fa un po’ freddino. È quasi mezzanotte… non facciamo aspettare i nostri amici.»
Il cielo era privo di stelle. La luna, timida, si rifletteva appena nelle pozzanghere lasciate da una breve pioggia pomeridiana. Yoru la precedeva di qualche passo, silenzioso come un’ombra.
Il giardino dei glicini sembrava più vivo del solito. I fiori, scossi da un vento leggero, fluttuavano come farfalle viola. L’aria sapeva di terra bagnata e sogno.
I due spiriti erano già lì, ad attenderli.
Yoshitsune appariva più stanco — se uno spirito può mai esserlo — eppure il suo sguardo era colmo di quieta determinazione. Shizuka, accanto a lui, indossava un kimono color perla, che pareva fatto di nebbia e luce lunare.
«Bentornati…» disse Yoshitsune. «Ormai siamo quasi alla fine della nostra permanenza su questa terra. Almeno per quest’anno.»
Fu Shizuka a prendere la parola. La sua voce era dolce, ma tesa, come una corda di koto sull’orlo della rottura.
Aya e Yoru presero posto sulla loro consueta panchina. In effetti — notò Aya — ce n’era solo una in tutto il giardino. Non ne aveva mai viste altre.
Shizuka iniziò a raccontare…
«Come vi accennai ieri notte, fui costretta a esibirmi in una danza davanti a Yoritomo e a sua moglie, la nobile Masako, durante una cerimonia a Kamakura.»
Si fermò un istante. Il suo volto si fece più teso. Poi, come se riaprisse una porta nel passato, continuò con voce carica di emozione:
«Pioveva. Una pioggia sottile e triste, che cadeva come se il cielo stesso piangesse. Indossavo un junihitoe candido, che la pioggia rendeva trasparente come la mia anima. Un musicista sedeva accanto a me con il suo shamisen. Il suo tocco era lento, malinconico, come il battito del mio cuore spezzato.»
Si girò verso Aya, ma senza vederla davvero: i suoi occhi erano altrove.
«Tutti mi guardavano in silenzio. Yoritomo, rigido come pietra; Masako, bellissima e dolorosamente quieta. Io danzai… e nella mia danza non c’era rabbia, né vendetta. Solo amore. E dolore. Ogni mio passo era una parola non detta, ogni movimento un ricordo di Yoshitsune. Alzai le braccia come per toccarlo nel vento. La pioggia bagnava i miei capelli, scendeva sulle mie guance come lacrime che non volevo versare.»
«Anche se lontano sei, mio signore,
l’amore non ha confini, né catene…»
«Quelle parole le cantai con voce tremante, ma non abbassai mai lo sguardo. Nemmeno quando vidi l’ira nascere negli occhi di Yoritomo. Eppure, non fu lui a salvarmi. Fu Masako. Fu il suo cuore di donna, e forse madre, a impedire che io venissi giustiziata sul posto¹.»
Shizuka abbassò lo sguardo. Uno spiraglio di nebbia si posò intorno a lei come un velo.
«Ma fu quella danza a condannare mio figlio.»
«Portavo in grembo il figlio di Yoshitsune.» disse poi, voltandosi appena verso di lui.
Aya trattenne il fiato. Yoru si immobilizzò.
«Yoritomo temeva nostro figlio, quasi più di suo padre. Lo temeva come si teme un presagio, o forse una futura vendetta. Ordinò che venisse ucciso. Subito dopo il parto, mi fu strappato dalle braccia. Non ebbero alcuna pietà. Non riuscii nemmeno a dargli un bacio d’addio, o una carezza. I suoi pianti si spensero, e una lama si macchiò del suo sangue innocente. Nemmeno le preghiere della nobile Masako poterono salvarlo. Il cuore di Yoritomo era colmo di odio e di paura.»
«Che conducono sempre lungo la via del male…» aggiunse Yoshitsune, con voce grave.
«Se fosse stata una bambina, l’avrebbe forse risparmiata. Così disse Yoritomo. Ma nacque un bimbo… e non ebbe scampo.» continuò Shizuka, con un filo di voce.
«Non sarebbe cambiato nulla, amore mio. Non avrebbe permesso che il mio sangue sopravvivesse.» concluse Yoshitsune, prima di lasciarle spazio per continuare.
«Dopo questi eventi strazianti, fui mandata a Kyoto, dove rimasi sotto la protezione della stessa dama Masako. Restai lì, in attesa. Speravo in notizie di Yoshitsune, ma il tempo sembrava essersi fermato con la morte di nostro figlio. Nonostante ciò che dicono i saggi, il tempo non è sempre un balsamo. A volte, è solo un’altra forma di dolore che scorre.»
«Poi… che accadde?» chiese Aya, con voce quasi impercettibile.
«Lo saprete domani notte, cara Aya. Alla settima notte dei nostri incontri.» rispose Yoshitsune, accennando un inchino. «Anche per questa notte il nostro tempo è terminato.»
Ma prima di sparire tra le ombre, un improvviso miagolio squarciò il silenzio.
I due amanti si voltarono di scatto.
«Momo!» esclamò sorpresa Shizuka, ma nessuna risposta giunse.
Una leggera foschia si levò dal terreno, come nebbia evocata dai sogni. Aya e Yoru videro, da dietro un glicine, apparire un gatto. Elegante, con lo sguardo antico. Forse il tanto misterioso Momo. Saltò nella foschia e sparì, lasciando dietro sé un silenzio più denso di prima.
«Hai visto, Yoru? Doveva essere Momo.»
“Sì, doveva essere proprio lui… ma quanta fretta per sparire così!” pensò Yoru, un po’ contrariato.
«Torniamo a casa, Yoru…» disse Aya. Il gatto le rispose con un deciso miao.
Mentre cercava di addormentarsi, rigirandosi tra le lenzuola, notò che Yoru si era già placidamente appisolato. Aya ripensò al racconto di quella notte. Al tragico destino dei due spiriti, che solo nella morte avevano trovato il modo di riunirsi.
Il suo sguardo cadde sul portachiavi a forma di maneki-neko, il gatto che chiama la fortuna. Lo accarezzò con la punta delle dita.
“Voglio vedere se domani Haruki si fa sentire… Quel cretino mi sta facendo preoccupare! Uffa, ma poi… perché mai mi devo preoccupare per lui?” pensò, senza nemmeno accorgersi che il sonno l’aveva già dolcemente colta.
Nota
¹ Il Heike Monogatari (巻十, “Volume X”) narra che Shizuka Gozen, dopo la fuga di Yoshitsune da Kyoto, fu catturata e condotta a Kamakura, dove fu costretta a danzare davanti a Minamoto no Yoritomo. Durante l’esibizione sotto la pioggia, accompagnata dallo shamisen, espresse apertamente il suo amore per Yoshitsune, suscitando l’ira dello shōgun. Fu la moglie di Yoritomo, Hōjō Masako, a intercedere per salvarle la vita. La scena è rimasta tra le più celebri della letteratura epica giapponese.

