
La custode dell’incenso – sogni di corte e fumo che danza
Un romanzo breve sulla memoria olfattiva e i legami invisibili che attraversano i secoli
Marta Ferri, 46 anni, profumiera italiana specializzata in fragranze storiche, si trasferisce a Nara per restaurare una kura del XIX secolo. Tra le assi polverose scopre una scatola di lacca nera contenente dodici bastoncini d’incenso e un messaggio in calligrafia antica: “Ascoltando il profumo, anche le ombre di chi è passato tornano a dimorare.”
Ogni notte che accende un bastoncino, Marta sogna Fuji no Tsubaki, una onna-kōshi (maestra del profumo) della corte Heian del X secolo. Attraverso sogni sempre più vividi, Tsubaki le trasmette l’antica arte del kōdō e la guida nella creazione di fragranze che risvegliano memorie sopite.
Ma quando la linea tra sogno e realtà inizia a dissolversi, Marta scoprirà che alcuni legami trascendono il tempo…
Capitolo 1 – Il profumo della polvere antica
Il cigolio della kura spezzò il silenzio come un respiro trattenuto troppo a lungo.
Marta si fermò sulla soglia, stringendo la torcia LED con una mano e il tablet con l’altra. Aveva restaurato magazzini storici in mezza Europa, ma questo era diverso. L’aria stessa sembrava addensata di storie non raccontate.
La luce autunnale di Nara filtrava tra le assi di legno scurito dal tempo, creando striature dorate su scatole di paulownia, rotoli di seta e lanterne chōchin ormai mute. Nell’aria aleggiava un cocktail olfattivo complesso: hinoki bagnato dalla pioggia, inchiostro sumi cristallizzato, e qualcosa di più sfuggente. Una nota resinosa che sembrava emergere dal passato stesso.
Interessante.
Marta si inginocchiò sul tatami annerito dalle stagioni. La polvere si alzò come incenso secolare, depositandosi sulle sue dita come cipria dorata. Dietro un fusuma scorrevole notò un’irregolarità nella parete – una cavità non segnata in alcun inventario.
Era piccola, incassata nel muro come un butsudan dimenticato.
Al suo interno: una scatola di lacca nera, lucida come ossidiana vulcanica. Il coperchio era decorato con sakura dorati disposti in spirali concentriche, che sembravano muoversi alla luce tremula della torcia.
Quando la sfiorò, una leggera scarica elettrica le attraversò le dita.
Elettricità statica, si disse. Nient’altro.
All’interno, dodici bastoncini d’incenso perfettamente conservati riposavano su un letto di washi color crema. Accanto, una pergamena sottile come pelle di serpe, ripiegata secondo l’antica tecnica tatōshi.
Non riusciva a decifrare ogni ideogramma, ma quello centrale le balzò agli occhi con chiarezza cristallina:
香 – Kō, profumo.
Qualcosa si mosse nel suo petto. Una vibrazione sottile, come un diapason che risuona a una frequenza dimenticata.
Quella notte, nel suo appartamento affacciato sul giardino karesansui, Marta si girò nel futon come una foglia nel vento.
Quando finalmente il sonno la prese, arrivò dolce come nebbia mattutina.
Nel sogno, lei apparve.
Capelli neri come inchiostro fresco, raccolti in un elaborato tsubushi-shimada. Kimono color lavanda che profumava di byakudan e fiori notturni. Non parlò. Si sedette semplicemente accanto a Marta sotto una lampada a olio, con la grazia innata di chi vive nel gesto più che nella parola.
Sollevò il braccio con movimento fluido, lasciando cadere un pizzico di polvere scura su un braciere dorato.
Il fumo salì lento, formando spirali ipnotiche.
E il cuore di Marta fece altrettanto.
Capitolo 2 – Il primo bastoncino
L’alba la trovò seduta nel giardino, ancora in yukata, con la scatola di lacca tra le mani.
Il sogno persisteva nella sua memoria con una nitidezza innaturale. Poteva ancora sentire il profumo del kimono lavanda, la consistenza setosa dell’aria notturna, il calore del braciere contro il viso.
Assurdo.
