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L’estetica dell’eleganza: la bellezza femminile nel Giappone dell’epoca Edo

La Carrozza Imperiale di Kitagawa Utamaro

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L’estetica dell’eleganza: la bellezza femminile nel Giappone dell’epoca Edo

Introduzione: un’epoca di stabilità e codici estetici

L’epoca Edo (1603-1868), inaugurata dallo shogunato Tokugawa, rappresenta uno dei periodi più lunghi di pace e stabilità politica della storia giapponese. Dopo secoli di guerre civili e lotte tra daimyō, la nazione conobbe più di due secoli senza conflitti su larga scala. In questo contesto, l’energia sociale e culturale si concentrò su altri aspetti della vita quotidiana: l’arte, il teatro, la letteratura, e soprattutto l’estetica.

La bellezza femminile, lungi dall’essere soltanto un fatto privato, divenne un linguaggio sociale e simbolico. Ogni dettaglio – dal colore della pelle alle acconciature, dal trucco alle decorazioni – non comunicava soltanto un ideale estetico, ma trasmetteva messaggi su status, età, stato civile e persino valori morali.

Le stampe ukiyo-e, i romanzi popolari (gesaku), le guide di moda (hinagata-bon) e i diari delle viaggiatrici occidentali testimoniano quanto la bellezza fosse codificata e rispettata. Non si trattava di un canone immobile: si trasformava con le mode urbane di Edo (odierna Tokyo), Kyoto e Osaka, con la diffusione del quartiere di Yoshiwara e con il ruolo delle geisha e delle cortigiane (oiran).

Un principio, però, restava costante: l’ideale estetico ruotava intorno a tre colori, che non erano semplici pigmenti ma veri e propri pilastri simbolici: il bianco, il rosso e il nero.

La pelle e il trionfo del bianco

Il bianco era il fondamento della bellezza. Una carnagione chiara e priva di imperfezioni rappresentava purezza, delicatezza, ma soprattutto distinzione sociale. Lavorare nei campi, sotto il sole, comportava inevitabilmente l’abbronzatura: per questo la pelle scura era associata alle classi contadine, mentre la pelle candida era un segno inequivocabile di appartenenza a un ceto che poteva permettersi la vita al riparo dal sole.

L’uso dell’oshiroi

Per ottenere questa perfezione lattiginosa si ricorreva all’oshiroi (白粉, letteralmente “polvere bianca”), un cosmetico a base di biacca – carbonato basico di piombo – che veniva mescolato con acqua fino a ottenere una pasta uniforme. Questa veniva stesa su viso, collo e talvolta nuca e petto, lasciando intenzionalmente alcune zone non coperte (come l’attaccatura dei capelli sulla nuca) per creare contrasti sensuali.

Applicare l’oshiroi era un rito che richiedeva tempo, abilità e strumenti specifici: piccoli specchi, pennelli, ciotole per mescolare la polvere. Un errore nella densità della miscela rischiava di rovinare l’effetto, creando crepe o macchie.

Non erano solo le donne comuni a usarlo: anche le geisha, le cortigiane di alto rango e perfino gli attori kabuki vi ricorrevano. L’effetto teatrale di un volto immacolato era considerato indispensabile tanto nella vita mondana quanto sul palcoscenico.

Le conseguenze sulla salute

Oggi sappiamo che il piombo contenuto nell’oshiroi era altamente tossico. L’uso prolungato poteva causare dermatiti, caduta dei capelli, danni renali e neurologici. Fonti mediche dell’epoca Edo, come i trattati di medicina kampō, descrivono casi di malattie della pelle attribuite a pratiche cosmetiche. Eppure, nonostante i rischi, il desiderio di una pelle di porcellana era più forte di ogni preoccupazione.

Questa “ossessione” non era soltanto giapponese: in Europa, nello stesso periodo, si usavano polveri sbiancanti contenenti piombo per ottenere il candore aristocratico. Ciò dimostra come, in diverse culture, il colore della pelle fosse una potente espressione di classe e di distinzione.

Il rosso della vitalità: beni e labbra a bocciolo

Accanto al bianco, il rosso rappresentava giovinezza, salute e sensualità. Veniva impiegato principalmente per le labbra e, in alcune epoche e contesti, anche per guance e palpebre.

