Ci sono cose che si vedono solo ad occhi chiusi.
Capitolo 1 – Il silenzio che parla
Il treno locale fendeva la nebbia mattutina con la pazienza di chi conosce il tempo.
Ogni stazione attraversata era un sussurro: un cartello arrugginito, un vecchio seduto in attesa, il vento che sollevava la ghiaia.
Hiroshi si strinse nel cappotto.
Aveva sonno, freddo e poca voglia di credere a quella che, a suo dire, era solo un’altra leggenda buona per turisti.
Un articolo da scrivere, nient’altro.
«Una donna cieca che scrive calligrafia perfetta, senza errori, senza vista.»
Scosse la testa, ironico.
«Probabilmente una trovata per mantenere vivo un villaggio morente.»
Eppure, man mano che il treno rallentava verso Tachibana, il corpo di Hiroshi sembrava ammorbidire i suoi confini.
Il respiro diventava più lento.
Il tempo più denso.
Come se quella terra avesse una voce propria.
Quando mise piede sulla banchina, l’aria era salata e pungente.
Il villaggio, adagiato come un nastro tra la scogliera e il Mare del Giappone, respirava in silenzio.
Casette basse dai tetti di tegole scure, il suono lieve di una campana al tempio, pietre muschiose bagnate di bruma.
E ovunque, il profumo della legna che ardeva nei kamado, mischiato a quello del mare.
La strada verso la casa di Ayame era bianca di ghiaia, stretta tra recinti di bambù.
Ogni passo di Hiroshi scricchiolava come un annuncio.
La casa era semplice: tetto nero di tegole, porte scorrevoli in legno chiaro, un giardino zen con pochi sassi e un pino contorto che sembrava inchinarsi al vento.
Quando stava per bussare, la porta si aprì.
Una donna lo attendeva.
Settant’anni forse, capelli raccolti, pelle segnata da rughe come fili d’inchiostro, e un kimono grigio perla che pareva catturare la luce del giorno.
Si muoveva lenta, ma con una precisione che non lasciava spazio al caso.
«La aspettavo, Hiroshi-san.»
La voce era calma. Sicura.
Lui rimase immobile, sorpreso.
Non aveva avvisato nessuno.
Forse una coincidenza.
O forse no.
Capitolo 2 – Ombre tra i tratti
Nei giorni successivi, Hiroshi non fece domande.
Preferì osservare.
Ayame trascorreva le giornate in silenzio, come se ogni gesto fosse già una risposta.
La mattina preparava l’inchiostro sumi: pestava lentamente il bastoncino nero sulla pietra bagnata, finché l’acqua si trasformava in velluto liquido. Il suono del suzuri era basso, ritmico, quasi un respiro.
Il profumo denso dell’inchiostro avvolgeva la stanza, mescolandosi all’aroma del tè che sobbolliva nel braciere.
Quando impugnava il pennello, non esitava.
I tratti cadevano sulla carta di riso netti, decisi, come se qualcuno glieli stesse dettando dall’interno.
Hiroshi si accorse che non correggeva mai.
Non si fermava a pensare.
Era come se vedesse con un altro senso.
Una sera, al calare del sole, notò qualcosa.
Stava scrivendo il carattere 「夢」– sogno.
Il pennello scivolava veloce, eppure, mentre lo osservava, Hiroshi ebbe l’impressione che le mani di Ayame tremassero, ma non di vecchiaia: era un movimento rapido, preciso, quasi simile a quello di chi segue un ritmo segreto.
«Non serve vedere con gli occhi per tracciare ciò che esiste nello spirito» disse lei, senza smettere di scrivere.
Lui sussultò.
Non aveva parlato. Non aveva fatto alcun rumore.
Come aveva capito che la stava fissando con quell’intensità?
Quella notte dormì male.
Il vento faceva sbattere le persiane e il mare ruggiva oltre le scogliere.
Eppure, ciò che lo svegliò non fu il rumore esterno, ma un fruscio interno: come un pennello che tracciava segni dietro le sue palpebre chiuse.
Kanji che non sapeva leggere.
Al mattino, Ayame lo accolse con il tè già pronto.
«Stanotte hai visto dei caratteri, vero?» disse, porgendogli la tazza fumante.
Hiroshi sentì il cuore gelarsi.
