
Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 5 di 7)
La taverna si svuotò lentamente, lasciando nell’aria l’odore del brodo caldo e dei racconti scambiati tra risate e sakè. Le stoviglie tintinnavano lievemente mentre venivano riposte, e il pavimento conservava le tracce umide di zōri e geta, trascinati via nella fretta di rincasare.
Aya asciugò il bancone con gesti metodici, il legno liscio sotto il panno ruvido. Il calore del giorno si era ritirato nei muri, lasciando l’aria interna tiepida e immobile. Da fuori giungeva il suono della campana del vicino tempio.
Yoru, acciambellato sul “suo” mobile vicino alla porta, aprì un occhio, poi l’altro, stiracchiandosi con la lentezza e l’eleganza proprie solo dei gatti. Il suo manto sembrava trattenere il buio come una coperta d’inchiostro.
Nao, che stava legando il grembiule dietro la schiena, le lanciò uno sguardo curioso.
«Aya-chan… posso chiederti una cosa?»
Aya sollevò lo sguardo, con un’espressione aperta ma cauta, come chi ascolta ma pesa ogni sillaba.
«Ogni sera, dopo che chiudiamo, te ne vai sempre via con Yoru prima di rincasare. Dove andate di bello, così tardi?»
Aya sorrise. Era un sorriso sottile, pieno di nebbia e quiete, un sorriso che non era né conferma né smentita. Un enigma.
«Facciamo solo due passi. Yoru ha bisogno di movimento, e anche io, specialmente dopo un’intera serata dietro al bancone della taverna. L’aria notturna di Kyoto è più leggera, più pulita.»
Nao si sporse sul bancone, stringendosi nelle spalle.
“Dev’esserci qualcosa che non mi racconti, amica mia…” pensò, osservandola con fare sornione.
«Mah… sei sempre così misteriosa. Ma mi piaci anche per questo, lo sai? Eri così anche da piccola!» disse Nao ridendo. «Se scopri un angolo segreto dove si servono dolci che non ingrassano e sono gratis, me lo dici per prima, eh?»
Aya rise piano. «Promesso!»
Chiuse la porta dietro di sé, fece scattare la serratura, e insieme a Yoru s’incamminò lungo il viale lastricato. Le luci dei lampioni tremolavano appena nel vento, ma era come se ogni passo la conducesse via da quel mondo ordinario. Il ciottolato risuonava dolcemente sotto i suoi geta, e il profumo degli alberi si mescolava a quello più umido della terra dopo l’ultima pioggia.
Yoru camminava accanto a lei con passo deciso, la coda alta, gli occhi attenti, come se scrutasse un sentiero invisibile.
Aya parlava a bassa voce, quasi per sé stessa.
«Anche stanotte, vero, Yoru? Li sentiremo, e forse capiremo qualcosa in più. Sul perché sono tornati. Su ciò che cercano. E su ciò che ci lega a loro.»
Yoru rispose con un leggero miagolio, basso, profondo, come un accordo sommesso in una canzone lontana.
Dopo un po’ giunsero al giardino dei glicini. Era silenzioso, ma vivo. Le lanterne appese ondeggiavano appena sotto la brezza, proiettando ombre liquide. Il profumo dei fiori, dolce e penetrante, sembrava sussurrare frammenti di storie antiche, impregnando i suoi sensi con una dolce malinconia.
Quando i glicini parvero scuotersi con maggiore vigore, mossi da una corrente invisibile, le due figure familiari emersero dalla penombra. Shizuka sembrava danzare lentamente, sospesa tra due mondi, mentre Yoshitsune la osservava con lo sguardo velato da un’antica tristezza.
«Siamo felici che siate tornati», disse Shizuka, interrompendo la danza e sorridendo ad Aya e Yoru.
«Stanotte vi parleremo del tempo in cui tutto cambiò…»
Yoshitsune fece un passo avanti. La sua voce era un soffio tra gli alberi.
—
«Dopo Dan-no-Ura, tornammo a Kyoto. Io vi feci ritorno come un eroe. Le strade erano gremite. La gente gridava il mio nome. Le campane dei templi suonavano in mio onore. Ero stato nominato governatore di Iyo e ricevetti elogi dall’imperatore Go-Shirakawa stesso. Ma, tra quelle acclamazioni, non percepii ciò che cresceva silenziosamente nell’ombra…»
Shizuka chinò il capo. I suoi occhi, pur sereni, erano colmi di malinconia.