Eppure, quando aprì la scatola, il primo bastoncino sembrò chiamarla.
Lo posizionò nel braciere di bronzo decorato con una fenice intagliata – un pezzo autentico del periodo Meiji che aveva acquistato il giorno prima al mercato delle pulci di Nara. La punta prese fuoco con una scintilla dorata, trasformandosi in brace che emanava volute di fumo denso.
L’aroma la investì come un’onda: kyara di prima qualità, jinko stagionato, un tocco di prugna ume essiccata e qualcosa di più sottile. Una nota che non riusciva a identificare, dolce e malinconica insieme.
Chiuse gli occhi.
Ascolta, sussurrò una voce che non c’era.
Il palazzo imperiale Heian si materializzò intorno a lei come un dipinto che prende vita.
Corridoi di legno lucido si estendevano all’infinito, illuminati da lampade andon che proiettavano ombre danzanti. Il suono distante di un koto riempiva l’aria notturna, mescolandosi al fruscio della seta e al sussurro di conversazioni tenute dietro ventagli dipinti.
Marta camminava a piedi nudi, i suoi passi silenziosi sul tatami fresco. Un ventaglio sensu cadde davanti a lei. Lo raccolse: era decorato con iris viola e una poesia in hiragana che non sapeva leggere, ma che comprendeva nel profondo.
Ecco quando apparve.
La dama del kimono lavanda si materializzò senza suono, come se fosse sempre stata lì. I suoi occhi non interrogavano, attendevano. Indossava un jūnihitoe – i rituali dodici strati dell’abbigliamento di corte – e il suo profumo la precedeva come un’eco invisibile.
Si sedette con grazia infinita e accese un nuovo incenso. Questo era diverso: più amaro, più complesso. Note di agarwood si mescolavano a chōji e qualcosa che sapeva di temporali imminenti.
Quando parlò, la voce non aveva suono fisico. Le parole si formavano direttamente nella mente di Marta, come nebbia che condensa in pensiero:
“Non cercare di capirmi con la ragione. Lascia che sia il profumo a ricordare per te.”
Intorno a loro, la corte prese vita. Nobildonne che ridacchiavano dietro ventagli uchiwa. Giovani monaci che trascrivevano poesie waka su carta profumata. Il gioco sottile delle gerarchie sociali espresso attraverso la qualità degli incensi personali.
Marta si voltò verso la dama per fare una domanda, ma lei era svanita.
Al suo posto, un ventaglio d’avorio inciso con un ideogramma che non aveva mai visto:
夢 – Yume, sogno.
Si risvegliò di colpo, in posizione seduta.
Le mani tremavano, ma erano vuote. Solo il braciere ancora tiepido e il fumo che si dissolveva nell’aria del mattino. Tuttavia, qualcosa era cambiato. La qualità della luce, forse. O il modo in cui l’aria si muoveva intorno a lei.
Aprì il suo notebook e scrisse con calligrafia febbrile:
“Non è il ricordo che evoca il profumo. È il profumo che risveglia ciò che nemmeno sapevamo di aver dimenticato.”
Le parole sembravano scaturire da una fonte più profonda della sua mente cosciente.
Quella sera creò la sua prima fragranza ispirata al sogno: una miscela di santalum album, boswellia e una goccia di estratto di ume. La chiamò “Sussurro di Corte”.
Il profumo era diverso da tutto ciò che aveva mai creato. Non seguiva le regole occidentali della piramide olfattiva, ma si sviluppava in onde concentriche, come l’incenso che si brucia nei templi.
Capitolo 3 – L’arte perduta del kōdō
Il secondo bastoncino bruciò all’alba del giorno successivo.
Questa volta Marta era preparata. Aveva studiato tutta la notte, consultando testi sul kōdō ordinati online e tradotti frettolosamente con app di traduzione. Sapeva di stare per entrare in un territorio inesplorato, dove la scienza della profumeria occidentale incontrava un’arte contemplativa millenaria.
L’aroma del secondo incenso era più austero: corteccia di magnolia, ferro vecchio ossidato, e una dolcezza elusiva che non riusciva a catalogare. Quando il fumo raggiunse le sue narici, il mondo scomparve.
