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Lacrime di Cedro

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Il Respiro dell’Inverno

Le nevi erano arrivate in silenzio, senza chiedere permesso. A Nikkō, nel cuore del Giappone, l’inverno aveva già cancellato ogni colore dalla montagna: solo il bianco dei sentieri, il grigio delle pietre muschiose e il bruno scuro dei cedri antichi restavano a sorvegliare il tempo.

Kenji camminava piano, il bastone da montagna affondava nella neve fresca con un suono sordo, ritmico. Il piumino pesante copriva un corpo stanco, ma non fragile. Aveva sessantadue anni e negli occhi il riflesso di una perdita recente. Da settimane, nessuna parola usciva dalla sua bocca, e nessuna musica dal suo cuore.

Aveva lasciato Tokyo dopo il funerale del padre. La città, con le sue luci e i suoi schermi, gli sembrava ormai un organismo ostile. Qui, nella penombra del Parco Nazionale di Nikkō, sperava di ritrovare un frammento di silenzio che potesse contenere ancora un dialogo. O almeno un ascolto.

Camminava senza meta, ma con un’urgenza precisa: sentire. Qualcosa. Qualunque cosa.

Fu allora che lo vide: un cedro solitario, isolato dal resto del bosco, la cui corteccia screpolata pareva un volto antico. Una lastra di neve era scivolata via dai suoi rami più alti, rivelando una scritta incisa sul tronco:
「泣く木」 – “L’albero che piange”

Il cuore di Kenji rallentò. Un vento improvviso lo accarezzò come una carezza, e lui, per la prima volta da settimane, posò la mano sul legno e chiuse gli occhi.

Da quel momento, ogni notte iniziò a sognare.

Il primo sogno

La stanza era modesta. Tatami consumati, una stufa a gas che respirava a scatti, e una finestra coperta da un noren azzurro, sbiadito dal tempo. Kenji aveva affittato quella locanda all’ingresso del sentiero dei templi, lontana dai gruppi turistici, lontana da tutto. Solo lui, il freddo, e i cedri giapponesi.

Quella sera, il sonno arrivò presto, senza combattere. Il corpo stanco cedette come neve bagnata sotto il peso di un ricordo, e gli occhi si chiusero.

Nel sogno, non c’era buio. Solo luce azzurra, come quella che precede l’alba, e il suono lento di un tamburo lontano.
Kenji si trovava nel cuore della foresta. Il terreno era umido, ma non freddo. I rami sopra di lui ondeggiavano senza vento, e il cedro era lì. Immobile. Immenso. Diverso.
Le radici si muovevano piano, come dita sottili immerse nella terra. Dalla corteccia sgorgava linfa, ma sembrava acqua: trasparente, vibrante. Lacrime.

Una voce – profonda, senza genere – parlò dentro il suo petto, non nelle orecchie.

“Kenji.”

Il suo nome. Pronunciato come lo faceva suo padre da bambino, prima che la distanza si scavasse tra loro come un fiume tra due sponde.

Non rispose. Ma il cuore, sì. Aveva già iniziato a battere più forte, come se cercasse di ricordare una melodia sepolta dal tempo.

La voce continuò:

“Se vuoi che la tua anima guarisca, ascolta. Ogni notte ti racconterò una storia. Non sono le tue. Ma tutte sono dentro di te.”

Quando si svegliò, il cielo era bianco latte. Il silenzio della montagna era ancora lì, ma qualcosa era cambiato. Sotto il cuscino, una piccola foglia di cedro, fresca, profumata di resina, che la sera prima non c’era.

Il Custode del Ponte

Quella mattina, Kenji si svegliò più leggero. Il corpo indolenzito dalla camminata sembrava aver trovato una tregua, ma il cuore… era inquieto. Non sapeva dire se fosse paura, attesa, o semplice nostalgia. Guardò la foglia lasciata sotto il cuscino: ancora umida, come appena raccolta.

Decise di tornare al cedro. Il sentiero era lo stesso, ma qualcosa nei suoi passi era cambiato. Non c’era più l’urgenza del vuoto, ma il desiderio di tornare a qualcosa che lo stava aspettando.

Lo raggiunse a metà mattina. Nessuno nei dintorni, solo il crepitio lieve della neve che si scioglieva ai piedi dell’albero.

Si fermò. Appoggiò la mano sulla corteccia. Chiuse gli occhi.

