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Sotto i ciliegi di Arashiyama

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Capitolo 1 – Il profumo del tè tostato

Il piccolo ryokan dove Sofia alloggiava si trovava ai margini del bosco di bambù di Arashiyama, incastonato tra il fruscio dei canneti e il richiamo sommesso dei corvi. Era una costruzione di legno scuro, con le pareti scorrevoli in carta di riso e un giardino interno dove l’acqua di una fontana di pietra cadeva ritmicamente, come un metronomo ancestrale.

Il mattino era umido e sottile, la nebbia lambiva le colline come dita pallide. Sofia aprì la porta della sua stanza e si ritrovò immersa in un silenzio che sapeva di muschio, legno bagnato e tè hojicha appena tostato, che la padrona di casa stava preparando nella cucina.

Scese le scale di legno che scricchiolavano come se volessero parlare, e si fermò ad ascoltare.

Un vecchio grammofono emetteva una melodia lenta, quasi incerta, come un ricordo che riaffiora dal fondo della memoria. Sembrava una musica degli anni ’50, forse proprio di quegli anni in cui sua nonna aveva calcato questi stessi sentieri. Ogni nota pareva chiamarla per nome.

La padrona del ryokan, una donna dai capelli raccolti con un pettine in madreperla, le porse una tazza di tè fumante senza dire una parola. Il calore attraversò le mani di Sofia e si diffuse in lei come una carezza. Il gusto era affumicato, profondo, con una nota di terra e legna antica. La bevanda giusta per i segreti.

Sofia tornò nella stanza e riaprì la valigia. Tirò fuori il kimono e lo stese sul tatami con una cura istintiva. Ogni filo sembrava tessuto da un gesto preciso, ogni ramo di ciliegio ricamato con la pazienza di chi non ha più tempo da perdere.

Senza sapere esattamente perché, prese un foglio bianco e iniziò a scrivere. Le parole le arrivavano da sole, lente e piene.

“Oggi il cielo ha il colore del tè bruciato.
Ho sognato di nuovo quel viso,
ma questa volta mi guardava.”

La calligrafia incerta tracciava sul foglio un ponte tra mondi. Era come se qualcuno, da molto lontano, stesse ancora ascoltando.

Fuori, il vento si era alzato. Le fronde di bambù si inclinavano a tratti, come se stessero indicando una direzione.

Sofia si alzò e, con il kimono piegato sotto il braccio, uscì dal ryokan. Aveva un nome sulle labbra: Takeshi. E un’intuizione che le scaldava il petto.

Forse il passato non era soltanto qualcosa da ricordare.
Forse era un luogo dove si poteva ancora andare.

Capitolo 2 – Il custode delle maschere

La pioggia aveva lasciato pozzanghere limpide sulle pietre levigate del sentiero, e ogni passo di Sofia sollevava piccoli cerchi sull’acqua, come se l’avesse chiamata lei stessa. Il cielo era basso, grigio latte, e Kyoto sembrava trattenere il respiro, in attesa.

Seguendo la mappa ricevuta in biblioteca, Sofia raggiunse un quartiere tranquillo, lontano dalle vie dei turisti. Lì, incastonata tra un tempietto di legno annerito dal tempo e una casa dai balconi colmi di bonsai, trovò la bottega che cercava: un minuscolo laboratorio artigiano che pareva uscito da un sogno kabuki.

L’insegna, scritta in kanji scoloriti, diceva:
風の面 – “Le maschere del vento”

All’interno, il tempo sembrava essersi fermato. L’odore del legno di cipresso, della colla di riso e della lacca riempiva l’aria come un incenso sottile. Appese alle pareti, centinaia di maschere osservavano il mondo con occhi fissi e muti: demoni oni, spiriti yūrei, volpi kitsune dai sorrisi ambigui. C’era una solennità, quasi un sacro timore, in quel silenzio scolpito.

Dietro un tavolo basso, un uomo anziano intagliava con mani ferme il volto di un guerriero. Aveva sopracciglia folte, capelli raccolti in una coda sottile e una tunica color indaco consumata dal tempo. Non alzò lo sguardo subito.

«Sto lavorando a un generale del clan Taira», disse in un italiano lento ma preciso, senza sorpresa nella voce. «Ma oggi non sei qui per i Taira, vero?»

Sofia esitò. Poi estrasse il kimono e lo distese sul tavolo, come si offre una domanda.

L’uomo smise di scolpire. Posò il pialletto con un gesto rispettoso, quasi rituale. Le sue dita passarono sulla seta con un tremore appena percettibile, come se accarezzasse un’assenza.

«Questo… l’ho visto danzare, tanti anni fa», mormorò. «Era sul palco del Minami-za. C’era un attore giovane… Takeshi. Il suo onnagata era così perfetto che il pubblico dimenticava fosse un uomo.»

