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Tanabata la notte delle stelle cadenti: una storia di Tanabata, silenzi e poesia giapponese

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🌌 Introduzione

Nel cuore dell’estate giapponese, quando le cicale cantano senza tregua e l’umidità avvolge ogni gesto, esiste una notte in cui cielo e terra si sfiorano.

È la notte di Tanabata, il settimo giorno del settimo mese, in cui si dice che Orihime e Hikoboshi, due amanti separati dalla Via Lattea, possano finalmente incontrarsi attraversando un ponte di stelle.

In molti luoghi del Giappone, questa notte si celebra appendendo desideri scritti su strisce di carta colorata, i tanzaku, a rami sottili di bambù.

Ma non tutti i desideri sono nuovi. Alcuni ritornano, anno dopo anno.

Alcuni sono scritti con mani che non tremano più.

E altri aspettano, in silenzio, che qualcuno li legga.

In un villaggio nascosto tra le montagne e i campi di riso, questa leggenda non è solo una festa.

È un rito.

E una ragazza, senza volerlo, diventerà messaggera di una storia che non appartiene solo al presente.

Capitolo 1 – Il bambù del silenzio

La luce del tardo pomeriggio filtrava tra le fronde di cedro e castagno, posandosi sul sentiero come cenere dorata.

Mika camminava con passo lento, le mani in tasca, il viso leggermente rivolto verso terra. I sandali di stoffa umida facevano suru suru contro la pietra liscia, e il suono lieve sembrava l’unica cosa a tenerla ancorata al mondo.

 

Il tempio sorgeva su una terrazza naturale, a picco su un piccolo fiume dalle acque azzurre e immobili. Intorno, solo il fruscio delle foglie e il ronzio gentile delle cicale.

Ogni anno, il 7 luglio, il sacerdote del villaggio issava un alto ramo di bambù al centro del cortile. La gente veniva, legava i propri desideri — speranze di amore, fortuna, guarigione — e tornava a casa col cuore un po’ più leggero.

 

Mika non scriveva desideri da tre anni.

Non da quando sua nonna, Yukie, era scomparsa tra un inverno e l’altro, senza dire addio.

Era stata proprio lei, da bambina, a raccontarle la leggenda di Orihime e Hikoboshi.

«Due stelle si amano così tanto che anche il cielo ha avuto pietà di separarli per sempre.»

Mika non ci credeva più, ma ogni anno tornava al tempio. Solo per guardare.

 

Quel giorno il bambù era già pieno: strisce di carta verde, gialla, rosa svolazzavano nel vento come pensieri sospesi.

Mika si avvicinò, toccando una foglia con due dita. Il suo sguardo si perse tra i tanzaku, finché non notò qualcosa.

Un foglietto più antico, scolorito, scritto a mano con un inchiostro che sembrava aver attraversato molte estati.

Era legato più in alto degli altri, quasi nascosto.

 

Non era un desiderio.

Era una poesia.

 

Sotto le stelle

lascio un sogno cucito

in silenzio e pioggia.

Se torni, mio fiore,

segui la luce nel vento.

Capitolo 2 – Quella che torna

Il giorno seguente il cielo era bianco.

Non grigio, non azzurro, ma quel bianco lattiginoso che in montagna annuncia pioggia o silenzio.

Mika tornò al tempio con la scusa di portare un’offerta d’incenso. Nella borsa teneva il foglietto trovato la sera prima, piegato con cura tra le pagine di un vecchio taccuino che usava per i disegni.

Il sacerdote, un uomo magro con sopracciglia come spazzole e voce bassa come il muschio, la salutò con un cenno appena percettibile.

Non le fece domande, nonostante fosse raro vedere una ragazza tornare due giorni di seguito senza scrivere nulla.

Lei si inchinò e salì i gradini della terrazza.

Il bambù era lì, immobile.

I tanzaku nuovi ondeggiavano piano, ma il foglietto vecchio… non c’era più.

Mika frugò tra i rami, scrutò tra le pieghe delle foglie, ma non lo trovò.

Aveva sognato?

Aveva forse confuso un’illusione con la memoria?

Sedette sul bordo della veranda di legno, lasciando che le gambe penzolassero nel vuoto.

La mente correva alla nonna: ai suoi racconti, alle serate d’estate passate a scrutare il cielo tra le zanzariere, alle sue mani forti che preparavano tè freddo mentre le spiegava l’arte di esprimere un desiderio come se fosse una poesia.