Il beni

Il cosmetico più pregiato era il beni (紅), un pigmento ricavato dai petali del cartamo (benibana). La produzione era costosa e complessa: da circa 20.000 fiori si ricavava appena 200 grammi di pigmento. Non sorprende che fosse un lusso riservato a donne benestanti, geisha e cortigiane di rango.

Il beni non veniva applicato su tutta la superficie delle labbra, ma in piccole quantità al centro, creando un effetto di “bocciolo” (kuchibeni no tsubomi). Questo stile, che riduceva visivamente le dimensioni delle labbra, era ritenuto estremamente raffinato e sensuale.

Significati simbolici

Il rosso non era solo un colore estetico: aveva anche valenze apotropaiche e rituali. Nel Giappone premoderno il rosso era associato al sole, alla vita, all’energia vitale (ki). Per questo, il trucco rosso sulle labbra era percepito come un richiamo alla vitalità e alla forza femminile.

Non a caso, i cosmetici rossi venivano usati anche nei rituali matrimoniali: le spose applicavano il beni come simbolo di fertilità e buon auspicio.

Il nero dell’eleganza: ohaguro e hikimayu

Il terzo pilastro dell’estetica femminile era il nero, applicato a elementi specifici: denti e sopracciglia. Due pratiche oggi sorprendenti, ma centrali nell’immaginario Edo: l’ohaguro (お歯黒, annerimento dei denti) e l’hikimayu (sopracciglia ridisegnate).

Ohaguro: il sorriso nero

L’ohaguro consisteva nell’annerire i denti con una mistura di limatura di ferro e aceto, che ossidandosi produceva una lacca nerastra. Questa pratica era diffusa già in epoca Heian (794-1185), ma nell’epoca Edo divenne un segno distintivo delle donne sposate, delle cortigiane di alto rango e dei samurai.

Il significato era duplice: estetico e sociale. Esteticamente, il contrasto tra pelle bianca, labbra rosse e denti neri era considerato seducente e raffinato. Socialmente, rappresentava maturità e fedeltà coniugale: una donna con i denti anneriti comunicava che apparteneva stabilmente al marito e non era più una giovane da maritare.

Curiosamente, l’ohaguro aveva anche benefici pratici: la lacca nera creava una sorta di rivestimento che proteggeva i denti dalla carie, come confermano analisi archeologiche sui resti scheletrici dell’epoca.

Hikimayu: sopracciglia cancellate e ridisegnate

L’altra pratica nera era l’hikimayu: le sopracciglia naturali venivano rasate o strappate, e al loro posto si tracciavano nuove sopracciglia con polvere di inchiostro o carbone. Queste erano spesso sottili, arcuate e posizionate più in alto rispetto alle sopracciglia naturali, conferendo al volto un’aria austera e solenne.

Mentre nell’epoca Heian le sopracciglia ridisegnate assumevano forme quasi circolari e alte sulla fronte (hikimayu maru), nell’epoca Edo si preferivano linee più sottili e naturali. Anche in questo caso, la pratica era legata allo stato civile: veniva adottata soprattutto dalle donne sposate.

Capelli, acconciature e ornamenti

Nihongami: i capelli come scultura vivente

Se la pelle, le labbra e i denti erano il fondamento cromatico della bellezza Edo, i capelli costituivano la sua architettura. Nel Giappone premoderno, i capelli lunghi e lucidi erano un requisito imprescindibile della femminilità: si diceva che una donna con capelli spenti fosse priva di vitalità.

Con l’avvento dell’epoca Edo, le acconciature femminili assunsero forme sempre più elaborate e simboliche, dando vita a uno stile collettivamente noto come nihongami (日本髪, “capelli giapponesi”). Queste pettinature, realizzate con l’ausilio di oli vegetali – soprattutto l’olio di camelia (tsubaki-abura) – trasformavano i capelli in vere e proprie sculture viventi.

Le ciocche venivano tirate, fissate e arrotolate in chignon complessi, modellati con l’aiuto di pettini e forcine. A seconda della posizione, del volume e della forma dello chignon, una pettinatura comunicava età, stato civile o mestiere della donna che la portava.

Taregami e la transizione verso il nihongami

Prima dell’epoca Edo, nel periodo Heian, l’acconciatura femminile per eccellenza era il taregami: capelli lunghi, sciolti e fluenti che scendevano fino a terra, simbolo di grazia aristocratica. Con la nascita di una società urbana più dinamica e la crescente centralità dei quartieri di piacere, i capelli sciolti lasciarono il posto a stili raccolti, più pratici ma anche più decorativi.

