Site icon Yujo Web Italia

Nel Bosco di Ame-no-Uzume

Reading Time: 8 minutes

Il richiamo della foresta

Quando il treno locale rallentò tra i monti di Kumano, il silenzio si fece denso come nebbia. Le rotaie vibrarono con l’eco di una vita lasciata indietro, e Akiko chiuse gli occhi un istante. Le mani, ancora segnate dai calli della scena, stringevano una piccola valigia color avorio.
Il teatro l’aveva spogliata della voce, poi dei riflettori, infine del respiro. A sessantadue anni, nessuno osava più chiederle di danzare — se non i sogni, dove ogni notte il suolo si apriva e la trascinava in una radura dai contorni incerti, tra tamburi invisibili e risate di bambine.
L’aria della stazione odorava di legna umida e muschio. Era tornata.

Il villaggio di Minase, appena accennato su vecchie mappe, sonnecchiava a pochi passi da un bosco sacro. Là, raccontavano i vecchi, la dea Ame-no-Uzume aveva danzato nuda per ridare luce al mondo.
Akiko non cercava miracoli. Cercava silenzio. O forse un confine sottile tra il visibile e l’invisibile, tra la donna che era stata e qualcosa di più antico.

E il bosco — quel bosco — sembrava attenderla.

Il sentiero delle pietre mute

Il mattino si insinuava tra le tegole nere come un respiro trattenuto. Akiko indossò un kimono semplice, lino grezzo color sabbia. Non lo portava per bellezza, ma per rispetto: verso la terra che stava per calpestare, verso se stessa.
Aveva lasciato il cellulare spento sul tatami e annotato solo poche righe su un taccuino:
“Bosco. Piedi scalzi. Ricordare.”
Attraversò il ponte di pietra sopra il fiume Tenji, dove l’acqua scorreva con lentezza cerimoniale, come se sapesse che ogni cosa ha un ritmo sacro. Nessuno in vista. Solo il canto frusciante dei cipressi, e l’abbaiare lontano di un cane invisibile.
Il sentiero iniziava lì, dietro un torii annerito dal tempo. Nessun cartello, nessuna mappa. Solo un’ombra tra i rami e un profumo indefinibile — incenso? legno di hinoki? pelle umana bagnata di rugiada?
I suoi piedi nudi trovarono presto le pietre, levigate, fredde, umide. Ogni passo era un dialogo: tra il suo corpo e la terra, tra il respiro e ciò che non si vede.
Le pietre sembravano disposte con ordine, ma senza logica umana. Alcune sembravano affiorare da sé, come se il bosco le avesse partorite una a una. Altre erano scheggiate, consumate, fuse con le radici.
Un tempo, suo nonno le chiamava ishikoro no kotoba — le “parole delle pietre”. Diceva che chi sapeva ascoltarle, avrebbe compreso le ferite della terra.
Dopo un’ora di cammino, il bosco cambiò respiro. Le fronde si aprirono in un piccolo spazio circolare, dove la luce cadeva obliqua come in un teatro antico. Al centro, un ceppo d’albero coperto di muschio.
Non era una radura: era un palcoscenico.
Akiko si fermò.
Il cuore rallentò.
Il vento — fino ad allora solo un sussurro — soffiò deciso, sollevando l’orlo del kimono e i capelli ormai argentati.
Poi, il suono. Debole. Ritmico.
Un tamburo lontano, che nessuna mano sembrava suonare.
Akiko chiuse gli occhi.
E danzò.
Non con grazia. Non con tecnica. Ma con una nudità antica, fatta di tremore e istinto.
Era la sua pelle a ricordare, non la mente.
Ogni gesto nasceva da qualcosa che dormiva dentro di lei da secoli.
Quando si fermò, il tamburo cessò.
Il bosco tacque.
E da qualche parte, tra le foglie, si udì… una risata. Acuta. Infantile. Eppure femminile.
Una risata che le fece rabbrividire la schiena.
Akiko si voltò. Nessuno.
Ma tra le radici del grande cedro, era comparsa una maschera bianca. Volto di donna, sorriso aperto, occhi socchiusi.
La maschera di Ame-no-Uzume.