Un nodo si strinse nel petto di Sofia.
«E lei lo conosceva?»

L’uomo annuì lentamente. «Eravamo amici. Ma era un solitario. Diceva che il teatro era l’unico posto dove poteva essere vero. Dopo la guerra, molti come lui avevano solo due rifugi: l’arte… o l’oblio.»

Sofia si sedette sul tatami, sopra una stuoia profumata di tè verde e fumo di legna. La sua pelle percepiva la freschezza del pavimento sotto la gonna. L’aria odorava di mistero e nostalgia.

L’uomo tornò verso una parete e prese una piccola maschera. Era il volto di una donna che piange.
«Questa… l’ha scolpita Takeshi. Non la mostrò mai a nessuno. Ma io so chi era il volto.»

Gliela porse. Sofia ne seguì con le dita i tratti delicati. Le labbra socchiuse. Gli occhi chiusi. Un’espressione di addio trattenuto.

«Era tua nonna.»
La voce dell’uomo era un sussurro.

In quel momento, il vento scosse le finestre di carta con un lamento profondo. La maschera tremò tra le mani di Sofia, ma non cadde.

Il tempo stava aprendo uno spiraglio.
E lei era pronta a entrarci.

Capitolo 3 – La stanza del vento

Il pomeriggio si era fatto più chiaro, come se il cielo avesse smesso di trattenere il fiato. Le nuvole si aprivano a tratti lasciando filtrare una luce opaca, quasi madreperlacea, che si posava sulle strade umide e sui tetti curvi delle case come una benedizione silenziosa.

Sofia camminava piano, con la maschera tra le mani avvolta in una stoffa nera. Le dita le formicolavano ancora per l’eco di quella rivelazione. Ogni passo rimbombava nei vicoli come se il passato la stesse seguendo da vicino.

La destinazione era un ryotei, una vecchia casa da tè trasformata in spazio per performance private. Si diceva che lì, una sera di primavera del 1953, Takeshi avesse danzato per una sola spettatrice. Un’ultima esibizione. Nessuno sapeva se fosse leggenda o verità, ma qualcosa nell’aria di Kyoto faceva sembrare tutte le leggende più reali della vita stessa.

Quando Sofia arrivò, il portale di legno era semiaperto. Nessun cartello. Nessun suono. Solo il cinguettio liquido di un uccello tra i pini.

Entrò.

La casa era immersa in un odore di tatami, legno vecchio e sakè versato da tempo. I pannelli di carta lasciavano filtrare una luce dorata, e il silenzio era così denso che si udiva il battito delle palpebre.

Nel cuore della casa, una stanza vuota. Nessun mobile, solo il pavimento lucido e un piccolo palco rialzato, con un fondale dipinto a mano: rami di ciliegio che si inclinavano sopra un fiume azzurro.

Sofia posò la maschera e si inginocchiò. Sentiva il corpo cedere a una stanchezza antica, come se in quella stanza il tempo non scorresse in linea retta. Una brezza leggera le sfiorò il viso, pur con tutte le porte chiuse. Aveva l’odore del legno scaldato dal sole, della pelle dopo il trucco kabuki, dell’incenso che si spegne lentamente.

Poi udì il suono. Un passo, lieve. O forse un battito.
E subito dopo, il fruscio di una manica di seta che si alza.

Non c’era nessuno.

Eppure, nella parete di fronte, le venne incontro un’ombra danzante. Era proiettata come da una luce invisibile. La sagoma era maschile, ma indossava un kimono da donna. I gesti erano lenti, fluidi, di una bellezza struggente. Una danza di addio. Una danza per ricordare.

Sofia trattenne il respiro. Le lacrime non caddero: le restarono dentro, tiepide, come pioggia non ancora nata.

Quando l’ombra svanì, la stanza sembrava più ampia. La luce più intensa. E la maschera…
…la maschera piangeva davvero.

Una goccia, umida, brillava sull’occhio scolpito.
Forse condensa. O forse no.

Sofia capì che la verità non sempre si rivela.
A volte danza, leggera, in una stanza dove il tempo ascolta.

Capitolo 4 – Il ponte dei nomi segreti

Il mattino dopo, Sofia si svegliò con il cuore colmo di un’attesa che non sapeva nominare. Il cielo era terso, tinto di un azzurro fragile come porcellana. Una luce nuova entrava dalla finestra, accarezzando il pavimento in silenzio.

Sapeva dove andare.
Non per logica, ma per una sensazione che affiorava tra pelle e memoria.
Il kimono era pronto, disteso sulla stuoia come un’eco di qualcosa già vissuto.