Sotto la veranda, qualcosa si mosse.

Un colpo di vento sollevò un angolo di carta.

Scese e trovò il tanzaku.

Ma ora c’era un’aggiunta, sul retro. Una risposta.

Il loto cresce

anche nel fango nero.

Ascolta il cielo.

I sogni antichi brillano

se c’è chi li accende.

Non c’era dubbio: qualcuno aveva letto, qualcuno aveva risposto.

Mika restò immobile.

Il cuore faceva un rumore che non sentiva da tempo.

Sotto il cinguettio distratto dei passeri e il ronzio delle cicale, si faceva strada in lei una domanda:

Chi aveva scritto la prima poesia?

E chi l’aveva letta prima di lei?

Il kanji era lo stesso:

Mika tornò a casa senza risposte, ma con una certezza nuova:

non era sola in quella storia.

Qualcosa — o qualcuno — stava aspettando di essere ricordato.

Nessuna firma, solo un piccolo kanji tracciato a margine: 蓮 — hasu, loto.

Mika si voltò di scatto, ma il cortile era vuoto.

Un refolo d’aria agitò i tanzaku.

Un petalo bianco cadde ai suoi piedi, e nessun fiore nei dintorni da cui potesse arrivare.

 

Per la prima volta dopo anni, il cuore le batté più forte.

Come se qualcuno, attraverso il tempo, le stesse parlando.

E lei avesse appena ascoltato.

 Capitolo 3 – Sotto l’inchiostro

La sera, nella stanza in ombra profumata di carta vecchia e tatami, Mika aprì con lentezza il cassetto della scrivania dove la nonna conservava lettere e biglietti.

Non lo faceva da anni.

C’erano buste ingiallite, cartoline con paesaggi montani e poesie scritte a pennello su fogli washi.

Ne prese una con mani esitanti.

Il tratto era elegante, ma sottile, come se la calligrafa avesse avuto mani forti e cuore esitante.

In basso, lo stesso ideogramma: 蓮.

Era la calligrafia di Yukie.

Sua nonna.

Mika si accasciò lentamente a terra.

Il respiro si fece piccolo.

Scorreva gli occhi su ogni kanji, come chi cerca una voce nella carta.

Non era un tanzaku. Era una lettera non spedita.

 Se mai qualcuno troverà questo pensiero,

sappia che il desiderio non è un’illusione.

Io l’ho scritto, io l’ho custodito.

Ma non ho avuto il coraggio di leggerlo ad alta voce.

 Il mio cuore ha danzato solo una volta, sotto la pioggia,

e ha scelto il silenzio.

Ma forse tu, che leggi, saprai finire la mia frase interrotta.

Non c’era data. Ma la calligrafia era ferma, intensa.

Mika si ricordò allora che Yukie da giovane aveva lavorato come bibliotecaria del tempio.

Aveva accesso agli archivi.

E una volta, da bambina, l’aveva sorpresa a raccogliere foglietti caduti dal bambù, li aveva visti piegare con cura e infilare nella tasca del kimono, senza dire nulla.

Forse era lei.

Forse era Yukie l’autrice della poesia scritta tanti anni prima.

E forse aveva amato qualcuno — in silenzio.

Fuori, la pioggia cominciò a battere leggera sul tetto di rame.

Mika accese una candela e prese un foglio nuovo.

L’inchiostro scivolò deciso sul bianco.

 Ti sto ascoltando.

Il tuo segreto è diventato mia voce.

Io continuerò a scrivere.

La piegò in tre, la infilò in una bustina, e la portò con sé.

La notte di Tanabata non era ancora finita.

Capitolo 4 – Il ponte e la promessa

Il mattino successivo, Mika scese verso il fiume.

La luce si rifrangeva sull’acqua come fogli di carta spezzati, e il ponticello di pietra, coperto di muschio, sembrava dormire da cent’anni.

Era lì che Yukie la portava da bambina a “guardare l’invisibile”.

Sotto l’arco basso, le carpe nuotavano lente, e una foglia rossa — fuori stagione — galleggiava ferma, come ad aspettarla.

Mika si sedette sul muretto, aprì la bustina con la poesia scritta la notte prima, e la lasciò andare sull’acqua.

La carta scivolò in cerchi lenti, senza affondare.

Alle sue spalle, una voce:

«Non sei la prima a farlo, sai?»

Si voltò.

Era il monaco del tempio. Stava lì, immobile, con le mani dietro la schiena.

«Anche tua nonna veniva qui. Sempre il giorno dopo Tanabata. Portava con sé qualcosa da leggere all’acqua.»

«A chi lo leggeva?»

«A chi non poteva rispondere più.»

Poi tacque. Ma prima di andarsene, le porse un piccolo pacchetto avvolto in stoffa.

«Trovato nel magazzino, accanto ai registri antichi. Tuo nome, scritto a pennello.»

Mika lo aprì solo quando fu di nuovo a casa.

Dentro c’era un ventaglio.

Uchiwa, tondo, di seta. Sul retro: un dipinto a inchiostro leggero di una coppia di stelle separate da una linea d’argento.

E, cucita sul bordo, una tasca segreta.

Conteneva un’ultima lettera.

 

 Se questo ti è arrivato, allora hai cercato.

Io non ho potuto vivere la mia storia,

ma forse tu puoi dare voce a entrambe.

Non temere i sogni che ritornano,

sono quelli che non si sono arresi.

Firmato: Yukie – 蓮

 

Il cuore di Mika si riempì di qualcosa che non sapeva nominare.

Non dolore.

Non nostalgia.

Forse… eredità.

E capì.

Il ponte non era solo pietra.

Era parola.

Era gesto trasmesso.

E lei, ora, era il legame.

Capitolo 5 – La frase non detta

La notte del 14 luglio arrivò silenziosa, con l’aria tiepida e un cielo terso come carta di riso.

Mika salì per l’ultima volta al tempio con il ventaglio della nonna tra le mani.

Aveva deciso: non avrebbe lasciato solo un desiderio.

Avrebbe raccontato tutta la storia.

Seduta sulla veranda di legno, alla luce fioca delle lanterne, cominciò a scrivere.

Scrisse di Yukie, del tanzaku nascosto, delle risposte trovate.

Scrisse con l’inchiostro nero di un’antica boccetta ritrovata in un cassetto, la stessa che usava la nonna.

Non una poesia, stavolta, ma una lettera.

La piegò con cura e la infilò nella tasca del ventaglio.

Poi legò il ventaglio al bambù, sotto il cielo che cominciava a riempirsi di stelle.

Attorno a lei, la gente parlava piano, rideva, appendeva i propri tanzaku.

Nessuno notò la ragazza che, in silenzio, chiudeva gli occhi sotto un desiderio che non era solo suo.

E poi, accadde.

Un soffio di vento scese improvviso dalla montagna, fece vibrare i rami, volare alcuni foglietti in alto, come ali.

E il ventaglio, invece di cadere, restò appeso.

Immobile.

Come in ascolto.

Mika sorrise.

Non chiese nulla, quella notte.

Non fece voti, non scrisse sogni.

Perché aveva già ricevuto la risposta.

Epilogo – Quando cadono le stelle, qualcuno ascolta

 

L’estate passò.

Le cicale cedettero il posto al fruscio delle foglie rosse, poi al silenzio dell’inverno.

Il bambù venne rimosso, i desideri bruciati in un piccolo fuoco purificatore, come da tradizione.

Solo il ventaglio non fu ritrovato.

Qualcuno disse che il vento l’aveva portato via.

Qualcun altro che era stato preso da uno spirito gentile.

Mika tornò spesso al tempio, anche senza motivo.

Portava tè caldo nei giorni freddi, aiutava a pulire il cortile, ascoltava storie dai vecchi del villaggio.

Iniziò anche a insegnare ai bambini a scrivere i loro primi haiku.

Diceva:

«Non scrivete quello che volete. Scrivete quello che non riuscite a dire.»

E loro, come se comprendessero, tacevano e cominciavano a scrivere.

Ogni Tanabata, Mika continuò ad appendere il suo tanzaku.

Non chiedeva più nulla per sé.

Ma lasciava un pensiero per chi non aveva potuto raccontarsi.

Una sera d’estate, molti anni dopo, una ragazza di passaggio trovò sul ciglio del sentiero, in una fenditura tra due pietre, un foglietto piegato e intatto.

C’era scritto:

 

 Se leggi, ascolta.

Se ascolti, ricorda.

E se ricordi, non lasciare cadere il silenzio.

Le stelle non smettono di scrivere,

se qualcuno sa leggere il cielo.

 

Non era firmato.

Ma in basso, in un angolo appena visibile, c’era un kanji tracciato con mano ferma:

 

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