I racconti di Yuki

Il giardino che sussurrava

Reading Time: 5 minutes

Introduzione – Il ritorno

Il treno lasciò Yuta a Nara con un sospiro metallico.
Il vento di marzo pizzicava la pelle, portando con sé un odore acre di terra bagnata e legna bruciata.
Non c’era nessuno ad attenderlo, e la strada verso Kasugano sembrava un corridoio di alberi immobili, in ascolto.

Quando varcò il cancello, la casa si rivelò in tutta la sua stanchezza: assi di legno gonfie d’umidità, tegole spaccate, una lanterna di pietra sbrecciata accanto all’ingresso.
Il muschio aveva divorato ogni contorno, come se la natura volesse reclamare ciò che l’uomo aveva dimenticato.

Dietro, il giardino zen.
Non era il giardino che ricordava da bambino.
Le pietre erano sparse, la ghiaia disegnata in trame spezzate, il silenzio troppo fitto per sembrare abbandono.
E al centro, una piccola statua di Jizō con una sciarpa rossa scolorita.

Yuta si fermò.
Un brivido lo attraversò, sottile come una lama.
Non sapeva se fosse malinconia o un avvertimento.

Quella notte, mentre la casa respirava antichi scricchiolii, Yuta capì che il vero viaggio non sarebbe stato di ritorno.
Ma verso qualcosa che non sapeva ancora nominare.

Capitolo 1 – Il primo sussurro

La notte scese come un velo di inchiostro, inghiottendo ogni dettaglio del giardino.
Yuta non riusciva a dormire.
Il futon era freddo, impregnato di quell’odore di legno antico e polvere che si attacca ai vestiti.

Ogni scricchiolio della casa sembrava un passo.
Ogni respiro del vento, una voce.

Poi accadde.

Un suono metallico, lungo, ripetuto: clic… clac…
Non forte. Ma insistente.
Come il rastrello di un giardiniere che lavorava nella notte.

Il cuore gli salì in gola.
Si alzò, con i piedi nudi che sfioravano il tatami gelido, e spinse la porta scorrevole.
L’aria fuori era tagliente.
Il giardino lo attendeva, immobile.

Non c’era nessuno.
Eppure la ghiaia era cambiata.

Cerchi perfetti attorno alla statua di Jizō.
E due impronte piccole, dritte, rivolte verso di lui.

Un odore d’incenso, lieve, impossibile da spiegare.

Yuta restò fermo, incapace di parlare, con il fiato che si condensava nell’aria.
Non era paura, non del tutto.
Era la sensazione che qualcuno lo avesse atteso.

Alle sue spalle, la casa sembrò chiudersi in un silenzio più denso di prima.

Capitolo 2 – Il taccuino

Il giorno seguente fu lungo e torbido.
Il sole filtrava a malapena tra le fronde, gettando lame di luce sul giardino come se volesse dividerlo in zone proibite.
Yuta non parlò con nessuno. Non accese il telefono.
Rimase seduto sul portico, osservando la ghiaia.
Il disegno dei cerchi intorno al Jizō non era casuale: sembrava studiato, armonico, vivo.

Si decise a mettere ordine.
Raccolse i sassi sparsi, rastrellò la ghiaia.
Ogni movimento era lento, come se un gesto affrettato potesse infrangere un equilibrio fragile.
Quando finì, il giardino respirava di nuovo.
Per qualche ora, anche lui.

Ma al calare della sera, la tensione tornò.
Nel magazzino, rovistando tra casse impolverate, trovò un vecchio taccuino avvolto in carta di riso.
Le pagine erano ingiallite, i bordi consumati dall’umidità.
La calligrafia, elegante e dura, era quella di suo padre.

Sfogliò.
Non erano ricordi né pensieri.
Erano osservazioni.
Frasi spezzate, senza commento:

“La statua ha cambiato posizione.”
“Il suono ritorna sempre alle 3:17.”
“Le pietre chiedono.”
“Non bisogna opporsi. Mai.”

Le dita di Yuta tremarono mentre tracciava quelle righe.
Non c’era rabbia in quelle parole.
Solo una devozione inquietante.
Un rituale silenzioso che suo padre aveva seguito… e che ora, inspiegabilmente, aspettava lui.

Fu allora che sentì, chiarissimo, un lieve clic… clac provenire dal giardino.
Ma non erano ancora le 3:17.

Capitolo 3 – Segni

Nei giorni successivi, il tempo smise di scorrere come lo conosceva.
Le ore sembravano sciogliersi in un unico respiro lungo e immobile.

Ogni mattina, il giardino era diverso.
Non completamente. Mai abbastanza da sembrare opera di un uomo.
Solo dettagli: una pietra spostata di qualche centimetro, un nuovo cerchio perfetto che avvolgeva il Jizō, un ramo di pino posato con cura sulla ghiaia.
Come se qualcuno stesse correggendo il suo lavoro.

Dentro la casa non andava meglio.
Una sera trovò la porta del magazzino aperta, nonostante l’avesse chiusa a chiave.
Un’altra, scoprì il taccuino del padre sul tavolo, con una pagina nuova aperta.
Non ricordava di averlo lasciato lì.

E i sogni.
Cominciarono a farsi nitidi.
Nel più ricorrente, lui era bambino, con un rastrello più grande delle sue braccia, mentre qualcuno dietro di lui — che non osava voltarsi a guardare — gli guidava i movimenti.
Al risveglio, l’odore d’incenso lo accompagnava fino alla cucina.

Una mattina, finalmente, si decise: avrebbe fotografato il giardino ogni giorno.
Voleva prove, schemi, una logica.
Eppure, osservando le immagini, si accorse che non era solo la disposizione dei sassi a cambiare.
Era la sensazione.
Ogni foto emanava un umore diverso: serenità, rabbia, malinconia.

Fu allora che si accorse di un altro dettaglio.
Le impronte.
Piccole, dritte, sempre rivolte verso il portico.
Ogni notte erano lì.
E ogni notte, quando si svegliava sudato, aveva la netta sensazione che qualcuno l’avesse guardato dormire.

Capitolo 4 – Lo strappo

Quella notte, Yuta si svegliò prima che l’orologio segnasse le 3:17.
Il corpo sapeva già cosa stava per accadere.
Non un suono, non un fruscio.
Solo un silenzio troppo denso, come l’attimo prima di un temporale.

Scese nel giardino.
Il Jizō lo attendeva al centro, avvolto da cerchi di ghiaia che non aveva fatto lui.
Il volto della statua, consunto dal tempo, sembrava osservare ogni suo passo.

Yuta sentì un fremito di rabbia.
Non voleva vivere così. Non voleva essere prigioniero di un luogo che non capiva.
Rastrellare, aspettare, obbedire.
No.

Afferrò la statua con entrambe le mani.
Era più pesante di quanto sembrasse.
Il freddo della pietra gli bruciò la pelle, come se avesse toccato un corpo vivo.
Con uno sforzo, la sollevò e la trascinò fino al magazzino.
La sciarpa rossa, sfilandosi, cadde a terra come un fiore morto.

Chiuse la porta.
Bloccò l’ingresso con una trave di legno.
Si fermò ad ascoltare.
Nulla.

Rientrò.
Non ci fu alcun suono quella notte.
Nessun clic… clac. Nessun vento.
Solo un vuoto che non somigliava alla pace.

Quando l’orologio segnò le 3:17, la finestra della sua stanza si spalancò da sola.
Un colpo secco, come uno schiaffo.
Un odore intenso d’incenso lo avvolse, soffocante.

Uscì di corsa.
Il giardino era tornato perfetto.
La statua era di nuovo al centro, intatta.
Ma la sciarpa rossa non era più scolorita.
Era nuova, viva, profumata come appena offerta in un tempio.

Yuta sentì che il suo cuore stava cedendo.
Il messaggio era chiaro.
Non era lui a dare forma al giardino.
Il giardino dava forma a lui.

Capitolo 5 – La scelta

Il giorno dopo, Yuta non aprì il portone.
Non guardò il giardino.
Restò seduto nel buio della stanza, le mani intrecciate davanti al volto, mentre la mente rimbalzava tra due possibilità: fuggire o restare.

Tokyo lo chiamava con la voce del cemento: frenetica, impersonale, sicura.
Una vita ordinaria, fatta di scadenze, rumori di traffico e sonni senza sogni.
Eppure, ogni volta che cercava di immaginare il ritorno, una fitta gli attraversava il petto, come se stesse tradendo qualcosa che non riusciva a nominare.

Il giardino, invece, lo tratteneva con il suo silenzio.
Un silenzio che non era vuoto.
Era presenza.
Ogni pietra, ogni cerchio di ghiaia, ogni filo d’erba sembrava sussurrargli che lì esisteva ancora un dialogo interrotto, un rituale incompiuto.

Ma restare significava consegnarsi a quell’enigma.
Accettare che la casa, il giardino, quella presenza che lo osservava ogni notte fossero parte di lui.
E forse non lasciarlo più andare.

All’improvviso pensò a suo padre.
Non come ricordo sbiadito, ma come uomo: solo, inginocchiato in quel giardino per anni, a disegnare cerchi nella ghiaia che nessuno avrebbe visto.
Un uomo che aveva scelto di restare.
Era follia? O una forma di pace che lui non poteva ancora capire?

Quando la notte cadde, Yuta si ritrovò sul portico, senza ricordare di aver deciso di uscire.
Il vento era tiepido.
Il giardino lo aspettava, immobile e perfetto.
Le mani gli tremavano, ma non di paura.

Sapeva che una decisione stava maturando.
E che non sarebbe più stato lo stesso, qualunque fosse.

 

Lascia una risposta

error: Content is protected !!