Sofia lo indossò lentamente, lasciando che la seta scorresse sulla pelle come acqua. Ogni nodo, ogni piega, sembrava disegnare un percorso invisibile. All’uscita del ryokan, la padrona di casa le mise tra le mani un piccolo ventaglio dipinto con ciliegi in fiore. Non disse nulla. Solo un inchino.

Attraversò la città come in sogno. Il rumore delle ruote delle biciclette, i passi dei bambini che andavano a scuola, il profumo dei fagioli dolci nelle panetterie: tutto sembrava più nitido, più vicino, come se il mondo si fosse avvicinato per ascoltare.

Raggiunse finalmente il Togetsukyō, il Ponte che Attraversa la Luna. Lì, dove il fiume Katsura si allarga e riflette il cielo, aveva inizio la leggenda. Si diceva che Takeshi vi passasse ogni giorno prima delle sue esibizioni, per placare il respiro e offrire silenzio agli spiriti del fiume.

Sofia camminò sul ponte. Il legno scricchiolava sotto i sandali. Il vento le sollevava i capelli e portava con sé il profumo dell’acqua e delle montagne. Ai lati, i ciliegi, ancora spogli, estendevano i loro rami come braccia in attesa.

Si fermò al centro.
Il fiume scorreva lento, lucente come seta liquida.

Fu lì che notò le iscrizioni: piccoli nomi incisi nel legno, invisibili a un primo sguardo. Nomi in kanji, tracciati a mano, alcuni appena leggibili. Forse ex attori, forse viandanti, o anime innamorate che avevano affidato al ponte un frammento della loro esistenza.

Tra quei segni antichi, Sofia trovò due nomi incisi l’uno accanto all’altro:
隆 – Lucia.
武志 – Takeshi.

Il cuore le batté forte.
Li accarezzò con la punta delle dita, e il legno, levigato dal tempo, sembrava vibrare sotto la pelle.

Poi, senza pensarci, prese dalla borsa una piccola penna a inchiostro e tracciò, con la stessa calligrafia tremante della lettera, un terzo nome accanto ai due.

ソフィア – Sofia.

Il vento si alzò all’improvviso, sollevando foglie secche in una spirale danzante. Un piccolo petalo rosa, inspiegabile in quella stagione, atterrò sulla spalla del kimono.

Sofia chiuse gli occhi. E sentì una presenza alle sue spalle. Non un rumore. Solo un calore. Un silenzio che non era vuoto, ma pienezza.

Si voltò.
E vide.

Capitolo 5 – L’eco di una promessa

Era in piedi poco più in là, tra i rami spogli di un ciliegio, avvolto in un haori color fumo e silenzio.
Takeshi.

Non un fantasma. Né un sogno. Ma qualcosa di più sottile, come l’odore del legno bruciato che resta nell’aria anche dopo che il fuoco si è spento.

Sofia non provò paura.
Il suo corpo riconobbe prima della mente.
E la mente non cercò spiegazioni.

L’uomo la guardava con occhi pieni di malinconia e riconoscenza, come si guarda un porto che si è creduto perduto. Il volto era lo stesso della fotografia trovata in biblioteca, ma segnato dal tempo interiore di chi ha aspettato a lungo.
Molto a lungo.

Tra loro, il fiume mormorava parole che solo l’acqua sa pronunciare.

Takeshi si inchinò lentamente. E in quel gesto, Sofia sentì il peso degli anni dissolversi.
Poi parlò, e la sua voce era come seta sfiorata dal vento:
«Grazie per essere tornata. Anche se non eri tu… eri tu.»

Sofia si inginocchiò.
Tra le mani, la maschera lasciata nella stanza del vento.
Gliela porse.

Lui la prese, con dita che tremavano appena, e la sollevò al viso. Non per nascondersi, ma per compiersi.
Poi danzò.

Lì, in mezzo al ponte, sotto il cielo d’inverno, Takeshi danzò come l’ultima volta.
Non per un pubblico. Non per il teatro.
Ma per una donna che non c’era più…
…e per una nipote che aveva raccolto il filo spezzato del tempo.

Sofia restò immobile, eppure tutto dentro di lei si muoveva: il respiro, la memoria, il sangue.

Quando la danza finì, il vento si placò.
Il ponte era di nuovo vuoto.

Solo il rumore lento dell’acqua e il profumo dolce del legno bagnato.
Ma qualcosa, in lei, era stato riparato.

Aveva chiuso un cerchio.
Aveva ascoltato una voce rimasta sospesa per decenni.
Aveva dato compimento a una promessa fatta in un’altra vita.

Epilogo – Come ali di seta

Il giorno dopo, Sofia tornò sul ponte, ma senza il kimono.
Lo aveva piegato con cura e lasciato in dono nella piccola bottega delle maschere, dove il vecchio artigiano lo aveva accolto come si accoglie un’eredità.

