Site icon Yujo Web Italia

Tanabata: la leggenda della miko e il temporale che non venne

Reading Time: 7 minutes

Sotto il cielo che non decide

La città di Kurashiki dormiva lenta sotto un cielo incerto. Era il 6 luglio, e le nuvole gonfie che si addensavano sui tetti antichi sembravano trattenere il respiro. Le cicale cantavano come sempre, instancabili, ma ogni tanto il loro coro veniva spezzato da un tuono lontano, più simile a un brontolio trattenuto che a un avviso.

Nel cortile del piccolo santuario di Hoshigami, la brezza muoveva i rami del bambù decorati con tanzaku colorati — i biglietti dei desideri appesi dai visitatori per il Tanabata, la festa delle stelle. Rosa, azzurri, gialli, verdi: vibravano leggeri, alcuni già inzuppati d’umidità, come se le speranze scritte sopra stessero già sbiadendo prima ancora di poter salire in cielo.

Da dietro la struttura del haiden, la sala delle offerte, una figura minuta si chinava lentamente per rialzare un biglietto caduto. Indossava un hakama color cremisi, la blusa bianca rigida chiusa al collo con un nodo semplice, e portava i capelli raccolti in una treccia stretta, lucida come inchiostro fresco. Non aveva più di ventidue anni.

Il biglietto caduto era azzurro chiaro. Scritto con una calligrafia elegante, quasi antica, diceva solo:

“Fermare la pioggia per un solo incontro.”

Perfetto. Procedo con il Capitolo 1 del racconto “La miko e il temporale del Tanabata”, facendo in modo che la suspense inizi a salire in modo sottile ma crescente.

Il biglietto senza ombra

Il bambù ondeggiava ancora sotto le raffiche improvvise del vento. Akari osservava il biglietto azzurro tra le dita: il bordo era sottile come carta d’acqua, e leggermente strappato in alto a destra, come se fosse stato staccato con urgenza. Lo girò. Nessuna firma. Nessun disegno. Solo quella frase: “Fermare la pioggia per un solo incontro.”

Avrebbe potuto essere il desiderio malinconico di un’anziana signora in kimono, di un ragazzo romantico, o di un turista straniero affascinato dalla leggenda di Orihime e Hikoboshi. Avrebbe potuto — ma non lo era. Akari lo capì per il modo in cui quel biglietto era arrivato.

Non era scritto con penna a sfera né pennarello, ma con inchiostro naturale. Lo riconobbe dal tratto leggermente irregolare, come se chi l’aveva scritto avesse usato un pennello. E l’ideogramma usato per “pioggia” — 雨 — non era moderno. Era in stile tensho, quello antico, da sutra.

Fece scorrere lo sguardo lungo la fila dei desideri. I biglietti appesi si muovevano al ritmo del vento, ma nessuno sembrava mancare. Quello che teneva in mano, però, non apparteneva a nessun ramo.

Fece un passo indietro. Guardò il santuario.

Il cortile era vuoto. Il tempo — umido, appiccicoso, sospeso — sembrava trattenere qualcosa. Anche le cicale avevano smesso di cantare.

Con la stessa lentezza con cui si prepara un gesto importante, Akari si avvicinò all’interno del haiden. Fece scorrere la porta in legno. Entrò.

All’interno, la penombra odorava di incenso e carta antica. Il pavimento in legno gemeva sotto i suoi piedi nudi.

Sul piccolo altare, accanto alla statua di legno del kami delle stelle, una seconda copia del biglietto era posata sopra una ciotola d’acqua per le offerte. Era la stessa calligrafia, la stessa frase. Solo che questa versione… brillava leggermente, come se fosse stata scritta poco prima.

Akari si voltò di scatto. Ma il tempio era vuoto. Vuoto — o semplicemente in attesa.


Lei restò immobile per un istante. Poi alzò lo sguardo verso il cielo, che in quel momento sembrava guardarla indietro.

La libellula fuori stagione

Il rumore arrivò prima del lampo.

Non un tuono, ma un colpo secco, come di qualcosa che cadeva sul tetto. Poi un altro. Akari uscì dal haiden con passo rapido, le mani ancora strette attorno al biglietto. Il cielo era diventato più basso, grigio di piombo. La luce sembrava filtrata da carta di riso spessa, opaca.

La prima goccia d’acqua le cadde sulla fronte. Era gelida.

Voltandosi verso il sentiero d’ingresso, vide qualcosa di impossibile.

Una libellula blu, grande quanto la sua mano aperta, immobile a mezz’aria davanti alla lanterna in pietra. Le ali sottili vibravano senza muoversi. Era troppo tardi per le libellule: luglio avanzato, troppe piogge, troppa umidità. Eppure quella restava lì, sospesa, come se osservasse.