Nel sogno, il paesaggio era diverso: la stessa foresta, ma in una stagione passata, piena estate. Il verde era saturo, vivo, e l’aria profumava di aghi e vento.

Kenji si trovava davanti a un vecchio ponte sospeso su un torrente limpido. Sul lato opposto, un uomo lo osservava. Era alto, vestito con un kimono marrone scolorito, e portava un cappello di paglia che ne nascondeva il volto.
Aveva l’aspetto dei monaci itineranti di un’altra epoca, ma non portava nulla con sé. Solo uno tsue, un bastone da pellegrino intagliato.

L’uomo lo salutò con un cenno, poi parlò senza aprire bocca:

“Ogni perdita è un passaggio. Ma non tutti attraversano.”

Kenji si sentì stringere lo stomaco. Il ponte sembrava lungo, instabile, ma la figura dell’uomo era ferma, sicura.

“Ti racconterò di mio padre,” disse il monaco. “Perché in ogni padre, anche nel tuo, si nasconde un bambino ferito.”

Poi tutto scomparve.

Quando si svegliò, Kenji era ancora nel bosco. Ma questa volta non era solo. Ai piedi del cedro, tra la neve, qualcuno aveva lasciato una ciotola di legno. Dentro, dell’acqua limpida e tre petali rossi.

Un’offerta.
Un segno.

E nel vento, il suo nome.

La Voce Spezzata

Quella notte, Kenji non attese il sonno: si lasciò cadere in esso come un sasso nell’acqua. La nebbia del sogno lo accolse subito, morbida e calda come lana d’inverno.

Non era più nella foresta.
Era nella cucina della sua infanzia. Un fuoco ardeva lento nel kotatsu, il tavolo con la coperta, e sua madre stava tagliando le verdure con gesti lenti, armoniosi.
Sul fondo, la porta scorrevole era aperta. Seduto fuori, in silenzio, c’era suo padre.

Aveva quarant’anni, forse meno. I capelli ancora neri, lo sguardo fisso verso il giardino d’inverno, dove cadeva la prima neve. Non parlava. Non si voltava. Solo il suono delle sue dita che tamburellavano sul ginocchio, nervose, quasi impazienti.
Quel gesto. Kenji lo ricordava. Era il gesto che lo spaventava da bambino. Il gesto che veniva sempre prima del silenzio più lungo.

Nel sogno, Kenji provò a parlargli.

— “Otōsan…”

L’uomo non rispose. Ma nel momento stesso in cui lo guardò, Kenji vide qualcosa che non aveva mai visto: paura.

Una paura infantile. Cruda. Nuda.
Non era rabbia. Non era distanza. Era un bambino rimasto lì dentro, troppo piccolo per essere padre, troppo ferito per insegnare l’amore.

All’improvviso, un suono riempì l’aria.
Il tamburo del primo sogno, ma più vicino. Più intimo. Ogni battito vibrava nel petto come una lacrima che non voleva scendere.

“I padri non si confessano con parole,” disse la voce senza volto.
“Ma lasciano semi. Se li pianti, anche il dolore fiorisce.”

Kenji si svegliò con un singhiozzo. Il respiro corto, le mani aggrappate al futon come se stesse afferrando la soglia tra due mondi.

Sul tatami, accanto a lui, una piccola noce di cedro. Intatta. Profumava di resina e memoria.

Uscì dalla stanza. L’alba tingeva il cielo di un grigio perlaceo, e le montagne sembravano respirare con lui.

Per la prima volta da mesi, Kenji pianse.

Non per la morte di suo padre.
Ma per ciò che non avevano mai potuto dirsi.

Il Figlio di Vento

Le giornate scorrevano lente, come rami nel fiume. Kenji ormai dormiva ogni notte con la certezza che il sogno sarebbe tornato. E ogni giorno si recava dal cedro, come fosse un appuntamento segreto.

Quella sera nevicava. I fiocchi cadevano obliqui, illuminati dai fari della locanda, come stelle perse. Kenji sedette sul futon, chiuse gli occhi, e ascoltò il silenzio farsi soglia.

Nel sogno, era vento.