Capitolo 3 – Le mani del nonno
«Chi ti ha insegnato a scrivere così?»
La domanda uscì di getto, una mattina, mentre il pennello di Ayame tracciava linee che parevano danzare sulla carta.
Lei si fermò un istante. Non alzò la testa, non sorrise.
«Mio nonno.»
Si accomodarono davanti al braciere. Ayame preparò il tè con gesti lenti, e nel vapore denso della stanza le parole si fecero più pesanti.
«Era un monaco shodōka» spiegò. «Un calligrafo spirituale del tempio qui vicino. Diceva che ogni parola ha un peso e un ritmo. Che prima di tracciarla devi ascoltarla. Con il corpo, con il respiro, con le ossa.»
Hiroshi annuì, fingendo di capirne il senso. Ma dentro ribolliva di scetticismo.
Non riusciva a credere che una persona cieca potesse scrivere kanji così perfetti. Doveva esserci un trucco.
«E il villaggio? Perché tutti qui ti chiamano…» esitò un momento, «Mekami-sama?»
La dea cieca.
Ayame si fermò, il pennello sospeso a mezz’aria.
«Non sono una dea. Sono solo un ricettacolo.»
La parola lo fece sussultare.
«Ricettacolo?»
«Mio nonno diceva che alcuni caratteri non vengono da noi. Ci attraversano. Siamo solo il pennello del mondo.»
Hiroshi si strinse nelle spalle. Per lui, giornalista cresciuto a Tokyo, era follia mistica.
Eppure, il villaggio intero sembrava muoversi attorno a lei come se fosse davvero qualcosa di più di una semplice donna.
Decise di indagare.
Parlò con un vecchio pescatore al porto.
«Ayame? Ah… lei scrive da quando era bambina. Dopo che perse la vista… dicono che non è più stata sola.»
«In che senso?»
Il vecchio sorrise, mostrando denti ingialliti. «Chiedilo al tempio. Lì sanno.»
Al tempio incontrò un giovane monaco, che lo guardò con un misto di pietà e cautela.
«Il nonno di Ayame era un hijiri» disse. «Un eremita. Un uomo che aveva abbandonato il mondo per ascoltare le parole degli dei. Molti pensano che lei abbia ereditato… il suo orecchio.»
«Il suo orecchio?»
«Non l’udito umano. Quello che percepisce ciò che non si dice.»
Quella notte, Hiroshi scrisse gli appunti per l’articolo.
Ma ogni frase gli sembrava vuota.
Come se il vero racconto non potesse stare su carta.
Quando andò a dormire, li rivide: i caratteri.
Chiari. Immensi. Tracciati da una mano invisibile dietro le sue palpebre.
E si svegliò di soprassalto, con il cuore che batteva troppo in fretta.
Capitolo 4 – Il tratto che non era suo
«Stasera scriverai con me.»
Non era una domanda.
Ayame lo disse al calare del sole, mentre fuori il vento portava con sé l’odore del mare.
Lo condusse nella stanza più interna della casa: pavimento di tatami, pareti nude, un unico braciere acceso.
Al centro, un fude – il pennello – e un foglio di carta di riso così bianca che pareva respirare.
«Siediti. Chiudi gli occhi.»
Hiroshi obbedì, ma il cuore batteva come se stesse per commettere un errore.
Sentì Ayame accanto a lui. Il fruscio del suo kimono. Le dita che intingevano il pennello nel sumi.
«Ascolta» disse lei. «Non pensare ai tratti. Non pensare al tuo nome. Ascolta ciò che vuole scriversi attraverso di te.»
Lui avrebbe voluto ridere di quella frase.
Ma non ci riuscì.
Ayame prese la sua mano e la guidò sul pennello.
La sua pelle era sorprendentemente calda.
Poi, con un movimento lento, posò la sua mano sopra la sua, come un doppio battito.
Quando il pennello toccò la carta, accadde.
Non fu lui a muovere il polso.
Non fu lei.
Qualcosa – un ritmo, un impulso – li attraversò.
La mano cominciò a scivolare, a tracciare curve e linee che Hiroshi non conosceva.
Il pennello danzava.
Non vedeva, eppure sentiva i caratteri.
Sentiva il loro peso. Il loro respiro.
