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“Il canto del corvo bianco: un racconto tra guerra, kami e destino nel Giappone Sengoku”

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Il canto del corvo bianco

Anno 1573, provincia di Ōmi – Giappone in guerra (Periodo Sengoku)

La neve cadeva senza rumore, coprendo i campi abbandonati come un sudario.
Da mesi nessuno coltivava le risaie: le guerre tra clan avevano svuotato villaggi e riempito le strade di cenere. Le case erano gusci anneriti, e i templi – un tempo rifugi sicuri – ora custodivano solo preghiere interrotte.

Sulle alture, un vecchio castello bruciava ancora a metà, come una ferita che non vuole chiudersi.

Aya lo osservava da lontano, avvolta in un kimono di lino troppo sottile per l’inverno. Non ricordava più quante volte aveva pianto per quel luogo, né quante volte aveva promesso di non tornare. Ma era sempre lì, davanti a quella collina spoglia, con il cuore stretto come la mano che le premeva contro il petto.

Poi lo vide.
Come ogni sera, il corvo bianco era lì, immobile sul ramo più alto del vecchio biancospino. Nessun altro uccello osava avvicinarsi.

Aya lo chiamava Shirokarasu, corvo bianco, e gli parlava a bassa voce, come si fa con gli spiriti. Dicevano che fosse un kami venuto a vegliare sulle rovine del castello. Lei non sapeva se crederci, ma in quel silenzio che gelava il sangue, era l’unico segno che il cielo non l’avesse dimenticata.

Quando il corvo gracchiò, il suono parve un presagio.

Aya si voltò di scatto: dietro di lei, una figura in armatura avanzava lenta nella neve. Il pennacchio dell’elmo era spezzato, e la spada al fianco macchiata di sangue rappreso.
Un samurai. Vivo.

E forse, un messaggero del destino.

 

Capitolo 1 – Il messaggero nella neve

Il vento portava con sé odore di ferro e di cenere.
Aya rimase immobile, mentre la figura avanzava nella neve, i passi lenti e pesanti come se ogni movimento fosse una ferita. Non era uno di quei predoni senza volto che saccheggiavano i villaggi: la sua armatura, per quanto scheggiata, portava ancora l’emblema di un clan.

Il samurai si fermò a tre passi da lei. Il fiato usciva in nuvole dense dal suo elmo semiaperto, e il rumore del respiro sembrava il ruggito lontano di un animale stanco. Aya abbassò lo sguardo, come le era stato insegnato a fare: alle donne dei villaggi non era concesso guardare in faccia i guerrieri. Ma sentiva su di sé il peso di quegli occhi nascosti.

«Tu sei del villaggio ai piedi del castello?»
La voce era roca, ma non aveva il tono di un nemico.

Aya annuì appena. Non si fidava a parlare: in tempi di guerra, anche le domande più semplici potevano essere trappole.

Il samurai estrasse qualcosa dall’armatura: un rotolo di carta legato con un filo cremisi. Lo porse verso di lei, senza un tremito.

«Questo deve arrivare al monaco del tempio di Sanpō-ji.»
Non era una richiesta. Era un ordine.

Aya sentì il gelo risalirle le braccia. Nessuno andava più a Sanpō-ji. Il tempio era oltre il passo delle Tre Pietre, territorio conteso da bande di ronin. Si diceva che i corpi dei viandanti uccisi venissero gettati nei burroni senza sepoltura.

«Non… non posso…» mormorò, la voce appena un soffio.

Il samurai abbassò il capo, fissandola dal buio dell’elmo. Poi, come se leggesse il suo terrore, aggiunse:
«Se non lo farai, moriranno anche gli ultimi rimasti del tuo villaggio.»

Aya spalancò gli occhi.
Era una minaccia? O una promessa?

Dietro di loro, il corvo bianco gracchiò. Aya si voltò: l’uccello aveva spiccato il volo, un bagliore d’argento tra i fiocchi di neve. Volava verso nord, proprio nella direzione del tempio.

Il cuore di Aya batteva forte.
Non sapeva cosa custodisse quel messaggio, né perché un samurai ferito lo affidasse a una contadina. Ma capì una cosa: quella strada non era solo pericolosa.
Era il sentiero del destino.

Capitolo 2 – Il passo delle Tre Pietre

Aya non ricordava quando aveva smesso di sentire le dita dei piedi.
Ogni passo era un morso di ghiaccio, eppure continuava a camminare, stringendo il rotolo di carta sotto il kimono, vicino al cuore. Il samurai le aveva detto solo due cose: il nome del tempio e la direzione. Poi era scomparso nella neve, inghiottito dal silenzio, come se fosse stato solo un sogno.

La strada verso Sanpō-ji era un sentiero che nessuno percorreva più. I rami dei pini piegati dalla neve sfioravano la sua testa come dita troppo lunghe, e i corvi – neri, ordinari – gracchiavano in lontananza. Ma lui non c’era. Il corvo bianco.

