La taverna si era ormai quasi del tutto svuotata. Rimanevano solo pochi avventori e, per fortuna, la sempre solerte Nao — che quella sera si era offerta di aiutare Aya, non avendo altri impegni — li stava cortesemente ma con fermezza accompagnando all’uscita. Aya aveva atteso quel momento per tutta la giornata. Quella notte avrebbe rivisto Shizuka e Yoshitsune, che avrebbero continuato a raccontare la loro travagliata esistenza.
«Forza, signor Toriyama, è ora di tornare a casa a sentire vostra moglie arrabbiata!» disse Nao con il suo consueto brio, rivolgendosi a un vecchio cliente che aveva decisamente alzato il gomito. La signora Toriyama, celebre per il suo carattere poco incline al perdono, di certo non avrebbe gradito.
Il signor Toriyama, con il viso rubicondo e l’aria beata di chi ha appena fatto pace con l’universo (e perso ogni contatto con la realtà), si alzò barcollando e mormorò:
«Ma io… io la amo, la mia dolce Yuki… anche se mi lancia le ciabatte!»
Nao gli aprì la porta e, spingendolo con garbo ma decisione verso l’uscita, esclamò: «Era l’ultimo!», poi si voltò soddisfatta verso l’amica, che appariva visibilmente irrequieta.
«Hai qualcosa da nascondermi, Aya-san?» chiese con sguardo indagatore.
«Ma figurati, Nao cara…» rispose Aya, cercando di sembrare disinvolta. «…ho solo fretta di andare a letto, tutto qui.»
“Sarà… ma non mi convinci per niente”, pensò Nao, più che mai convinta che l’atteggiamento dell’amica nascondesse qualcosa di misterioso — o potenzialmente romantico.
Dopo aver sistemato la taverna, le due amiche si salutarono. Aya, seguita da Yoru — che finalmente era sceso dal suo solito posto sul mobiletto all’ingresso — si incamminò verso il giardino dell’incontro della notte precedente.
Splendeva una luna magnifica, quella notte…
Aya e Yoru vi giunsero dopo una ventina di minuti. Erano quasi le due del mattino, e nel giardino il profumo dei glicini era particolarmente intenso. Non dovettero attendere a lungo: la foschia si sollevò lentamente, rivelando le figure di Yoshitsune e Shizuka che si stavano pian piano materializzando davanti ai loro occhi.
«Siete tornati», disse Shizuka con un sorriso lieve e compiaciuto. «Come promesso, vi racconteremo la nostra storia.»
Aya annuì, sedendosi su una panchina con accanto il fedele Yoru.
«Vorrei sapere di voi, di come vi siete conosciuti, e di ciò che avete vissuto.»
«Nel 1182, durante un periodo di grave siccità, fui invitata dall’imperatore Go-Shirakawa al tempio Shinsen-en per eseguire la danza della pioggia, insieme ad altre novantanove danzatrici», iniziò Shizuka, alzando lo sguardo al cielo come se i ricordi la stessero chiamando da lontano.
«La pioggia tardava. Il cielo sopra Heian-kyō era d’un azzurro crudele, senza una sola nube a concedere respiro alla terra. I monaci avevano cantato i loro sutra, cento voci in armonia, ma gli dèi tacevano. Poi toccò a noi: cento shirabyōshi, vestite dei nostri abiti di seta, pronte a offrire spirito e corpo alla danza.»
Aya e Yoru ascoltavano, rapiti.
«Sulle assi del tempio Shinsen-en, una dopo l’altra, le danzatrici volteggiavano leggere, i ventagli aprendosi e chiudendosi come ali tremanti. Ma il cielo restava impassibile. Quando venne il mio turno, un mormorio serpeggiò tra i presenti. Alcuni mi conoscevano. Altri avevano solo udito il mio nome, sussurrato come una leggenda.»
Un sorriso sfiorò le labbra di Shizuka.
«Chiusi gli occhi e lasciai che il ritmo mi possedesse. I tamburi risuonavano nel mio petto, le mie mani si muovevano come guidate da spiriti antichi. Non danzavo per l’imperatore, né per il pubblico presente. Danzavo per la terra, per il vento, per l’acqua che mancava. E accadde.»
«Una brezza si sollevò, timida all’inizio, poi più audace. Le fronde iniziarono a bisbigliare, e le prime nubi apparvero all’orizzonte. Un colpo di tamburo, un passo deciso, il mio ventaglio si aprì e, come per incanto, una goccia baciò la mia pelle.»
La dama rivolse un sorriso ad Aya e Yoru.
«La folla trattenne il fiato. Poi un’altra goccia. E un’altra ancora. Prima lieve, poi abbondante: la pioggia cadde come una benedizione attesa da troppo tempo. Esplose un clamore: grida, risate, mani alzate al cielo. L’imperatore mi guardò con occhi colmi di meraviglia e riconoscenza.»
Il suo sguardo si volse allora a Yoshitsune, con dolcezza e malinconia.
«Fu allora che lo vidi per la prima volta: Yoshitsune. Diverso da tutti gli altri. Un guerriero dal cuore poetico. Il destino aveva cominciato la sua trama, tessendo i nostri fili. Ma allora ancora non lo sapevamo.»
Per un istante, lungo come l’eternità, regnò il silenzio. I due spiriti si strinsero le mani, delicatamente.
La luna brillava alta, testimone silenziosa di un amore nato fra guerra e destino.
«E poi?» chiese timidamente Aya, con voce leggera. Subito dopo, il miagolio curioso di Yoru aggiunse un punto esclamativo decisamente felino.
Shizuka e Yoshitsune li guardarono sereni. La stessa foschia che aveva annunciato il loro arrivo stava iniziando a svanire. Il tempo concesso per quella notte era ormai al termine.
«Torneremo domani, Aya-san.», disse Shizuka con voce lieve. «Abbiamo ancora molto da raccontare, se vorrete ascoltare.»
Aya annuì. Yoru emise un “miao” pieno di intesa.
Le due eteree figure cominciarono a dissolversi, illuminate dalla luce lunare.
«A domani notte, fanciulla dagli occhi di smeraldo…» sussurrò la voce di Yoshitsune, già quasi evanescente. «…e un saluto anche a te, gatto dagli occhi di giada…»
Una brezza tiepida soffiò tra i glicini in fiore; il profumo sapeva d’eternità e primavera.
«Andiamo a casa», disse Aya, accarezzando la testolina di Yoru, che si grattò un orecchio e pensò — con la sua saggezza felina — che non aveva ancora scoperto che fine avesse fatto Momo, il gatto di Shizuka e Yoshitsune.
Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 2 di 7)

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