Ogni tratto vibrava come una corda pizzicata nel petto.
Quando Ayame tolse la mano, Hiroshi restò immobile.
Sudato. Tremante.
Aprì gli occhi.
Sul foglio, un unico kanji:
「真」– Makoto. Verità.
«Non l’ho scritto io» disse, con la voce roca.
Ayame sorrise appena.
«No. Ma era in te. Doveva solo uscire.»
Hiroshi non trovò risposta.
Si sentiva svuotato, ma stranamente intero.
Come se qualcuno gli avesse rimosso un peso che non sapeva di portare.
Quella notte non sognò.
Ma quando si svegliò, il pennello era ancora tra le sue dita.
Capitolo 5 – Il dono
La mattina della sua partenza, il cielo era basso e color cenere.
Il villaggio sembrava trattenere il respiro, come se persino il mare aspettasse qualcosa.
Ayame lo attendeva sulla veranda, con un rotolo avvolto in un semplice tessuto di lino.
«Per te» disse, porgendoglielo.
Hiroshi lo prese con entrambe le mani, inchinandosi senza parole.
«Aprilo quando sarai lontano» aggiunse, con quel tono che non ammetteva repliche.
Non ci furono saluti lunghi, né frasi di circostanza.
Solo il rumore dei suoi passi sulla ghiaia mentre lasciava la casa, il fruscio delle onde, e il peso del rotolo stretto al petto.
Sul treno, finalmente, lo aprì.
Era un unico carattere, tracciato con un inchiostro così profondo da sembrare vivo:
「目」– Me. Occhio.
Sotto, in piccolo, una scritta che lo gelò:
“Ci sono cose che si vedono solo ad occhi chiusi.”
Hiroshi non capì subito perché gli tremassero le mani.
Forse per la frase.
Forse perché sapeva che Ayame non poteva averla scritta “guardandolo”.
Eppure, era esattamente ciò che lei gli aveva insegnato.
Appoggiò la fronte al vetro del finestrino.
Il mare correva al contrario, come a portarsi via il suo vecchio scetticismo.
Per la prima volta da anni, Hiroshi non sentiva il bisogno di spiegare.
Guardava il rotolo.
E, dentro, qualcosa in lui guardava diversamente il mondo.
Epilogo – L’inchiostro del silenzio
Tornato a Tokyo, Hiroshi scrisse l’articolo.
Ma non parlava di leggende.
Non spiegava il miracolo di Ayame con parole da giornalista.
Non cercava prove, né aneddoti.
Raccontava il silenzio.
Quello che si forma tra un respiro e l’altro, quando la mente si ferma e qualcosa di più antico prende voce.
Nel suo studio, sopra la scrivania, Hiroshi appese il rotolo con il kanji「目」– Occhio.
Ogni mattina lo osservava.
Poi chiudeva gli occhi.
E, solo allora, cominciava a scrivere.
Non sapeva se ciò che usciva dalla sua penna fosse più vero.
Ma aveva imparato che la verità, come l’inchiostro sumi, va lasciata decantare.
Va ascoltata.
Va toccata nel buio.
Come le mani di Ayame.
Come un tratto tracciato senza vedere, ma mai per errore.
Mai per caso.
Approfondimento culturale – Shodō e la vista interiore
Nel cuore della tradizione giapponese, la shodō (書道), la “via della scrittura”, è molto più di un’arte grafica: è una pratica meditativa, un rituale interiore.
Ogni tratto è un’estensione del respiro, ogni carattere una manifestazione dell’anima.
Molti maestri, specialmente quelli legati al buddhismo zen, praticano giorni di silenzio e contemplazione prima di tracciare un singolo kanji.
È documentata l’esistenza di maestri ciechi che continuavano a scrivere, guidati da memoria corporea, ritmo interiore e percezione spaziale sviluppata.
Nella filosofia shodōka, la vista non è indispensabile: ciò che conta è “sentire” il carattere prima di tracciarlo.
Come diceva Ayame:
“La calligrafia non è arte per gli occhi, ma musica per il corpo.”
Questa storia ci invita a riconsiderare il senso della percezione.
A rallentare.
A fidarci di ciò che si muove sotto la superficie.
Perché, talvolta, ci sono cose che si vedono solo ad occhi chiusi.

