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Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 7 di 7)

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La serata alla taverna Locanda della Luna era trascorsa in tranquillità, senza nulla che potesse turbare la consueta routine del locale.
Yoru, comodamente acciambellato sul suo mobiletto all’ingresso, non si era degnato di muovere nemmeno un baffo quando, per prendere un tè, era entrato un signore con un bellissimo Akita dal portamento fiero. Il gatto, con l’aria di chi tutto ha già visto, aveva appena sollevato una palpebra, scrutando l’ospite con uno dei suoi occhi verde giada, per poi richiuderla con fare annoiato e tornare beatamente al sonno.
Nao quella sera non era passata: era impegnata a festeggiare il compleanno di un amico, per il quale aveva curato personalmente il servizio fotografico.
Tutto sembrava procedere con la regolarità di sempre, e Aya non vedeva l’ora di chiudere. Lì, nel giardino dei glicini, l’attendeva un ultimo incontro con gli spiriti di Shizuka e Yoshitsune: l’ultima notte insieme.
Era passata la mezzanotte e aveva appena terminato di pulire gli ultimi tavoli, quando accadde qualcosa di inaspettato.
Stava per chiudere la porta d’ingresso quando lui apparve.
Haruki era lì, in piedi davanti a lei, rischiarato dalla luce calda di una lanterna che dondolava lieve nella brezza notturna.
Il cuore di Aya sussultò.
“Cosa mi prende?” pensò, cercando invano di evitare il suo sguardo.
«Buonasera, Haru-chan… Come mai qui? E in questi giorni, che fine hai fatto? Io…»
«Non dire nulla, Aya» la interruppe dolcemente Haruki.
Fece un passo avanti.
«A proposito dell’altra sera… dovrei chiederti scusa. Ma non voglio farlo. Anzi, non sono affatto pentito di averti dato quel bacio.»
Lei si immobilizzò, sorpresa. Le mani si irrigidirono lungo i fianchi. Cosa stava succedendo?
Haruki parlò ancora, con voce ferma:
«Quel bacio… lo volevo da anni.»
«Haruki, io…»
Ma lui non rispose. La guardò dritta negli occhi, con una dolcezza che la disarmò, e negli occhi che Aya conosceva da sempre brillava una sicurezza nuova, intensa, che la fece vacillare.
Poi, come sospinto da una certezza antica, Haruki si avvicinò e le sfiorò la guancia con un bacio leggero, ma pieno di significato.
Aya sentì il volto scaldarsi, il cuore correre.
«Non fare tardi per la tua passeggiata notturna, Aya-chan.»
E con un sorriso appena accennato, Haruki si voltò e si allontanò, lasciandola lì, piena di emozioni e domande.
Fu il miagolio affettuoso e lievemente ironico di Yoru a riportarla alla realtà. Il gatto, seduto accanto alla porta, la osservava con quell’aria da vecchio saggio che si diverte a guardare gli umani complicarsi la vita.
Fece un cenno con la coda, come a dire:
“Allora, andiamo? Gli spiriti non aspettano.”
Quando giunsero al giardino dei glicini, tutto appariva immobile, quasi sospeso.
Nemmeno un filo di vento accarezzava le fronde.
Poi, lentamente, la bianca foschia prese forma: l’annuncio silenzioso del ritorno dei due spiriti.
Erano tornati.
«Benvenuti, Aya e Yoru», sussurrò con dolcezza Shizuka, avvolta in un candido jūnihitoe.
Dietro di lei, Yoshitsune appariva solenne, imponente: la sua armatura sembrava risplendere di un’eco antica, specchio della dignità e del coraggio che lo avevano reso leggenda.
«Siamo ormai giunti alla fine del nostro piccolo viaggio», disse guardando Aya negli occhi.
«Questa notte saprai come si concluse la nostra vita terrena.»
«E poi… che accadrà?» sussurrò Aya.
«Ascolta prima la fine di questa storia. Poi, alcune verità ti verranno svelate. Ma non tutte… non ancora.»
Aya si accomodò sulla solita panchina, e Yoru le si accoccolò sulle ginocchia, facendo le fusa più forte del solito, quasi a sancire che anche lui era pronto ad ascoltare.
Poi Yoshitsune cominciò a raccontare.

«Dopo la fuga da Kyoto, la mia vita divenne un cammino costante nell’ombra.
Yoritomo, mio fratello di sangue ma non più di cuore, non poteva tollerare che la mia fama lo oscurasse. Avevo guidato gli eserciti della nostra casata alla vittoria contro il clan Taira, avevo rovesciato un’epoca, eppure tutto ciò non bastava.