Il passaggio dal taregami al nihongami rifletteva il mutamento della società: dalla corte aristocratica Heian alla vibrante e stratificata Edo, dominata da mercanti, artigiani e nuove figure femminili come le geisha e le oiran.

Principali stili di acconciatura

Gli stili nihongami erano numerosi e variavano secondo l’epoca, la regione e la condizione della donna. Alcuni, però, divennero canonici e riconoscibili.

Shimada: lo stile più iconico dell’epoca Edo. Consisteva in uno chignon alto e arrotondato sulla nuca, fissato con pettini e spilloni. Era portato da giovani donne nubili e da geisha, e presentava varianti.

Tsubushi Shimada: variante più “schiacciata” e piatta, adottata da donne mature. Comunicava sobrietà e rispetto.

Momoware (“pesca spaccata”): stile in cui lo chignon veniva diviso da una scanalatura centrale, ricordando la forma di una pesca. Era popolare tra le giovani donne non sposate, simbolo di freschezza e desiderabilità.

Ofuku: variante semplificata dello Shimada, spesso adottata dalle maiko (apprendiste geisha) o dalle giovani spose.

Hyōgo: acconciatura molto elaborata, sviluppata tra le cortigiane di alto rango (tayū e oiran), con grandi chignon sostenuti da numerosi ornamenti.

Le variazioni erano infinite e legate anche al rango: una geisha in formazione non poteva adottare lo stesso stile di una geisha affermata, e un’oiran di medio livello non poteva sfoggiare la stessa complessità di una tayū.

Kanzashi: gli ornamenti come linguaggio

Se l’acconciatura era la struttura, i suoi accessori erano il linguaggio. Gli ornamenti per capelli, noti come kanzashi (簪), erano realizzati in materiali che spaziavano dall’avorio alla tartaruga, dal legno laccato al metallo dorato.

Tipologie di kanzashi

Kushi (櫛): pettini semicircolari, spesso decorati con motivi floreali stagionali.
Kogai (笄): lunghe bacchette infilate nello chignon, simili a fermagli.
Hirauchi kanzashi: spilloni piatti con decorazioni floreali, a volte realizzati in madreperla.
Tama kanzashi: spilloni con terminazione sferica, spesso in corallo o giada.

Questi accessori non erano meri ornamenti: il loro numero, la loro disposizione e i materiali utilizzati comunicavano rango sociale e, nel caso delle cortigiane, persino la tariffa. Una oiran di alto livello portava pettini e spilloni tanto complessi da rendere necessario l’aiuto di assistenti per camminare.

Significati simbolici

Ogni stagione e festività aveva il proprio repertorio iconografico: fiori di ciliegio in primavera, ventagli e libellule in estate, foglie d’acero in autunno, pigne e gru in inverno. Questo rifletteva la profonda connessione tra estetica e natura nella cultura giapponese.

Le geisha e le maiko erano particolarmente attente a questo calendario: cambiare regolarmente i kanzashi era parte della loro educazione estetica, un modo per dimostrare raffinatezza e sensibilità.

Codici sociali delle acconciature

Le acconciature non erano semplici mode, ma veri e propri codici sociali. Nel Giappone Tokugawa, rigidamente stratificato, ogni segno visivo serviva a comunicare identità e posizione.

Età: acconciature più semplici per le adolescenti, più elaborate per le donne adulte.
Stato civile: nubili e spose adottavano stili differenti; lo stesso valeva per le vedove.
Professione: geisha, maiko, cortigiane, mogli di samurai, donne della borghesia mercantile – ognuna aveva stili specifici.
Rango: tra le cortigiane, il numero e la complessità degli ornamenti indicavano il livello gerarchico.

Questi codici erano noti a tutta la popolazione urbana: un passante, osservando una donna in strada, poteva immediatamente dedurre la sua condizione sociale semplicemente guardando la sua acconciatura.

L’assenza di piercing e tatuaggi nel canone Edo

Un aspetto interessante dell’estetica Edo è ciò che non vi compariva. A differenza di molte culture contemporanee, non vi era spazio per piercing o modificazioni corporee nel canone della bellezza femminile di rango. Le uniche pratiche assimilabili alla modificazione erano l’ohaguro e l’hikimayu, entrambe radicate nella tradizione aristocratica.

I tatuaggi (irezumi), invece, avevano un ruolo completamente diverso. In epoca Edo venivano associati principalmente: ai lavoratori manuali (pescatori, pompieri, artigiani), che li usavano come amuleti protettivi o segni di coraggio; ai criminali, sui quali venivano imposti come marchi di punizione (irezumi kei).

Solo nel tardo periodo Edo, sotto l’influenza dell’arte ukiyo-e, i tatuaggi ornamentali iniziarono a diffondersi, ma rimasero perlopiù un fenomeno maschile. Le donne delle classi alte non vi parteciparono quasi mai, poiché avrebbe violato i rigidi codici di decoro.

Arte, società ed eredità culturale

La donna ideale nelle stampe ukiyo-e

Uno dei canali principali attraverso cui l’ideale estetico dell’epoca Edo si diffuse e si consolidò fu l’arte dell’ukiyo-e (浮世絵, “immagini del mondo fluttuante”). Le stampe policrome, prodotte in grande quantità e a basso costo, erano un fenomeno popolare e rappresentavano scene urbane, paesaggi, attori kabuki e soprattutto donne.

Artisti come Kitagawa Utamaro (1753-1806), celebre per i suoi bijin-ga (“immagini di belle donne”), fissarono nell’immaginario collettivo le caratteristiche della femminilità Edo: pelle bianca, labbra rosse a bocciolo, occhi sottili e acconciature elaborate.

Utamaro dipingeva non soltanto cortigiane e geisha, ma anche donne comuni, offrendo uno sguardo intimo sulla quotidianità femminile. Le sue figure, spesso raffinate e sensuali, contribuirono a creare un modello estetico che superava i confini delle classi sociali.

Altri maestri come Suzuki Harunobu, Tōshūsai Sharaku e Utagawa Kunisada consolidarono questo ideale, rendendolo accessibile a un vasto pubblico urbano. In un’epoca in cui la moda cambiava rapidamente, le stampe ukiyo-e svolgevano una funzione simile alle moderne riviste: informavano sulle tendenze e diffondevano modelli di bellezza.

La stratificazione sociale e il corpo come codice

Nell’epoca Tokugawa la società era rigidamente divisa in classi: samurai, contadini, artigiani e mercanti. A queste si aggiungevano figure “esterne” come attori, geisha e cortigiane.

La bellezza femminile diventava un linguaggio che rifletteva questa stratificazione: le mogli dei samurai adottavano uno stile sobrio e austero, coerente con il codice del bushidō e il decoro della classe guerriera. Le mercantesse di città erano tra le principali consumatrici di mode: ricche di denaro ma formalmente di basso rango, cercavano di affermare la propria identità attraverso abiti, acconciature e cosmetici. Le geisha e le cortigiane erano vere icone estetiche, spesso creatrici di tendenza. Il loro aspetto veniva imitato dalle donne comuni, anche se in forme più sobrie.

Ogni dettaglio del corpo – il candore della pelle, il rosso delle labbra, la forma dello chignon – comunicava dunque non solo bellezza, ma appartenenza sociale e morale.

Il ruolo delle geisha e delle oiran

Due figure femminili ebbero un impatto enorme sull’immaginario estetico Edo: le geisha e le oiran. Le geisha, inizialmente assistenti musicali e intrattenitrici, divennero maestre di raffinatezza. Il loro trucco e le loro acconciature erano regolati da norme precise, che scandivano la loro carriera dall’apprendistato (maiko) alla piena maturità artistica. L’eleganza sobria e il senso del ritmo estetico resero le geisha icone di grazia.

Le oiran, cortigiane di alto rango dei quartieri di piacere come Yoshiwara, incarnavano invece un’estetica spettacolare e teatrale. Le loro acconciature monumentali, ornate da decine di kanzashi, richiedevano ore di preparazione. Durante le sfilate (oiran dōchū), la loro bellezza diventava una performance pubblica, un’arte in sé.

Queste due figure, pur appartenendo a mondi diversi, contribuirono entrambe a modellare i codici estetici che si diffusero nella società Edo.

Estetica e natura: un’armonia stagionale

Un tratto distintivo dell’estetica Edo è la sua connessione con la natura e il ritmo delle stagioni. I colori, i motivi decorativi e gli accessori non erano scelti arbitrariamente, ma seguivano un calendario estetico.

In primavera dominavano i fiori di ciliegio (sakura), simbolo di caducità e bellezza effimera. In estate comparivano motivi leggeri come libellule, ventagli, acqua corrente. In autunno erano di moda foglie d’acero e crisantemi. In inverno prevalevano pigne, gru e bambù, segni di resilienza e longevità.