Aya si fermò un attimo, voltandosi verso il biancospino che aveva lasciato alle spalle. Vuoto.
Un pensiero le attraversò la mente, rapido come un coltello: “E se non fosse mai esistito?”

Un rumore la fece sobbalzare. Passi? Il vento?
Portò istintivamente una mano al manico del piccolo coltello che portava nascosto nella manica. Non sapeva usarlo, ma in quella solitudine gelida le sembrava l’unico frammento di coraggio che le restava.

Il sole era già basso quando raggiunse il passo delle Tre Pietre.
Tre massi enormi, coperti di muschio e neve, segnavano l’ingresso a un territorio di cui i contadini parlavano solo sottovoce. Dicevano che lì si nascondessero ronin senza padrone, disposti a tagliare la gola a chiunque per un paio di monete.

Aya si inginocchiò davanti ai massi.
Non per pregare – non aveva più preghiere – ma per ascoltare. Era una cosa che sua madre le aveva insegnato: “Quando non sai se andare avanti, ascolta la montagna. Lei ti risponderà.”
Ma la montagna non disse nulla. Solo il sibilo del vento.

Si rialzò.
Fu allora che lo vide: il corvo bianco, posato su uno dei massi, la testa inclinata come se la stesse osservando.
Aya si avvicinò, trattenendo il respiro. L’uccello non volò via.
Un passo. Poi un altro.

«Sei tu che mi stai portando lì, vero?» sussurrò, sentendosi sciocca a parlare a un animale.
Il corvo gracchiò piano, quasi un suono di risposta.

Aya chiuse gli occhi un istante, e poi li riaprì. Il corvo non c’era più.
Ma sotto le sue zampe, lasciando una scia sul manto di neve, c’era un’impronta: una linea sottile che scendeva lungo il sentiero, come un segno da seguire.

Aya inspirò a fondo.
Non sapeva se fosse follia o fede, ma mise il piede su quella traccia e cominciò a scendere dal passo.

Capitolo 3 – L’uomo sul sentiero

Aya sentì il rumore prima di vederlo.
Un passo lento, trascinato, che affondava nella neve. Si irrigidì.
Non era il vento, né l’eco dei suoi stessi movimenti: qualcuno la stava seguendo.

Si voltò di scatto.
Un uomo avanzava lungo il sentiero. La sua figura era piegata in avanti, come se il peso del mondo gli gravasse sulle spalle. Indossava un kimono lacero, macchiato di qualcosa che Aya preferì non riconoscere subito. Un ronin? Un mendicante?

«Buona sera…» disse lui, con voce sottile.
Aya fece un passo indietro. La sua mano andò al piccolo coltello, anche se sapeva che non sarebbe servito.

«Non avere paura.» L’uomo sollevò lentamente il capo.
Aya si sentì gelare: i suoi occhi erano spenti, come se guardassero attraverso di lei.

«Non… non voglio guai» balbettò.

Lui inclinò la testa, un gesto lento, innaturale. «Guai? Qui, non ci sono più guai. Solo neve… e silenzio.»
La frase era uscita come una nenia. Poi fece un passo avanti.

Aya si mosse di lato, pronta a scappare, ma il piede scivolò su una lastra di ghiaccio nascosta. Cadde, il coltello che rotolò lontano.

L’uomo si chinò su di lei, e per un attimo Aya fu certa che avrebbe visto la lama di una spada, o sentito le sue mani sporche stringerle la gola.
Invece, lui si limitò a guardarla. Da vicino, Aya si accorse che il suo volto era giovane. Troppo giovane per avere quello sguardo vuoto.

«Hai visto anche tu il corvo?» sussurrò.

Aya sentì il respiro spezzarsi.
Non ricordava di avergli mai parlato del corvo.

«Se lo segui…» continuò lui, piegando la testa all’indietro in un gesto disarticolato, «…ti porta sempre dallo stesso posto.»

Aya provò a muoversi, ma le gambe non rispondevano. L’uomo si raddrizzò, come ascoltando un suono lontano. Poi, con un passo innaturalmente leggero, sparì tra gli alberi, lasciando solo il sibilo del vento.

Aya rimase lì, il cuore in gola, fino a quando un gracchio familiare non la fece alzare lo sguardo.
Il corvo bianco era sopra di lei, sul ramo più basso di un pino, immobile, a guardarla.

«Cosa vuoi da me?» gridò, la voce che si spezzava.

Il corvo non rispose.
Ma nel silenzio, Aya ebbe la netta sensazione che l’uomo e l’animale fossero legati, come due volti di uno stesso enigma.

 

Capitolo 4 – Le rovine di Sanpō-ji

Quando il sentiero finì, Aya vide il tetto del tempio di Sanpō-ji.
O meglio, quello che ne restava.

La grande porta torii era spezzata a metà, il legno marcito, le campane arrugginite. Il cortile era invaso da erbacce che spuntavano tra la neve, come dita scheletriche che afferrano la terra.
Il tempio, un tempo rifugio dei pellegrini, era ora un relitto di travi nere.

Aya si fermò sul ciglio del sentiero. Ogni istinto le diceva di tornare indietro.
Eppure non riusciva a smettere di fissare quell’edificio distrutto.

Un vento improvviso le sollevò i capelli, portando con sé un suono flebile.
Un tamburo.
Non un suono naturale: un ritmo lento, costante, che batteva come un cuore antico.

Aya strinse il rotolo al petto e avanzò.
Il portale cigolò quando lo oltrepassò, e l’aria all’interno del recinto era più fredda, più densa, come se il tempo stesso si fosse fermato.

«C’è qualcuno?» La sua voce rimbalzò tra le pareti annerite, ma non ebbe risposta.

Fu allora che vide le lanterne.
Non c’era alcuna fiamma, eppure i globi di carta tremolavano come mossi da un respiro invisibile.

Aya si inginocchiò davanti al portico principale. Aveva paura di entrare, ma il corvo bianco era già lì, posato sul cornicione, che la fissava in silenzio.
«Perché mi porti qui?» sussurrò.

Il tamburo tacque di colpo.
Il silenzio che seguì era così assoluto da farle ronzare le orecchie.

Poi, una voce.
Non veniva da fuori, ma da dentro il tempio.
«Entra.»

Aya si alzò di scatto, il cuore che batteva così forte da toglierle il respiro.
La voce non era né maschile né femminile, non giovane né vecchia. Non era una voce umana, eppure parlava una lingua che lei capiva.

Guardò il corvo.
L’uccello spalancò le ali e gracchiò, come a confermare che quella era l’unica strada.

Aya fece un passo avanti. Poi un altro.
Ogni fibra del suo corpo urlava di fuggire, ma lei attraversò la soglia.

L’odore di cenere e incenso le riempì i polmoni. Dentro, la luce era quasi inesistente, ma nel buio riusciva a distinguere qualcosa: un altare, e davanti ad esso, una figura inginocchiata.

Un monaco? Un viandante?
No.
Aya capì che non era vivo ancora prima di rendersene conto.

Capitolo 5 – Il messaggio

Aya non si mosse.
La figura inginocchiata davanti all’altare era immobile, avvolta in un saio monacale bruciacchiato. La testa china, le mani giunte in una preghiera interrotta.
Un monaco. O quello che ne restava.

Il corvo bianco planò silenziosamente e si posò proprio accanto al corpo, come se fosse sempre appartenuto a quel luogo.
Aya sentì le ginocchia cedere.

«Perché mi hai portata qui?» sussurrò, ma non al corvo. Al tempio stesso.

L’eco della sua voce si perse tra le travi annerite.
Poi un fremito. Non fuori, ma dentro di lei.

Aprilo.

Il rotolo.
Le mani tremanti sciolsero il filo cremisi e il foglio si srotolò. Non era un messaggio per il monaco.
Non erano parole di un uomo.

Era un sutra.
Scritture antiche che Aya non sapeva leggere, ma che sembrava comprendere con il cuore: una preghiera per richiamare un kami, un patto scritto con l’inchiostro e il sangue.

Il tamburo riprese, lento, come un battito che cresceva nel petto di Aya.

«Tu sei il messaggero…» disse, rivolta al corvo.
L’uccello gracchiò, inclinando la testa come in un cenno.

All’improvviso, l’aria si fece pesante, vibrante, come quando un temporale sta per esplodere. Le lanterne tremolarono di luce, accendendosi senza fuoco.

Aya sentì una mano invisibile posarsi sulla sua spalla.
Chiuse gli occhi.

Quando li riaprì, il monaco non era più lì.
L’altare era vuoto. Il corvo bianco, sparito.

Rimase solo lei, in ginocchio, con il sutra stretto al petto.
E una certezza che non sapeva spiegare: il messaggio era stato consegnato.

Epilogo – Il canto che resta

Quando Aya tornò al villaggio, la neve aveva smesso di cadere.
Camminò tra le case silenziose, sentendo gli sguardi dei pochi sopravvissuti dietro le porte socchiuse. Nessuno le chiese dove fosse stata. Nessuno avrebbe osato.

Non disse nulla del tempio, né del monaco, né del messaggio.
Solo la sera, davanti al fuoco, ripeté a memoria le parole che non sapeva di sapere, quelle che erano entrate in lei come un seme nella terra: il sutra, sillaba dopo sillaba, finché il suono divenne respiro.

Da quel giorno, il corvo bianco non tornò più al biancospino.
Eppure, ogni volta che Aya chiudeva gli occhi, ne sentiva il canto. Non un gracchiare, ma un suono profondo, antico, che vibrava tra le ossa: un richiamo che non apparteneva né agli uomini né agli uccelli.

Un giorno, camminando di nuovo verso la collina del castello, lo rivide.
Il corvo era lì, sul ramo più alto. Immobile, come la prima volta.

Aya alzò lo sguardo e, per un istante, fu certa che il mondo intero si fosse fermato a respirare con lei.

Quando distolse gli occhi, il corvo non c’era più.
Ma qualcosa le diceva che non se n’era mai andato davvero.

Perché certi messaggi non si leggono, né si consegnano.

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