Si trovò in una sala dalle pareti decorate con dipinti sumie raffiguranti uccelli notturni e rami di ciliegio in fiore. Al centro, su un tatami fresco di paglia di riso, sei figure sedevano in cerchio perfetto.
Era una partita di kōdō.
L’antico “gioco del profumo” che aveva trasformato l’olfatto in arte poetica durante il periodo Heian. I partecipanti indossavano kimono dai toni neutri – grigi perla, beige sabbia, indaco notturno – per non interferire con la purezza dell’esperienza olfattiva.
Al centro del cerchio, un braciere kōro emanava volute sottili. Non c’erano parole, solo un linguaggio fatto di gesti rituali e rispetto silenzioso.
La dama lavanda apparve accanto a lei. Con un movimento gentile la invitò a sedersi, poi le porse una striscia di washi arrotolata. Marta la aprì: conteneva una poesia waka, cinque versi in calligrafia femminile:
Nel fumo leggero,
il nome del tuo cuore
ritorna piano.
Perso nell’aria dolce,
non ha bisogno di voce.
Uno a uno, i partecipanti si avvicinarono al braciere. Formavano una coppa con le mani, catturando il fumo e portandolo al naso con gesti lenti e meditativi. Marta imitò il loro rituale.
In quell’istante, sentì tutto.
Il peso dell’umidità prima di un temporale estivo. Il cigolio di una casa di legno sotto la pressione del vento. Il ricordo tattile di una carezza sul viso. Il dolore sordo di chi ha amato troppo e troppo tardi.
Il profumo non era solo odore. Era memoria distillata, emozione cristallizzata, tempo liquefatto.
Quando alzò lo sguardo, tutti la osservavano in silenzio. Nessun giudizio nei loro occhi. Solo riconoscimento.
Una di noi, sembravano dire senza parole.
Al risveglio, le sue mani si muovevano come guidate da una saggezza ancestrale.
Passò la giornata al banco di lavoro, mescolando resine rare, legni polverizzati e fiori secchi con la precisione di un alchimista. Nessuna formula scritta, nessun appunto. Solo intuizione pura che fluiva attraverso le sue dita.
Alla fine creò un piccolo cono d’incenso, simile a quelli usati nei templi zen. Lo accese nel giardino mentre il sole tramontava, osservando la spirale di fumo che saliva verso il cielo come una preghiera senza parole.
Il profumo era perfetto. Equilibrato come un haiku, profondo come un koan.
Lo chiamò “Ricordo Non Detto”.
Era il secondo tassello di un puzzle che iniziava a prendere forma nella sua mente.
Capitolo 4 – Il nome rivelato
Il terzo bastoncino ardeva nel braciere quando la nebbia mattutina avvolse il giardino come seta grigia.
Marta, seduta in seiza sul cuscino di lino, respirava lentamente. Aveva imparato a prepararsi per questi viaggi onirici, svuotando la mente dalle aspettative e aprendosi all’ignoto.
L’aroma di questo incenso era il più intenso finora: kyara di qualità imperiale, la resina più preziosa dell’agarwood, usata solo nelle occasioni più sacre. Un profumo che costava più dell’oro e che poteva indurre stati alterati di coscienza.
Nel sogno, il palazzo era vuoto.
Niente cortigiane, niente musicisti, niente kōdō. Solo lei, in piedi al centro del padiglione principale. Il kimono che indossava questa volta era viola intenso, bordato d’oro opaco come un crepuscolo setoso.
Marta si avvicinò senza timore.
La dama le porse un ventaglio sensu intagliato in avorio, decorato con un singolo ideogramma inciso con precisione calligrafica:
椿 – Tsubaki.
“È il mio nome,” disse. La voce era cristallina come acqua che scorre su sassi di fiume. “Fuji no Tsubaki.”
Camelia del Monte Fuji.
Un nome che era già una poesia, una metafora vivente della bellezza effimera che caratterizzava l’estetica giapponese.
Marta sussultò. Lo riconosceva. In una lettera trovata giorni prima nella kura, nascosta tra documenti di famiglia, c’era una menzione di quel nome legata a una frase criptica:
“La mia fragranza è l’unica voce che può raccontare il mio destino.”