Non aveva corpo, solo occhi. Sorvolava una pianura antica, e sotto di lui un bambino correva scalzo tra le risaie estive. Rideva.
Aveva cinque anni. Kenji lo riconobbe subito. Era suo figlio, Haruki. Ma non come lo aveva visto negli ultimi anni – uomo fatto, distante, pieno di cose da fare.
Era il suo bambino. Quello che un tempo cercava le sue mani.

Nel sogno, il vento cambiò direzione. Portò Kenji dentro una stanza. Haruki ora era un adolescente, seduto al tavolo con le cuffie nelle orecchie. Gli occhi bassi, il volto teso.
Kenji lo osservava, invisibile, e improvvisamente sentì dentro di sé la voce che un tempo non aveva avuto il coraggio di pronunciare:

“Perdonami se non ti ho ascoltato.”

La scena cambiò di nuovo. Ora Haruki era adulto, seduto su un aereo, con la fronte contro il finestrino e un’espressione dura, lontana.
Una valigia accanto. Un viaggio mai condiviso.
Un padre assente, forse, nel momento in cui contava di più.

La voce del cedro arrivò come un sussurro tra le foglie:

“I figli non cercano padri perfetti. Cercano padri che ritornano.”

Poi, come un soffio che passa tra le tende di carta, una sensazione calda attraversò il petto di Kenji. Non era colpa. Era desiderio. Di tornare. Di dire. Di esserci.

Si svegliò con un respiro profondo, il viso rigato da lacrime silenziose.
Accanto al futon, quella notte, non c’era nessun oggetto. Solo la finestra socchiusa, e un piccolo pezzo di carta portato dal vento.

Lo raccolse.

Era una foto. Vecchia. Sua e di Haruki, in cima al monte Tsukuba, vent’anni prima. Sorridenti. Uniti. Un giorno che aveva dimenticato.

O forse, che il cedro gli aveva restituito.

La Radice e il Fuoco

Il mattino successivo, Kenji camminò nel bosco come chi sa dove sta andando. Le gambe erano stanche, ma il cuore – finalmente – aveva ritmo.

Il cedro lo attendeva. Immobile. Maestoso. Lo riconobbe subito, anche se qualcosa era cambiato: attorno al tronco, il bianco della neve si era sciolto in un cerchio perfetto. Terra viva. Nuda. Come fosse primavera.

Kenji si inginocchiò, posò le mani sul terreno umido e abbassò la fronte contro la corteccia. Non c’era nulla da dire. Solo ascoltare.

Nel sogno, tornò l’inverno. Ma non era freddo. Era silenzio puro.

Il cedro ora parlava con immagini. Kenji si vide vecchio, seduto accanto a un camino. Haruki accanto a lui, con in braccio un bambino. Suo nipote.

Nessuna parola, solo gesti. Mani che versano tè. Occhi che si cercano. Piccoli sorrisi. Lentezza. Presenza.

Poi il sogno si fece cenere. Tutto svanì, ma restò il calore. Dentro. Radicato.

Un’ultima voce, calma, definitiva:

“Ora puoi tornare.”

Kenji si svegliò poco prima dell’alba. Si vestì, preparò lo zaino e tornò al cedro un’ultima volta. Portava con sé una piccola campana di bronzo, dono di suo padre tanti anni prima. La posò tra le radici, accanto alla ciotola d’acqua ormai ghiacciata.

Si inchinò profondamente.

Nel cielo, il primo bagliore dell’aurora scioglieva l’ultima stella.

Epilogo – Semi di silenzio

Era tornato a Tokyo. Lo stesso appartamento, le stesse strade. Ma Kenji non era più l’uomo che l’aveva lasciato.

Non parlava molto del tempo passato a Nikkō. Solo quando qualcuno gli chiedeva come stava, rispondeva con una frase semplice:

— “Ho camminato con gli alberi.”

Sul suo balcone, ora c’era un vaso grande, di terracotta grezza. Dentro, un piccolo cedro. Appena nato. Era stato difficile ottenere un seme fertile, ma aveva atteso. Aveva innaffiato. Aveva creduto.

Un giorno d’inverno, mentre sistemava la terra, ricevette un messaggio da Haruki.

Papà, il piccolo è nato ieri. Ti va di venire a conoscerlo?

Kenji rimase fermo per qualche secondo. Poi sorrise.

Scese lentamente le scale.
Il vento soffiava piano tra i palazzi. In un angolo del marciapiede, una foglia di cedro volteggiava nell’aria come se sapesse dove andare.

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