Akari si bloccò.

Era cresciuta in quel santuario, figlia della custode precedente, abituata a leggere i segni. Ma ciò che colpì non fu l’insetto — fu il fatto che dietro di lui, nell’aria pesante e ferma, non si rifletteva nulla. Nessuna ombra. Nessun riflesso, nemmeno sulla pozzanghera che si stava formando sotto la lanterna.

La libellula si sollevò di un battito e volò verso il bosco, tracciando una traiettoria precisa, lenta. Akari, come attirata da un filo invisibile, la seguì.

Superò il torii d’ingresso, scese il piccolo sentiero di pietra bagnata che portava alla sorgente. I passi divennero più incerti, scivolosi, finché si trovò davanti alla pietra dell’eco, un antico masso coperto di muschio che i pellegrini usavano per sussurrare desideri al kami dell’acqua.

La libellula si posò esattamente al centro. Si piegò su un’ala, poi sparì — dentro la pietra.

Akari restò senza respiro.

Sulla superficie ancora bagnata, qualcuno aveva inciso, di recente, una frase:

“Se il cielo piange, tu ricordami.”



Le parole erano fresche. L’inchiostro, se inchiostro era, non si era sciolto con la pioggia.

Akari avvertì il nodo. Quel biglietto azzurro non era un semplice desiderio. Era una richiesta.
E chi l’aveva scritta… non era più parte di questo tempo.

Il nome tra le fronde

La pioggia aumentò d’intensità, sottile ma insistente, come se volesse cancellare ogni traccia. Akari si riparò sotto la tettoia del piccolo padiglione di legno vicino alla sorgente. Il biglietto azzurro si era leggermente inumidito tra le sue dita, ma le parole erano ancora lì, intatte.

«Chi sei?» mormorò, non per chiedere, ma per sentire la propria voce sopra il rumore dell’acqua.

Tornò lentamente verso il santuario. Prima di rientrare nel haiden, si fermò alla biblioteca del tempio, una stanza rivestita di cassetti a muro e scaffali invecchiati dal tempo. Ogni kōsatsu, ogni documento rituale, ogni nome dei donatori era conservato lì. Non aveva mai pensato di cercare qualcosa di strano tra quegli archivi. Ma ora, qualcosa la spingeva a farlo.

Tirò fuori un cassetto etichettato “Tanabata – Meiji e precedenti”. Cominciò a sfogliare con cura le schede scritte a mano. Nomi, offerte, desideri. La calligrafia in un foglio la colpì.

Lo stile era identico al biglietto azzurro.

Anno Meiji 23.
Nome: Yukari.
Ruolo: Miko apprendista, poi dispersa in circostanze sconosciute durante il Tanabata.

Il sangue le si fermò per un momento. Akari posò le dita sul nome. La pergamena odorava ancora di fumo, come se l’incenso della sera in cui fu scritta non se ne fosse mai andato.

Sfogliò il resto dei documenti con crescente urgenza. Non c’era molto. Solo una nota marginale scritta con una grafia incerta:

“Scomparsa dopo aver pronunciato un voto al kami della pioggia.
Nonostante il temporale, quella notte non cadde neanche una goccia.”



Akari alzò lo sguardo. Fuori, il vento stava cambiando direzione. Le fronde del bambù non si agitavano più verso nord, ma si piegavano lentamente verso la pietra dell’eco.

Nel cuore, un presentimento cominciò a prendere forma.

E se il desiderio non fosse stato scritto per lei, ma tramite lei?

Yukari. Una miko scomparsa oltre cento anni prima. Una notte senza pioggia. Una promessa fatta a un dio che nessuno più ricordava.

Akari strinse il foglio contro il petto. Aveva trovato un nome.
Ma non ancora il motivo.

La promessa non mantenuta

Quella notte, la pioggia non cadde.

Akari si svegliò all’improvviso, senza sapere perché. La stanza dove dormiva, dietro il haiden, era silenziosa. Troppo silenziosa. Niente cicale, niente vento. Nemmeno il battito delle gocce sul tetto.

Indossò il kimono rituale e uscì scalza nel cortile del santuario.

I tanzaku pendevano fermi. L’aria era immobile. Eppure il cielo era scuro, senza luna, e i lampi lontani illuminavano per un istante le sagome degli alberi. Ma non c’era tuono. Solo quella luce tremolante, intermittente, come un respiro spezzato.

Camminò fino al torii, poi ancora, verso la pietra dell’eco.

Quando arrivò, non era sola.