«Il mio fratellastro Yoritomo, dal suo dominio a Kamakura, non celebrò la mia vittoria. Yoritomo non solo temeva il mio nome, ma ormai mi odiava. Mi impedì di essere nominato shōgun. Mi dichiarò ribelle e traditore. Così, io, con Shizuka e i guerrieri a me fedeli, fuggimmo.»
«A un certo punto, però, dovemmo separarci. Per Shizuka era troppo rischioso continuare la fuga con me.»
«Mi lasciò sul Monte Yoshino», disse Shizuka, e i suoi occhi si velarono. «I ciliegi di quel monte sono meravigliosi; a primavera, quando sbocciano, i loro fiori sembrano neve sospesa tra cielo e terra. Quel luogo è bellezza e presagio insieme. Dovresti andarci, Aya-chan, magari con Haruki…», sorrise maliziosa la dama.
Aya trattenne il fiato. Shizuka sapeva di Haruki: com’era possibile? Poi rammentò che chi le stava di fronte apparteneva a un mondo dove non esiste segreto che possa essere celato. Con la mente, per un attimo fugace, vide il Monte Yoshino, coperto di sakura in fiore, e Haruki che la osservava.
Immediatamente si scosse e tornò alla realtà di quel momento.
«Quel monte è sacro.», disse Shizuka. «I ciliegi parlano agli spiriti, ma anche ai viventi che sanno ascoltare.»
Yoshitsune continuò: «Fu Hōjō Tokimasa a trovarla. La catturò mentre si stava allontanando dal Monte Yoshino e la condusse a Kamakura.»
Shizuka non tremò mentre il suo amato parlava; ormai erano solo lontani ricordi, anche se continuavano a ferirla.
«Mi costrinsero a danzare per lui, per Yoritomo, al santuario Tsurugaoka Hachiman. Ma io danzai per Yoshitsune. E lo dissi. Lo dissi con i miei passi, e lo feci con le parole, dette solo per lui.»
«Yoritomo si adirò, voleva la morte della mia amata!», sussurrò Yoshitsune. «Ma fu sua moglie, la nobile e saggia Masako, a trattenerlo. A proteggerla, almeno un po’.»
Una folata di vento mosse delicatamente i fiori dei glicini.
«Ora il tempo concesso per questa notte è finito!», dichiarò Yoshitsune, come se ascoltasse una voce portata dalla brezza che solo lui poteva udire.
«Domani notte vi racconteremo cosa accadde in seguito, e di come l’animo umano, a volte, sia come una foglia mossa dal vento.»
—
Con queste ultime parole, i due spiriti, sorridendo ad Aya e a Yoru, svanirono tra i glicini, immergendosi in una nebbia color argento sorta improvvisamente.
Aya tornò a casa lentamente, Yoru al suo fianco. Era particolarmente stanca, quella notte. Il racconto dei due sfortunati amanti, man mano che veniva svelato, assumeva toni sempre più drammatici. Un conto era leggere quelle storie sui libri scolastici o vederne la rappresentazione nei teatri Nō e Kabuki; un altro era sentirle raccontate da chi le aveva vissute.
A casa, sdraiata sul futon, avvolta in una vestaglia chiara, osservò il piccolo maneki-neko nero sul comodino. Lo toccò con un dito, distratta. Yoru si accoccolò accanto a lei.
La sua presenza era più che affettuosa: era una sorta di garanzia che, nel sonno, gli incubi non potessero farle del male.
Aya rimase in silenzio per qualche istante, poi mormorò:
«Buonanotte, Yoru. È stato bello incontrare Shizuka e Yoshitsune. Mi mancheranno quando lasceranno questa realtà, dopo la settima notte…»
“Anche a me, amica mia. Ancora però non sappiamo nulla di quel gatto scomparso… Momo…” pensò Yoru, sbadigliando e dandosi una grattatina dietro un orecchio.
Prima di abbandonarsi completamente al sonno, un nome le attraversò la mente, lieve come una foglia nel vento: “Haruki…”
Non si spiegava il perché. Il loro ultimo incontro era stato fugace, confuso. Quel leggero bacio sulla guancia… “Perché?”
Poi chiuse gli occhi e il sonno la sorprese.