Tsubaki la osservò con occhi che avevano visto secoli:
“Vivevo nell’ombra della principessa Akiko. Il mio compito era quello di farla brillare attraverso i profumi che creavo per lei. Dovevo esistere senza esistere, creare senza essere riconosciuta.”
Camminarono insieme lungo un corridoio dipinto con iris selvatici. Tsubaki si fermò accanto a una parete apparentemente normale e vi posò la mano. Un piccolo pannello si aprì, rivelando un compartimento segreto.
All’interno, un oggetto che brillava nella luce lunare: un bracciale in lacca nera, decorato con gli stessi petali dorati della scatola degli incensi.
“Questo è tutto ciò che resta della mia esistenza terrena. Ora appartiene a te.”
Lo posò nelle mani di Marta con la solennità di chi trasmette un testimone sacro.
Quando si svegliò, aveva le mani strette al petto in posizione protettiva.
Sul comodino, accanto al notebook, c’era un oggetto che non doveva esistere: il bracciale di lacca nera, identico a quello del sogno. I petali dorati brillavano nella luce dell’alba come se fossero stati appena creati.
Marta lo sollevò con mani tremule. Era reale. Solido. Aveva peso, consistenza, perfino un leggero profumo di kyara che persisteva dopo secoli.
Come è possibile?
Ma invece di cercare spiegazioni razionali, trascrisse il nome su una pergamena con inchiostro *sumi* autentico e lo sigillò in una scatola di paulownia.
Il primo legame tangibile era stato stabilito.
Il passato aveva iniziato a materializzarsi nel presente.
Capitolo 5 – Le lettere del cuore
Il bracciale di Tsubaki giaceva al centro del suo banco da lavoro come un talismano.
Marta lo studiava ogni mattina, scoprendo nuovi dettagli: una piccola crepa che rivelava un’incisione nascosta sotto la lacca, un carattere kanji appena percettibile che significava “nascondere”. Era un oggetto progettato per custodire segreti, per essere trovato solo da chi possedeva la chiave giusta.
Il quarto bastoncino bruciò quella sera con un aroma completamente diverso: secco, medicinale, con note di kuzu (radice di kudzu) e un retrogusto metallico che le ricordava l’inchiostro ferrogallico.
Il sogno la trasportò in uno studio privato, nascosto dietro paraventi dipinti con scene di caccia notturna. Rotoli makimono erano srotolati sul pavimento, alternati a ventagli, calamai e pennelli per calligrafia. Una singola lanterna andon pendeva dal soffitto, la sua luce tremula creata dal movimento di un vento che non esisteva.
Tsubaki era seduta a un basso tavolo da scrittura, china su una lettera. Non alzò lo sguardo quando Marta si avvicinò, ma le porse una busta sottile chiusa con un sigillo di cera spezzato.
Sul retro, un ideogramma che Marta riconobbe immediatamente: 空 Sora, che poteva significare sia “vuoto” che “cielo”.
All’interno, una lettera scritta in hiragana – la scrittura femminile del periodo Heian – con tratti delicati ma decisi. Nel sogno, Marta riusciva a leggere come se fosse la sua lingua madre:
Mia cara principessa,
anche se non posso più parlare,
ti lascio il mio profumo come ultimo dono.
Che i tuoi giorni siano leggeri come fumo d’incenso.
Non cerco memoria per me stessa,
solo che tu continui a respirare con gioia.
La calligrafia terminava con un piccolo disegno: un fiore tsubaki stilizzato e, sotto, una mano che lo lascia andare nel vento.
Marta si risvegliò con il cuore contratto dall’emozione.
Corse nella kura, guidata da un impulso più forte della logica. Rovistò dietro la vecchia cassa dove aveva trovato i primi documenti, seguendo un’intuizione che sembrava venire dalle sue mani stesse.
Dietro il rivestimento in carta washi dipinta a mano, scoprì una tasca cucita direttamente nella parete di legno. La aprì con cura chirurgica.
Dentro, tre lettere originali del X secolo.