La sua gelosia era più forte del nostro legame.
Quando lasciai la capitale, portai con me solo chi mi era rimasto fedele. Benkei, il mio gigante, il mio amico più leale. E pochi altri.
Shizuka, lo sapete, dovetti lasciarla indietro.
Era troppo pericoloso. E poi, lei era incinta.
La affidai a mani sicure, ma il destino fu crudele. Venne catturata. Fu costretta a danzare al cospetto di Yoritomo e della sua consorte, Hōjō Masako.
Eppure, anche lì, mentre la pioggia cadeva e il tamburo batteva lento, lei danzò per me.
Nei suoi versi non c’era rabbia, ma amore.
Un amore più forte della morte.
Di quel bambino nato e mai cresciuto… non voglio parlare.
Proseguimmo verso nord, attraversando valli, guadi, montagne innevate. Fummo ospitati, per brevi tregue, da signori minori che temevano l’ira dello shōgun.
Yoritomo ci inseguiva come un’ombra silenziosa tra i ciliegi sfioriti, sempre un passo dietro di noi.»
Infine giungemmo a Hiraizumi, presso il clan Ōshū Fujiwara.
Là, sotto la protezione di Fujiwara no Hidehira, trovai un rifugio sicuro.
Hidehira mi accolse come un figlio, mi onorò come un eroe.
Per un breve istante, sognai persino una nuova vita: allenavo giovani guerrieri, meditavo nei giardini, scrivevo versi che non leggerà mai nessuno.
Ma la pace non dura nel cuore di chi è stato tradito troppe volte.
Alla morte di Hidehira, il figlio Yasuhira, per compiacere Yoritomo, tradì l’onore della casa e diede ordine di eliminarci.
Vennero per noi all’alba.
Eravamo pochi, stanchi, ma pronti.
Ci barricammo in un piccolo padiglione, circondati da fiamme e frecce.
E lì, Benkei compì l’atto che lo avrebbe reso leggenda.
Impugnò la sua naginata e si fermò davanti all’ingresso. Disse solo una cosa:
«Fratello, tieniti pronto. Io farò il mio dovere.»
Nessuno riusciva a passare. Come un muro di carne, abbatté decine di soldati nemici.
Le frecce lo colpirono ovunque — braccia, petto, gola — ma lui non si fermò.
Quando infine smisero di attaccarlo, restò in piedi.
I soldati, timorosi, si avvicinarono, e compresero con orrore che era morto.
Era morto in piedi.
Nessuno poté più negargli l’immortalità.
Io, intanto, mi ero preparato.
Indossai con lentezza la mia veste più dignitosa, quella che un tempo avevo portato alla corte imperiale, e mi preparai come si addice a un samurai che sceglie la propria fine.
Posai la spada davanti a me e compii il seppuku, come un uomo che non si piega, ma che sceglie.
E mentre il sangue scorreva, pensai a lei.
A Shizuka. Alla sua danza. Al nostro amore.
Pensai a Benkei. Alla dignità che nessuna freccia poté spezzare.
Morii non da fuggiasco, ma da guerriero.
La mia carne finì… ma la mia anima, no.»

Shizuka non parlò subito. I suoi occhi, limpidi come ruscelli d’altura, erano fissi su Yoshitsune, l’uomo che aveva amato oltre ogni confine umano.
Si avvicinò a lui, sfiorandogli la mano con dolcezza. Un gesto antico, come una promessa mai sciolta.
Poi volse lo sguardo verso Aya.
«Sai, Aya-chan, a volte le storie più belle non hanno una vera fine. La mia danza non era per la gloria, né per la vendetta. Era per lui.»
«E anche ora, senza corpo né tempo, il mio cuore batte ancora per Yoshitsune.»
Fece un passo indietro. I glicini cominciarono a ondeggiare senza vento, un profumo dolce e avvolgente si sparse nell’aria.
Poi, lentamente, Shizuka iniziò a danzare.
Una danza lieve, quasi irreale. Ogni gesto era un frammento di memoria, ogni passo un intreccio d’amore e nostalgia.
Fu in quel momento che si udì un suono profondo, ritmato, come passi pesanti e sicuri.
Dalla magica foschia emerse una figura colossale.
Benkei era giunto.
Immobile, fiero nella sua armatura consumata, reggeva ancora la naginata come se il tempo non avesse potere su di lui.
Con passo lento si avvicinò, il volto sereno, lo sguardo profondo di chi ha affrontato mille battaglie e ne porta il ricordo nell’anima.
Fece un lieve inchino a Yoshitsune e a Shizuka, poi rivolse lo sguardo ad Aya, quasi fosse un riconoscimento silenzioso, carico di rispetto.
Poi, con voce ferma e quieta, pronunciò soltanto:
«Il tempo è giunto, miei signori.»
E rimase al loro fianco, pronto a scomparire con loro nella foschia incantata.
Dal biancore nebbioso sbucò, inaspettato, un piccolo corpo agile: un gatto dal manto color pesca, soffice e lucente come seta.
I suoi occhi, di un argento liquido e profondo, brillavano — pieni, insolitamente, di vita.
Aya e Yoru lo avevano appena intravisto la notte precedente, tra le ombre del giardino, come un’apparizione fugace.
Fu solo ora, però, che ne compresero la vera essenza:
era Momo, il gatto perduto di Shizuka e Yoshitsune, tornato per compiere l’ultimo cammino accanto ai suoi padroni.
Si avvicinò con eleganza a Yoru, che lo fissava incuriosito.
Momo gli si avvicinò, e nell’aria tra loro si percepì un’eco lieve, un’intesa silenziosa. Poi miagolò con voce chiara:
«Arrivederci, compagno. Custodisci questo mondo con il cuore leggero, come feci io secoli fa.»»
Poi si voltò e, senza più esitazioni, seguì i suoi padroni.
Yoshitsune prese la mano di Shizuka.
«È tempo per noi.»
Ma prima di congedarsi, si rivolse ancora una volta ad Aya.
«Ti chiedi perché tu riesca a vederci, a sentirci… perché tu possa parlare con spiriti e creature che altri nemmeno immaginano.»
Aya annuì, trattenendo il respiro.
«In te, Aya, si cela un segreto antico. Un’eredità trasmessa di madre in figlia, custodita nel sangue di chi ti ha generato. Non da chi è entrato nella tua famiglia, ma da coloro da cui discendi, fin dai tempi in cui gli dèi camminavano tra gli uomini.
Non posso dirti di più. Ma chi potrà farlo… vive ancora.
Parla con tua nonna Saeko. A Nara. Lei conosce l’inizio di questa storia.»
Fece una breve pausa.
«E ricorda, Aya… è nel soffio della Vita che troverai la via…»
Le parole suonarono come un enigma antico, lasciato a fior di labbra per non essere subito svelato.
Poi si voltò, prese Shizuka tra le braccia.
I due svanirono nella nebbia, seguiti da Momo e Benkei, che chiuse la marcia con passo calmo e possente, come l’ultimo custode dei sogni.
Aya restò in silenzio. Il giardino era immobile, immerso in un silenzio che non era vuoto, ma pieno di memoria. Yoru le saltò sulle ginocchia e fece le fusa. Lei gli accarezzò la testa con affetto.
«Sono andati, Yoru. Ma non li dimenticheremo.»
Si alzarono e tornarono verso casa.
E lì, sulla soglia, c’era Haruki.
Non disse nulla.
La guardò negli occhi, con quella stessa intensità silenziosa di poche ore prima.
Poi si avvicinò, la prese tra le braccia e la baciò.
Non sulla guancia questa volta, ma sulle labbra, con dolcezza e fermezza.
Un bacio vero. Sincero. Atteso da troppo tempo.
Poi si allontanò, senza aggiungere una parola.
Aya lo osservò andare via, il cuore colmo di domande, e un fremito di inquietudine che non sapeva ancora nominare.
Il cuore le batteva all’impazzata, un calore improvviso le era salito dentro e non riusciva a pensare ad altro.
Solo una certezza le restava: desiderava un altro bacio da Haruki.
Quella notte non riuscì a dormire.
Il pensiero di Haruki era una corrente calda che non la lasciava in pace.
Un sentimento nuovo, o forse antico, si faceva strada dentro di lei.
E poi… le parole di Yoshitsune.
«È nel soffio della Vita che troverai la via…»
Chiuse gli occhi solo quando il cielo cominciava a schiarire, con Yoru accanto che la fissava tranquillo.
Il suo ultimo pensiero, prima di abbandonarsi al sonno, fu per il bacio di Haruki.
Non poteva dimenticare le sue labbra e l’emozione che le era nata dentro, e che ancora la turbava.
“Sarà un’estate interessante, questa…”
pensò il gatto, prima di acciambellarsi al suo posto.
Arrivederci a tutti.
E alla prossima storia, tra sogni, glicini e spiriti gentili, valorosi samurai e dame coraggiose.

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