Le notti di Kyoto

Le lacrime di Komachi

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«Serata bellissima. Buonanotte, Aya, e ancora auguri, Nao-chan!» disse il signor Okabe, lasciando per ultimo la taverna e portando con sé qualcosa da sgranocchiare durante il suo turno di guardia notturna.
Quella sera avevano festeggiato il ventunesimo compleanno di Nao. Aya aveva organizzato tutto: dalla torta — a forma di Pikachu dei Pokémon — agli inviti per i clienti abituali, raccomandando loro di partecipare. Era stata una bella serata, durante la quale non erano mancate neppure alcune lacrime sul volto di Nao che, una volta svuotatosi il locale, non smetteva più di abbracciare e ringraziare Aya.
«Smettila, che poi fai piangere anche me.»
«Ti aiuto a sistemare il locale» disse la festeggiata, già pronta a sparecchiare i tavoli.
«No, questa sera no. Ci penso io. Tu vai a riposare: domani devi andare a Yoshino dai tuoi genitori per la seconda festa di compleanno!»
Nao era infatti originaria di quella città. L’anno precedente aveva portato Aya a vedere sul Monte Yoshino la fioritura dei ciliegi: migliaia di alberi in fiore. Era stato uno spettacolo meraviglioso, tanto che perfino Yoru lo aveva apprezzato, accompagnandolo — come sempre — con qualche snack.
Dopo aver sistemato la taverna e aver chiuso, Aya si mise un giubbotto e, insieme a Yoru, decise di fare una passeggiata lungo un percorso leggermente diverso dal solito, che comunque l’avrebbe condotta a casa senza problemi.

Era una splendida nottata: la luna piena sembrava osservarla, e Yoru guardava incantato quel disco d’argento che illuminava la via.
Passeggiando e osservando le case, Aya notò che regnava la quiete: erano ormai le due di notte, e la maggior parte delle famiglie era già immersa nel mondo dei sogni, tranne qualche nottambulo e, naturalmente, persone come il signor Okabe, impegnate nel lavoro.
Passando accanto a un piccolo parco, dove di giorno la gente si rifugiava all’ombra degli alti cedri per ripararsi dal caldo, notò che Yoru stava assumendo un comportamento strano.
«Che c’è, Yoru? Senti la primavera, come questa mattina?»
Il gatto la guardò pensieroso e ripensò a quella gattina di nome Mimì. L’avrebbe più rivista?
Mentre era immerso in questi malinconici pensieri, fu attratto da una macchia bianca, poco distante da lui, e si fermò di colpo.
«Miao!» miagolò con forza, costringendo Aya a fermarsi e a osservare quella macchia bianca che, come capirono entrambi, era in realtà un gatto. O meglio, una gatta: bianca come la neve, con due occhi davvero particolari, uno verde e uno blu.
Yoru, in un istante, dimenticò Mimì e si avvicinò a quella gattina così affascinante. Lei fece altrettanto, salutandolo con un soave miagolio.

Aya si avvicinò, ma la nuova amica di Yoru rimase impassibile. Aya allungò la mano per carezzarla, ma quando cercò di toccarla si rese conto che quella adorabile gattina era impalpabile, quasi fosse fatta d’aria.
L’unica cosa che sentì fu un singolare calore attraversarle la mano.
Yoru si paralizzò e, come la sua padrona, comprese che quella creatura era un piccolo fantasma a quattro zampe.
Per un momento infinito, ci fu solo il silenzio. I due gatti si fissarono negli occhi, sotto lo sguardo di Aya, che riuscì solo a sussurrare:
«Questa poi…»
Il silenzio fu rotto da una voce femminile. Una voce bella, soave, musicale:
«Kaoru, Kaoru, dove sei?»
La gatta distolse lo sguardo da Yoru e si voltò verso un cespuglio a pochi passi da lei, da cui proveniva quella voce.

«Così ti chiami, Kaoru!» disse Aya incuriosita. «Beh, perché non mi porti dalla tua padroncina?»
La gatta, come se avesse capito le sue parole, miagolò e, con un cenno del muso, invitò Aya e Yoru a seguirla, zampettando verso il cespuglio.
Dietro di esso, seduta su una roccia, vi era una donna bellissima. I suoi lunghissimi capelli neri scendevano fino a terra, e indossava un elegantissimo jūnihitoe completamente bianco: l’abito cerimoniale delle dame di corte del periodo Heian, uno dei più raffinati della storia del Giappone.
La gatta corse verso la donna e le saltò in braccio. Tra loro, evidentemente, il contatto era possibile.
La dama era un fantasma e, come la gattina, emanava una candida luce.
«Buonasera, signora…» approcciò timidamente Aya.
«Buonasera, Aya-chan» rispose la dama con grazia. Anche lei conosceva il suo nome. Aya ormai non si stupiva più di essere riconosciuta da spiriti, yōkai ed esseri soprannaturali — anche se non era sicura che fosse del tutto positivo.
«Con chi ho il piacere di parlare?»
«Il piacere è mio, credimi. Non è facile incontrare persone così gentili come te e il tuo gatto… e che soprattutto non fuggano spaventate» rispose la dama, sorridendo. «Il mio nome è Komachi, anche se forse mi conosci meglio come Ono-no-Komachi…»
Aya rimase di sasso. Davanti a lei c’era nientemeno che una delle poetesse più importanti del Giappone, annoverata tra i Rokkasen, i sei grandi poeti della tradizione waka, l’antica poesia giapponese. Ed era davvero bellissima, come narravano le leggende.