Questo legame con le stagioni non era solo decorativo: rifletteva una visione del mondo in cui l’essere umano era parte di un ciclo naturale e la bellezza stessa era effimera, destinata a mutare e a svanire come i fiori di ciliegio.

Le contraddizioni: estetica e salute

Dietro l’eleganza si nascondevano, tuttavia, contraddizioni significative. L’uso dell’oshiroi avvelenava lentamente chi lo applicava. Le acconciature elaborate, fissate con grandi quantità di olio di camelia, richiedevano giorni senza lavaggi, attirando sporco e parassiti. Alcune donne dormivano con supporti in legno (takamakura) per non rovinare i capelli, rinunciando al comfort.

Questi sacrifici dimostrano quanto l’ideale estetico fosse potente, al punto da prevalere sul benessere individuale. La bellezza era percepita come un dovere sociale e morale, non come una semplice scelta personale.

Declino e trasformazioni nell’era Meiji

Con l’apertura del Giappone all’Occidente (a partire dal 1853 con l’arrivo delle “navi nere” di Perry e dal 1868 con la Restaurazione Meiji), i canoni estetici Edo iniziarono a declinare.

Le nuove élite, desiderose di mostrarsi moderne, adottarono abiti occidentali e ridussero le pratiche tradizionali: L’ohaguro fu ufficialmente vietato nel 1870, perché giudicato barbaro agli occhi occidentali. L’hikimayu cadde in disuso, sostituito dall’uso delle sopracciglia naturali. Le acconciature complesse cedettero il passo a stili più semplici, adatti alla vita moderna.

Eppure, queste pratiche non scomparvero del tutto. Sopravvissero nel teatro kabuki, nelle geisha, nei festival e nell’immaginario artistico, come testimonianza di un’epoca che aveva fatto della bellezza un linguaggio totale.

L’eredità culturale

Oggi l’estetica Edo continua a esercitare fascino. Nelle mostre dedicate all’ukiyo-e, nei quartieri delle geisha di Kyoto, nelle rivisitazioni cinematografiche e persino nella moda contemporanea, riemergono elementi di quell’ideale: la carnagione chiara, le labbra rosse, le acconciature ordinate.

La bellezza Edo ha lasciato tre grandi eredità: Il corpo come linguaggio sociale: l’idea che il modo di presentarsi comunichi identità e appartenenza. Il legame con la natura: la sensibilità stagionale, che ancora oggi caratterizza il gusto giapponese per i dettagli e i colori. Il valore della raffinatezza: la ricerca della grazia attraverso la disciplina e la ritualità.

Conclusione

La bellezza femminile nell’epoca Edo non fu un semplice ornamento, ma un sistema complesso di codici che intrecciavano estetica, società e morale. Il bianco, il rosso e il nero erano più che colori: erano simboli di classe, di maturità, di desiderio. Le acconciature non erano pettinature, ma dichiarazioni d’identità.

Se oggi alcune pratiche possono apparire estreme o persino inquietanti, esse ci ricordano che ogni società costruisce i propri ideali estetici in relazione ai propri valori. L’Edo, con la sua eleganza disciplinata e rituale, ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura giapponese, un’eredità di bellezza che ancora oggi continua a ispirare e a incantare.

Glossario dei termini giapponesi

Nota metodologica

L’articolo è stato redatto con finalità divulgative, basandosi su fonti storiche, letterarie e artistiche di epoca Edo (ukiyo-e, diari di viaggiatori occidentali, trattati di medicina kampō, manuali di moda hinagata-bon) e su studi accademici contemporanei. Le informazioni sono state selezionate e rielaborate in modo accessibile per il lettore, mantenendo il rigore scientifico ma privilegiando chiarezza e narrazione. Alcuni episodi e curiosità sono stati integrati come esempi rappresentativi tratti dalla storiografia e dall’iconografia, senza intenti romanzati. Eventuali interpretazioni proposte rientrano in un approccio critico volto a stimolare ulteriori approfondimenti attraverso la bibliografia indicata.

Bibliografia essenziale

 

Le opere presenti in questo articolo sono dei seguenti maestri:

Kitagawa Utamaro;
Suzuki Harunobu;
Chobunsai Eishi;
Utagawa Toyoku;
Torii Kiyonaga.

 

 

 

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