Una era identica a quella del sogno: carta washi di qualità superiore, inchiostro sumi leggermente sbiadito ma ancora leggibile, profumata con la stessa miscela di kyara, kuzu e polvere di fiori secchi che aveva sentito nel sogno.
Le altre due portavano la stessa firma in calligrafia femminile: Fuji no Tsubaki.
Nel silenzio carico di significato della kura, Marta appoggiò le lettere su un tessuto di seta bianca e le annusò delicatamente. Ogni fragranza raccontava un capitolo diverso della vita della dama: speranza nelle prime creazioni, malinconia nelle composizioni mature, serenità nell’accettazione finale del destino.
Quello che stava emergendo non era solo la storia di una donna dimenticata dalla storia ufficiale.
Era un densho – una trasmissione diretta di conoscenza da maestra a discepola, attraversando mille anni come se fossero giorni.
Quella sera compose il terzo profumo della serie.
Lo chiamò “Lettera Non Spedita”.
E mentre il fumo saliva verso le stelle, lasciò che il profumo guidasse il suo respiro verso verità più profonde della comprensione razionale.
Capitolo 6 – Il tredicesimo segreto
Marta li aveva contati ossessivamente, proteggendoli in una scatola di kiri (paulownia) con sacchetti di sale marino per assorbire l’umidità. Ogni bastoncino rappresentava una porta verso il passato, una chiave per decifrare il messaggio di Tsubaki.
Ora ne rimaneva uno solo.
Lo accese quella sera quando il cielo si tinsе di indaco profondo e i primi grilli iniziarono il loro concerto notturno. Si preparò per l’ultimo viaggio, l’ultima rivelazione.
Ma il profumo del dodicesimo bastoncino la sorprese: era quasi assente. Non dolce, non amaro, non legnoso. Una nota trasparente, pulita come aria di montagna innevata.
Nel sogno non c’era il palazzo, non c’erano cortigiane.
Solo il giardino karesansui davanti al suo appartamento.
Coperto da una sottile coltre di ghiaccio, i fiori caduti, il muschio dormiente sotto le pietre rastrellate. Marta camminò scalza lungo il sentiero di sabbia bianca, ogni passo che lasciava impronte perfette.
Al centro del giardino, un braciere. Sotto la cenere ancora calda, un minuscolo cono nero che non doveva essere lì.
Lo raccolse con reverenza. Mentre lo stringeva tra le dita, una parola si materializzò nella sua mente con la chiarezza di una campana di bronzo:
十三 – Jūsan. Tredici.
“Ce n’è uno in più,” sussurrò al vento notturno.
Al risveglio, non perse tempo.
Tornò alla kura e riesaminò la scatola originale con occhi nuovi. Sotto la carta di riso che proteggeva i bastoncini, trovò quello che aveva cercato: un piccolo scomparto segreto, nascosto da un meccanismo che si attivava premendo uno dei petali dorati decorativi.
E lì, adagiato su un frammento di tessuto color lavanda, c’era il tredicesimo bastoncino.
Ma era diverso dagli altri. Più corto, più scuro, avvolto in carta su cui era scritto un unico ideogramma con calligrafia tremula:
還 – Kaeru, ritornare.
Quella notte Marta non dormì.
Portò il bastoncino nel giardino e lo accese senza esitazione, sotto le stelle che Tsubaki aveva contemplato mille anni prima.
Il fumo salì dritto, senza tremare, come una preghiera che sale verso l’infinito.
Ma questa volta non fu trasportata in un sogno. Entrò in uno stato intermedio – una veglia profonda e lucida in cui sentiva Tsubaki senza vederla, come un profumo che persiste dopo che il fiore è sfiorito.
La voce le parlò dall’interno del suo stesso cuore:
“Non tutto ciò che è perduto è scomparso.
Non tutto ciò che si brucia svanisce.
Siamo collegate da un filo invisibile
che il tempo non può spezzare.”
Poi, silenzio. E una pace profonda come l’oceano.
Il giorno dopo, Marta creò la fragranza finale.
Non più ispirata a un sogno, ma nata da un ascolto ancora più profondo. Una miscela di legni antichi, note di pioggia primaverile, polvere di iris selvatici, e una goccia di qualcosa che non si poteva più spiegare con le leggi della chimica.
La chiamò semplicemente “Tredicesima”.
Non compariva in alcun catalogo. Non veniva venduta. Solo chi la “sentiva” davvero poteva riceverla come dono.
Era il modo di onorare ciò che non si può dire, di custodire ciò che non si può possedere.
Epilogo – Il tempio del respiro
Sei mesi dopo.
La primavera era esplosa a Nara con la sua consueta magnificenza. Ma nel piccolo spazio che Marta aveva ricavato nella kura, il tempo sembrava ancora sospeso, come particelle di incenso che danzano nell’aria immobile.
Aveva trasformato la sala principale in qualcosa che non era né negozio né museo, ma un luogo intermedio. Tre cuscini zabuton in lino grezzo, un tavolo basso in hinoki e un braciere sempre acceso al centro. Nessuna vetrina, nessun prezzo, nessuna musica di sottofondo.
L’aveva chiamato “Il Tempio del Respiro” – Kokyū no Tera.
Non per evocare spiritualità new age, ma per ricordare l’essenziale: il respiro come ponte tra corpo e anima, tra presente e passato, tra sé e l’altro.
I visitatori non venivano per acquistare. Venivano per ascoltare.
Un solo profumo al giorno, scelto in base a un’intuizione che Marta aveva imparato a seguire senza questioni. Non spiegava, non raccontava storie. Si limitava a sedersi, accendere l’incenso e lasciare che l’esperienza parlasse da sola.
Alcuni piangevano, ritrovando ricordi perduti nell’abisso del tempo.
Altri sorridevano con gli occhi chiusi, connettendosi con parti di sé stessi che avevano dimenticato.
Altri ancora se ne andavano senza dire una parola, ma camminando diversamente – più lenti, più centrati, come se qualcosa dentro di loro si fosse appena sistemato nel posto giusto.
Ogni tanto, Marta sognava ancora.
Non sempre appariva Tsubaki, ma a volte, nel cuore della notte, sentiva il suono sottile di una manica di seta che sfiora il tatami. Una presenza grata e serena che vegliava sul suo lavoro.
Un mattino trovò davanti alla porta un ramo di tsubaki dai fiori rossi come rubini, appoggiato con cura sul gradino di pietra. Nessun biglietto, nessuna spiegazione. Solo i petali aperti al sole nascente.
Fu allora che comprese pienamente.
Non si trattava più di custodire la memoria di Tsubaki, ma di diventare Tsubaki nel mondo contemporaneo. Di continuare quel gesto interrotto dalla morte, di essere un ponte tra due epoche, due sensibilità, due modi di abitare il mondo.
Sulla parete del Tempio del Respiro, in calligrafia incisa su legno di ciliegio, fece scrivere queste parole da un maestro calligrafo di Kyoto:
香は語らずして、心に触れる。
Il profumo non parla, eppure tocca il cuore.
E ogni sera, prima di spegnere l’ultimo braciere, sussurrava un arigatō gozaimashita che non era rivolto a nessuno in particolare.
O forse sì.
Alle stelle che Tsubaki aveva contemplato. Al vento che aveva portato i suoi profumi. Al tempo che aveva custodito la sua eredità per mille anni, aspettando la persona giusta nel momento giusto.
Al mistero stesso della connessione umana che trascende morte, distanza e differenze culturali.
Nel silenzio profumato della kura, circondato dall’aroma eterno dell’agarwood e dalla presenza invisibile di chi l’aveva preceduta su questo sentiero, Marta sorrideva.
Aveva trovato la sua ikigai – la ragione per cui alzarsi ogni mattina.
E Tsubaki, finalmente, poteva riposare.
Fine
Nota dell’autore: Questo racconto è ispirato alla reale pratica del kōdō (arte dell’incenso) della corte Heian giapponese (794-1185), periodo in cui le nobildonne comunicavano attraverso fragranze elaborate e giochi olfattivi raffinati. Il personaggio di Fuji no Tsubaki è di fantasia, ma rappresenta le innumerevoli artiste anonime che hanno contribuito alla cultura estetica giapponese rimanendo nell’ombra della storia ufficiale.