«Su, non essere timida, Aya. Non vuoi sapere perché mi trovo qui con la mia Kaoru?»
«Beh, sì! Mi capita spesso di fare strani incontri notturni, ma non mi era mai successo di trovarmi di fronte a una persona così… famosa.»
«Famosa? Che divertente. Grazie, cara, ma non formalizzarti. E poi guarda: i nostri due gatti stanno facendo amicizia.»
Kaoru era scesa dal grembo di Komachi e stava giocando con Yoru, per quanto fosse loro possibile. Il gatto, infatti, non riusciva a toccarla: ci passava attraverso. Per un attimo Yoru fu preso dalla frustrazione, ma Kaoru era così carina.
«Devi sapere…» continuò Komachi, assumendo un’espressione seria e malinconica, «…che spesso vengo qui, nelle notti di luna piena, a ripensare alla mia vita terrena. A ciò che ho fatto. E, soprattutto stanotte, al più grande errore che io abbia mai commesso.»
Aya non disse nulla, ma la dama, percependo la sua curiosità, riprese a parlare.

«In vita ero molto bella, ma anche terribilmente altezzosa. Ero desiderata, amata. Tra i miei spasimanti c’era anche l’imperatore Ninmyō.»
«Facevo penare i miei ammiratori: li lasciavo attendere ore, giorni, prima di concedere loro udienza. Spesso sotto la pioggia, o per notti intere. Sentivo il potere scorrere in me come linfa vitale.»
Aya ascoltava in silenzio. Komachi, a un certo punto, sembrava piangere.
«Poi venne un uomo, Fukakusa no Shōshō. Guerriero dell’imperatore, bello, coraggioso, forte. Mi piacque subito. Lo desideravo come non avevo mai desiderato nessuno.»
«Ma la mia arroganza ebbe il sopravvento. Gli promisi che, se fosse venuto a trovarmi per cento notti consecutive, avrei accettato il suo amore. Lui lo fece. Oh, se lo fece…»
Una lacrima d’argento le solcò il viso, cadde sull’erba e fu rapita dalla luce della luna.
«Shōshō affrontò pioggia, vento, neve. Evitava persino di nutrirsi, preso dal desiderio di compiacermi. Lo attesi per notti intere. Ma la centesima notte non giunse mai.
Scoprii solo al mattino che, dopo la novantanovesima notte, era morto. Seppellito sotto una coltre di neve, davanti alla mia casa.»
Silenzio. Aya rabbrividì e si strinse nel giubbotto, alzando il colletto. Yoru si accoccolò ai suoi piedi.

«Mi disperai, ma inutilmente. Quell’amore era finito, caduto come fiori di ciliegio. Iniziò il mio inverno. Fui allontanata dalla corte e finii i miei giorni nella povertà, tormentata dai fantasmi che io stessa avevo creato. Solo Kaoru mi diede sollievo, prima della fine. Apparve in un mattino di fine primavera e rimase con me per sempre — anche dopo la morte, come puoi vedere.»
«Credo che lei sia un dono degli dèi…»
Aya guardò con tristezza la bellissima dama e provò per lei una profonda compassione. Un pensiero le attraversò la mente: “Forse c’è ancora speranza per Komachi.”
«Sono felice di averla incontrata, Komachi-sama.» disse, con sincero rispetto.
«Ed io di aver incontrato te, fanciulla dagli occhi verdi. Ricorda: nulla accade per caso nell’universo. Questo nostro incontro ha un significato, anche se al momento mi sfugge. Ci rivedremo.»
Kaoru si avvicinò a Yoru, miagolando dolcemente, e il gatto sospirò. Anche loro si sarebbero rivisti.
Così, com’erano apparse, le due sparirono, trasformandosi in luci che la luna — coi suoi raggi — rapì e portò via con sé.
«Come stai, Yoru?» chiese Aya al suo gatto, che osservava la luna con tristezza, mentre gli occhi, uno verde e uno azzurro, di Kaoru, danzavano ancora nella sua mente.

“Uffa, solo gatte difficili o impossibili!” pensò, tornando con la mente alla più “terrena” Mimì, che sperava di incontrare ancora.
«È ora di tornare a casa. Sono davvero stanca, ed è quasi l’alba. Mamma e papà saranno in pensiero.»
«Miao!» rispose Yoru, mentre — come trasportata da un alito di vento — alla ragazza dagli occhi verdi e al suo fedele gatto sembrò di udire un’antica poesia…

思ひつつ寝ればや夢のうつつにて
見えぬものをば見るもの思ふ

Omoi tsutsu nureba ya yume no utsutsu nite
Mienu mono o ba miru mono omou

Pensando a te, mi addormento e, nel sogno confuso,
vedo ciò che nella veglia non posso vedere.

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