Il volto che danza

La maschera non c’era più.
Akiko avanzò lenta, quasi temendo di rompere qualcosa. Il muschio sotto i piedi aveva la consistenza del velluto bagnato.
La luce filtrava appena, ma il suo sguardo ormai sapeva distinguere le sfumature del verde, le nervature sottili delle foglie, le crepe nelle cortecce.
Il tronco del cedro sembrava pulsare.
Si chinò. Dove prima non c’era nulla, ora trovò un nodo nel legno — tondeggiante, liscio, come una bocca chiusa da troppo tempo. Attorno, cinque piume candide, disposte a raggiera.
Non le toccò. Non serviva.
Tornò alla radura con passo assorto, il kimono macchiato di umido e polline, le mani ancora tremanti. Nessuno l’avrebbe creduta. Ma qualcosa era accaduto.
Nel piccolo ryokan dove alloggiava, la proprietaria la osservò con rispetto silenzioso. Non le chiese nulla. Le offrì solo un piatto di zenzai caldo e una frase sussurrata:
— “Non tutti vedono il volto. Tu sì.”
Akiko non rispose.
Ma quella notte, mentre la pioggia cadeva lieve sulle gronde, sognò.
Nel sogno, il bosco era una sala da danza, e le fronde scendevano come tende di velluto. C’era musica — flauti, tamburi, campanelli. E una figura: una donna in bianco, il volto coperto da una maschera, i capelli sciolti, neri come inchiostro.
La donna danzava senza muovere i piedi, eppure il suolo si piegava al suo passaggio. Ogni suo gesto accendeva una luce: nel cielo, sulla terra, nei cuori.
Poi si voltò.
E Akiko si vide.
Non era spettatrice. Era specchio.
Il volto della danzatrice — il suo volto — era quello della dea del riso e del principio, Ame-no-Uzume, la prima performer, la prima sciamana, la donna che aveva ridato il sole al mondo con una danza.
Al risveglio, Akiko non aveva paura.
Solo una certezza silenziosa, come un eco che si faceva strada:
“Devi tornare.”
Il giorno dopo, al primo chiarore, scese di nuovo nel bosco.
Questa volta con un solo oggetto: la maschera che, anni prima, aveva indossato per il suo ultimo spettacolo a Kyoto. Non la portava per scena, ma per rito.
Sapeva che non sarebbe stata lei a danzare.
Sarebbe stata la maschera.
E ciò che l’abitava.

Il respiro sotto la corteccia

Il sentiero l’attendeva. Non era cambiato, ma sembrava diverso.
I piedi nudi, ormai abituati alla voce delle pietre, camminavano senza esitazione. Akiko aveva lasciato alle spalle ogni logica, ogni dovere, ogni nome.

La maschera legata alla nuca pesava come un’ombra familiare.
A ogni passo, il bosco pareva rispondere.

Le cicale tacevano al suo passaggio, come se la osservassero. I rami si piegavano appena, con un gesto che non era vento.

Non c’erano animali, né rumori umani. Solo quel battito regolare, lontano, che non era cuore — eppure lo era.
Quando raggiunse la radura, il sole era già alto, ma la luce non filtrava più.

Una nebbia leggera aleggiava appena sopra il terreno, come un velo steso dal respiro degli antenati.

Al centro, la pietra piatta. Ma sul muschio ora giaceva un ramo di sugi intrecciato con fili di riso essiccato — un’offerta.

Chi l’aveva lasciata?

O forse… per chi?
Akiko indossò la maschera.
All’inizio, il mondo si oscurò. I contorni si sciolsero, la profondità si ritrasse.

Ma non era cecità. Era un altro sguardo.

Il corpo rispose subito. Le mani si alzarono, le anche ruotarono lente.

Era danza, ma non era arte.

Era invocazione.
A ogni gesto, la nebbia tremava.

Un’onda invisibile attraversò gli alberi. Le foglie caddero come sospiri.

Qualcosa si stava svegliando.
E allora accadde.
Dalle radici del cedro, si sollevò un respiro.

Akiko lo sentì sulla pelle: umido, caldo, profondo. Come se la terra stessa avesse inspirato per la prima volta.

Il bosco vibrava. Non un rumore. Non un movimento.

Solo presenza.
Poi, una voce.
Non umana. Non udibile.

Eppure limpida, come una parola piantata nella mente:

Ricordi, figlia? Hai danzato con me prima che il tempo fosse tempo.
Le ginocchia le cedettero. Non per paura, ma per riconoscimento.

Qualcosa in lei si apriva. Una memoria oltre la memoria.
La maschera cadde a terra.

Eppure… la danza continuò.
Il corpo non aveva più bisogno di guida.

Era il bosco stesso a muoverla.