Una figura in kimono bianco sedeva accovacciata davanti alla pietra. I lunghi capelli sciolti, bagnati d’ombra. Non si voltava, ma Akari ne sentiva la presenza come si sente un suono prima che inizi.
La figura sussurrava.

“Una sola notte, una sola parola, e lui sarebbe tornato.”



Akari si fermò. Il terreno era bagnato, ma sopra la pietra non c’erano gocce. La figura sembrava… non toccare il suolo.

«Yukari?» disse.
Nessuna risposta.

Poi, piano, la figura sollevò il volto. Il viso era giovane, ma gli occhi non avevano tempo.

“Io ho chiesto il silenzio del cielo.
L’ho ottenuto.
Ma non ho mai pagato il prezzo.”



Con un movimento lento, posò un nuovo biglietto azzurro sulla pietra. Le lettere si tracciarono da sole, come scolpite dal vapore.

“Solo chi non teme la pioggia può liberare il cielo.”



E svanì.

Akari si trovò sola. Ma sentiva che qualcosa — o qualcuno — l’aveva scelta.
Tornando al santuario, trovò il cortile ancora deserto. Ma sotto il torii, qualcuno aveva lasciato un ombrello bianco aperto, nonostante il cielo fosse ancora asciutto.

Dentro, un altro biglietto.

“Domani sera. Se vuoi fermare la pioggia, devi prima lasciarla cadere.”

Dove cade la prima goccia

La sera del 7 luglio, la città celebrava Tanabata con lanterne appese ai ponti, yukata color pastello, e risa timide sotto le stelle. Ma a Kurashiki, le stelle non c’erano. Il cielo era coperto, greve di una pioggia imminente che non arrivava.

Il santuario era vuoto, come se tutti avessero dimenticato di salire il pendio che portava a Hoshigami. Solo Akari camminava nel cortile, stringendo l’ombrello bianco tra le mani. Non l’aveva aperto.

Aveva capito.

“Se vuoi fermare la pioggia, devi prima lasciarla cadere.”



Davanti all’altare, posò l’ombrello a terra. Prese una lanterna di carta e la accese. Il vento si sollevò all’improvviso, come risvegliato. I tanzaku iniziarono a tremare, e la prima goccia di pioggia cadde proprio su quello azzurro, quello del primo giorno.

Akari sollevò lo sguardo. I lampi erano più vicini ora, e per un attimo il cielo si aprì — non per scaricare il temporale, ma per mostrare una luce diversa. Una fessura sottile, tra le nuvole, come una cicatrice luminosa che pulsava.

Nel tempio, l’acqua cominciava a cadere con ritmo costante. Akari, in ginocchio, lasciò che il kimono si inzuppasse, senza muoversi. Il legno del pavimento gemeva, il vento urlava tra i rami del bambù.

Poi, qualcosa si aprì.

Non fuori — dentro.

Vide una figura riflessa nell’acqua che si raccoglieva nella ciotola delle offerte. I capelli lunghi, la veste chiara. Non più la Yukari di prima, evanescente, ma umana. Con le mani giunte. Con gli occhi che dicevano: Grazie.

Il cielo si spezzò.

La pioggia cadde forte, finalmente. I tanzaku si staccarono dai rami come foglie. Uno volò verso di lei, si posò tra le sue mani.

Era vuoto.

La penna era sua.

E ora, il desiderio era suo da scrivere.

La settima sera

La pioggia era durata tutta la notte.

Ma all’alba, l’aria aveva il profumo delle cose perdonate. Le cicale erano tornate a cantare, e le prime luci filtravano attraverso le fronde lavate del santuario. Akari camminava scalza tra i ciottoli umidi, con il nuovo tanzaku in mano.

Quello che aveva scritto — con la sua calligrafia, con la sua voce.

“Che ogni desiderio trovi la sua pioggia.”



Non c’erano più ombre tra gli alberi. Solo i segni lasciati dall’acqua: le foglie abbattute, le lanterne spente, i biglietti disfatti che galleggiavano nel piccolo ruscello accanto al sentiero.

E tra quei frammenti, uno solo sembrava intatto.

Lo prese.

Era il vecchio biglietto azzurro, quello scritto da Yukari. L’inchiostro, ormai sbiadito, sembrava essersi fuso con la carta. Ma nel centro, ancora visibile, un ideogramma resisteva:

縁 (en), legame.



Akari sorrise.

Il cielo non si può comandare, aveva capito. Ma si può ascoltare. Si può amare, anche se piove.

E così fece. Tornò al tempio. Riappese i fili di bambù. E attese la prossima settima notte di luglio.

Con la pioggia o senza, il cielo avrebbe comunque raccontato la sua storia.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti