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Seta e cenere

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La scatola era piccola, quadrata, avvolta in carta di riso consumata dal tempo e sigillata con un nastro di seta sfilacciata. La donna che l’aveva ricevuta — Hana, architetta di Tokyo — la osservò per lunghi minuti prima di aprirla. Era arrivata per posta, insieme a una lettera notarile che annunciava un’eredità inattesa: una zia di cui non aveva mai sentito parlare, morta senza lasciare figli, le lasciava in dono una collezione di kimono e il diritto su una vecchia casa a Kanazawa.

All’interno della scatola, piegati con una cura quasi devota, c’erano sei kimono. Ognuno raccontava un mondo: uno color indaco con gru ricamate, uno rosso vermiglio con ventagli e pini, uno color perla con petali sparsi come neve. L’ultimo, però, era diverso. Era ripiegato su se stesso come per nascondere la sua vergogna: la seta annerita, chiazzata in alcune zone, come se avesse respirato fumo e cenere. Un piccolo talloncino cucito all’interno riportava un solo kanji:
灰 — “hai”,
cenere.

Hana, incuriosita, portò la collezione con sé nella casa ereditata. L’abitazione era immersa nel silenzio di un giardino incolto. Nella stanza principale, antichi fusuma scorrevano con un sussurro, e il pavimento di tatami odorava di legno e passato. Prese il kimono bruciato e lo distese con attenzione. Fu allora che notò qualcosa che la seta, sotto la luce lunare, sembrava voler rivelare: ricami nascosti, visibili solo da una certa angolazione. Sembravano rappresentare una città, un ponte, fiamme, e in un angolo, una donna con un parasole.

Quella notte Hana sognò una voce femminile che cantava una melodia dolce e malinconica. Al suo risveglio, trovò un vecchio biglietto scivolato dal kimono, scritto in una calligrafia curva:
“Non tutto ciò che arde è perduto. La memoria sopravvive, cucita tra i fili.”

Iniziò così la sua ricerca. Scoprì che la zia, Ayako, era sopravvissuta al grande bombardamento di Tokyo nel 1945. Era una sarta, e durante una notte di fuoco aveva cucito quel kimono usando pezzi recuperati dai resti della sua bottega. Ogni tratto annerito era una ferita, ogni ricamo un tentativo di ricordare ciò che non poteva essere salvato.

Hana decise di restaurare il kimono, ma non per riportarlo allo splendore originario. Voleva renderlo leggibile. Con l’aiuto di un artigiano di Kyoto, creò un’esposizione: “Seta e cenere – Memorie cucite nella guerra”. Il kimono annerito divenne un simbolo di resistenza poetica, l’unione di fragilità e tenacia, bellezza e dolore.

Ogni sera, prima di chiudere la mostra, Hana si fermava davanti a quel tessuto. E le sembrava ancora di udire, tenue come un respiro, la voce di Ayako sussurrare attraverso i fili:

“Anche ciò che brucia può fiorire di nuovo.”

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