I ciliegi erano ancora spogli, ma nei rami più alti qualcosa si stava muovendo. Boccioli invisibili al tatto, ma percepibili come un sussurro nella pelle.
La primavera non era ancora arrivata, ma esisteva già nell’aria.

Con sé, Sofia portava solo il ventaglio dipinto e la lettera, che ora riusciva a leggere parola per parola. L’aveva fatta tradurre completamente: la calligrafia era quella di Takeshi, ma il tono, ora che lo conosceva, le pareva pieno di una dolcezza che non aveva colto prima.

“Tornerai, anche se non sarai tu.
E io sarò qui, anche se non sarò più.”

Sedette a guardare il fiume per l’ultima volta.
Il ponte, le acque, il bosco, tutto pareva uguale, ma non lo era.
Qualcosa, in lei, si era fuso con quel luogo.

Sofia tornò in Italia qualche giorno dopo, con pochi oggetti e molti silenzi.
Ma da allora, ogni anno, quando sbocciano i ciliegi, indossa un kimono semplice – uno nuovo, suo – e accende un incenso nella stanza più luminosa della casa.
E lì, tra l’aroma dolce del legno e i ricordi che sanno di tè e seta, chiude gli occhi e rivede la danza.

Non tutte le storie d’amore hanno bisogno di durare per essere eterne.
Alcune esistono per ricordarci che il tempo non è una linea, ma un cerchio.

E che certe promesse viaggiano leggere,
come petali sul vento,
fino a posarsi su chi ha cuore abbastanza per ascoltarle.

🌸 Glossario – Termini e riferimenti culturali giapponesi


Arashiyama (嵐山)
Letteralmente “montagna della tempesta”, è un quartiere storico e paesaggistico di Kyoto, noto per i suoi boschi di bambù, il ponte Togetsukyō e le spettacolari fioriture di ciliegi (sakura). Simbolo di bellezza stagionale e contemplazione.


Kimono (着物)
Indumento tradizionale giapponese, composto da un’unica stoffa lunga drappeggiata e legata da una cintura (obi). Più che un semplice abito, è un simbolo identitario e culturale, spesso associato a riti, ricordi e passaggi di vita.


Calligrafia giapponese (shodō – 書道)
Arte spirituale e gestuale che unisce estetica e scrittura. Ogni tratto contiene intenzione e ritmo, come una forma di meditazione. Spesso utilizzata per lettere, poesie e messaggi cerimoniali.


Onnagata (女形)
Attore kabuki specializzato nell’interpretazione di ruoli femminili. Figura di grande raffinatezza e tecnica, capace di incarnare l’essenza del femminile attraverso il gesto e la voce. Takeshi era un onnagata.


Kabuki (歌舞伎)
Forma di teatro tradizionale giapponese nata nel XVII secolo, caratterizzata da costumi elaborati, trucco scenico (kumadori), e movimenti altamente stilizzati. Un’arte che fonde dramma, danza e musica.


Ryokan (旅館)
Tradizionale locanda giapponese, spesso in stile minimalista con stanze di tatami, futon e bagni termali (onsen). Luoghi di quiete, spiritualità e immersione nell’estetica wabi-sabi.


Ryōtei (料亭)
Elegante casa da tè o ristorante tradizionale dove si svolgevano banchetti e spettacoli riservati. Spazi di raffinatezza, un tempo accessibili solo a classi elevate.


Togetsukyō (渡月橋)
Il “ponte che attraversa la luna”, simbolo di Arashiyama. Costruito originariamente durante il periodo Heian, è avvolto da leggende romantiche e associato alla riflessione e all’attesa.


Hōjicha (ほうじ茶)
Tè verde tostato a fuoco vivo, dal sapore affumicato e delicato. Spesso servito nei mesi freddi per il suo effetto calmante. Il suo profumo è legato all’ospitalità giapponese.


Kitsune (狐)
Volpe nella mitologia giapponese, spesso spirito protettivo o ingannatore. Compare anche come maschera rituale o elemento teatrale nel kabuki e nel . Simboleggia metamorfosi, seduzione e confine tra mondi.


Wabi-sabi (侘寂)
Estetica giapponese che celebra l’imperfezione, la transitorietà e la bellezza dell’incompleto. È la poesia delle cose che sfioriscono, come un fiore di ciliegio che cade.


Obake / Yūrei (幽霊)
Spiriti dei defunti nella tradizione giapponese. Non necessariamente malvagi, rappresentano emozioni sospese come amore, rabbia o dolore rimasti irrisolti.


Ventaglio giapponese (sensu 扇子)
Strumento simbolico e coreografico, usato nella danza e nella comunicazione. Il ventaglio può esprimere emozioni, stagioni o ruoli teatrali. In questo racconto, è un dono che apre il gesto poetico del viaggio.

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