La porta invisibile

Quando Akiko aprì gli occhi, la radura era scomparsa.
O meglio: era diventata altro.
Non più il chiaroscuro della foresta di Kumano, ma una luce dorata e diffusa, senza sorgente né ombra.
Tutto era sospeso, eppure vivo: le foglie non avevano peso, i tronchi sembravano fatti di seta intrecciata con vento, e l’aria profumava di sake, fiori di ume e resina antica.
Non si era addormentata. Non stava sognando.
Aveva attraversato.
La maschera era ai suoi piedi, ma ora sembrava diversa. Non più un oggetto scenico: era volto.
E accanto, posato con cura su una pietra piatta, c’era un ventaglio piegato. Legno di paulonia, carta dipinta a mano. La decorazione: un sole che sorge tra le nubi.
Akiko si inginocchiò e lo prese.
La carta era calda. Non come sotto il sole — ma come fosse appena uscita dal palmo di una mano viva.
Un fruscio.
Dal nulla, tra i veli di luce, comparve una figura.
Una donna.
Vestita di bianco, capelli sciolti, piedi scalzi. Sottile e solida al tempo stesso, come una colonna di nebbia.
Non camminava: scorreva. E rideva. Una risata piena, rotonda, che rimbalzava sulle foglie, come per gioco.
Non parlava, ma i suoi occhi — fessure d’ambra liquida — contenevano il giorno e la notte.
Era lei. Ame-no-Uzume.
Non la divinità delle statue, ma la danza fatta carne.
Il primo riso del mondo.
La risata che spezzò il buio.
Si fermò davanti ad Akiko e le fece cenno.
Non un ordine, ma un invito.
Akiko rise a sua volta, quasi senza volerlo. Una risata bassa, adulta, con dentro fatica, silenzi e meraviglia.
E danzarono.
Non c’era ritmo. Non c’erano spettatori.
Solo la memoria del corpo e l’eco di un gesto che non era mai stato dimenticato.
Le mani si alzavano, i fianchi si flettevano, i piedi tracciavano cerchi nel vuoto, e ogni movimento apriva fessure nella luce.
Come se il mondo si piegasse a ogni passo.
Intorno a loro, altri volti cominciarono ad apparire:
donne senza età, uomini con maschere di legno, bambini dai capelli argentati.
Tutti danzavano. Tutti ricordavano.
Akiko sentì la pelle farsi sottile. Il corpo, leggero.
Un attimo ancora, e sarebbe svanita nel flusso.
Ma la dea si fermò. La osservò. E posò la mano sulla sua spalla.
Il tocco non fu calore.
Fu terra.
E Akiko comprese:
“Non è tempo di restare. Ma ora sai dove tornare.”

Dove danzano le ombre

Il mondo si ritrasse come un respiro trattenuto.
Quando Akiko si ritrovò nella radura, il cielo era grigio, l’aria satura d’umidità. Nessuna traccia della luce dorata, né della maschera, né del ventaglio.
Ma qualcosa era rimasto.
I suoi piedi non tremavano più. Il suo corpo — vecchio, segnato — pareva scrollarsi di dosso anni che prima pesavano come macigni.
La pelle non era diversa. Ma ciò che la abitava… sì.
Akiko si sedette sulla pietra piatta, là dove prima era caduta la maschera.
Appoggiò i palmi sul muschio, chiuse gli occhi, e lasciò che il silenzio la riempisse.
Nel buio dietro le palpebre, vedeva ancora i movimenti della dea. Le curve delle braccia, i cerchi dei fianchi, la risata che apriva spiragli nell’invisibile.
Poi, un suono.
Non più tamburo.
Non più voce.
Erano passi.
Dietro di lei.
Si voltò.
Una bambina stava osservandola. Forse otto anni, forse mille.
Portava un ventaglio identico a quello del sogno.
Nel suo volto — pieno, rotondo — brillava una luce antica. Non parlava. Non sorrideva. Ma tendeva il ventaglio verso Akiko.
Akiko allungò le mani. Lo prese.
In quell’istante comprese:
non era un addio. Era un passaggio.
La bambina si voltò e scomparve tra le fronde.
Akiko rimase ancora un po’. Poi si alzò.
Camminò fuori dal bosco con lentezza, lasciando che ogni foglia la salutasse, che ogni pietra la riconoscesse.
Quando arrivò al ponte, il sole stava tramontando.
Il villaggio era immerso nella luce del crepuscolo.
La proprietaria del ryokan la stava aspettando sulla soglia. Non disse nulla. Ma accennò un inchino lieve, appena accennato.
Akiko rispose con lo stesso gesto.
E dentro di sé, sorrise.
Non era più una danzatrice.
Era diventata danza.

La danza che rimane

Due mesi dopo, nella piccola sala comunale di Minase, si tenne una cerimonia inconsueta.
Nessun palco. Nessun biglietto.
Solo una stanza vuota, tatami consumati, luci basse e incenso al cipresso acceso in un angolo.
Akiko non aveva annunciato nulla. Aveva solo lasciato un foglietto scritto a mano al banco del mercato:
“Questa sera. La danza che non si dimentica.”
Quando il primo visitatore entrò, la trovò seduta al centro. Vestiva bianco. Ai piedi, il ventaglio.
Non c’era musica.
Solo il suono delle mani che si aprono, dei piedi che si sollevano, del corpo che non chiede più permesso per esistere.
Non era spettacolo.
Era memoria.
Una bambina tra il pubblico — occhi neri, capelli corti — si avvicinò in silenzio e si sedette. Guardava ogni gesto come fosse un linguaggio che conosceva da sempre.
Alla fine, quando il corpo si fermò e il respiro si fece quieto, fu lei a parlare.
— “Anche io ho visto la signora che ride.”
Akiko sorrise.
Non chiese nulla.
Sapeva già.
Nel villaggio, nessuno parlò mai di quella sera come di uno spettacolo.
Solo come di un momento giusto, accaduto al momento giusto.
E, nel bosco, sul ramo spezzato del grande cedro, una nuova offerta apparve: un ventaglio piegato e cinque piume bianche.
Ogni anno, alla fine dell’estate, qualcuno sentiva una risata tra gli alberi.
Non forte.
Ma piena.
Come la prima luce.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti