Site icon Yujo Web Italia

La calligrafa cieca

Reading Time: 2 minutes

Ci sono cose che si vedono solo ad occhi chiusi.

Hiroshi

Il treno locale fendeva la nebbia mattutina con la pazienza di chi conosce il tempo.
Hiroshi, 38 anni, cronista culturale per una rivista di Tokyo, aveva sonno, freddo e poca voglia di partecipare a quella che, a suo dire, era solo un’altra leggenda buona per turisti.

“Una donna cieca che scrive calligrafia perfetta, senza errori, senza vista. Bah. Probabilmente una trovata di qualche ufficio turistico per tenere vivo un villaggio morente.”

Eppure, più si avvicinava a Tachibana, quel piccolo paesino affacciato sul Mare del Giappone, più qualcosa in lui cominciava a rallentare.
Come se il corpo avesse già capito quello che la mente ancora rifiutava.

Il villaggio era silenzioso, umido, e incredibilmente intatto.
Casette basse, pietre muschiose, e il profumo della legna che ardeva nei kamado.
La casa di Ayame, la calligrafa cieca, era in fondo a una strada di ghiaia bianca.
Una casa bassa, col tetto di tegole nere e un giardino semplice, zen.

Ayame

Lo accolse una donna sui settant’anni.
Capelli raccolti, viso segnato ma non stanco.
Indossava un kimono grigio perla e si muoveva lentamente, ma con una precisione disarmante.

«La aspettavo, Hiroshi-san»
disse, con voce serena.

Lui rimase interdetto. Nessuno le aveva detto del suo arrivo. Forse solo una coincidenza. O forse no.

Nel corso dei giorni, Hiroshi la osservò.
Non le fece domande, all’inizio.
Si limitava a guardarla mentre, nel silenzio assoluto, preparava inchiostro sumi con movimenti lenti, quasi cerimoniali.
Poi, con il pennello di bambù tra le dita, tracciava kanji perfetti su carta di riso.
Non esitava mai.
Non correggeva.
Ogni tratto era deciso e armonico, come se qualcuno glielo stesse dettando da dentro.

«Non serve vedere con gli occhi per scrivere ciò che esiste nello spirito»
gli disse, una sera, mentre preparavano il tè.

Hiroshi, incuriosito, iniziò a indagare.

Scoprì che Ayame perse la vista a 23 anni, durante un’epidemia. Ma non smise mai di scrivere.
Diceva che suo nonno — un monaco shodōka (calligrafo spirituale) — le aveva insegnato a “sentire” i caratteri, come fossero suoni o respiri.

«Ogni parola ha un peso. Un ritmo. Un’ombra. La calligrafia non è arte per gli occhi, ma musica per il corpo.»

L’ultima sera, Ayame lo invitò a scrivere.
Gli porse un foglio e un pennello.

«Scrivi il tuo nome. Ma fallo senza pensare.»

Hiroshi obbedì. Scrisse.
Male. Spesso. In modo nervoso.

Ayame toccò il foglio con le dita, appena asciutto.

«Il tuo cuore è stanco. Ma non vuoto.»

Lui la guardò, e per la prima volta in anni, sentì le lacrime agli occhi.
Non di tristezza.
Di riconoscimento.

Quando ripartì, Ayame gli regalò un rotolo con un solo kanji:

「静」– “Shizu” – Silenzio.

«Ricordati che le parole più vere non si dicono. Si tracciano. O si ascoltano nel vuoto.»

Approfondimento culturale

La shodō (書道), “la via della scrittura”, è una disciplina artistica e spirituale in Giappone. Alcuni maestri ciechi sono realmente esistiti: si affidavano alla memoria corporea, alla respirazione e al ritmo interiore.
Nella tradizione zen, l’inchiostro è sacro, il tratto è meditazione.
Spesso, i calligrafi praticano il silenzio per giorni prima di scrivere un solo carattere.

Exit mobile version
Vai alla barra degli strumenti