«È arrivato l’autunno, a quanto pare!» disse Ryuji, osservando il cielo grigio fuori dalla finestra della cucina. Il padre di Aya si stava preparando ad andare al lavoro, ma era stranamente silenzioso, assorto in chissà quali pensieri. Hana lo riportò bruscamente alla realtà, tanto che l’uomo ebbe un piccolo sobbalzo.
«Ricordati questo, probabilmente ne avrai bisogno» disse porgendogli l’ombrello. Lui la guardò con dolcezza, poi salutò affettuosamente lei e Aya, accarezzò Yoru che l’attendeva sulla soglia, ed uscì per affrontare quella nuova giornata.
«Che cos’ha papà?» chiese Aya alla madre.
Hana la fissò negli occhi, come se stesse scegliendo con cura le parole. «Sai Aya, l’autunno gli mette sempre un po’ di malinconia, lo dovresti sapere.»
«Questa volta è diverso… è per la signora Akiko, vero?»
Hana socchiuse la finestra: una brezza sottile portava con sé brividi leggeri. Rimase qualche istante a guardare la figlia e poi disse: «Sì, è per Akiko…»
Era stata un’estate insolita per la famiglia Takamura. Avevano trascorso alcuni giorni a Osaka, ospiti di una vecchia zia, ufficialmente per aiutarla a rimettere in ordine la casa ormai bisognosa di lavori. In realtà, zia Chieko era rimasta sola da qualche anno e un po’ di compagnia le faceva bene all’anima.
Il ritorno a Kyoto fu segnato da una notizia che cambiò ogni prospettiva. La vecchia Akiko, proprietaria della Locanda della Luna, era morta durante la loro assenza. La notizia sconvolse il quartiere: Akiko era amata e rispettata, un punto fermo della comunità. Aya ne rimase profondamente colpita: benché avesse 107 anni, sembrava ancora un’arzilla settantenne.
Ma lo stupore non finì lì. Poco dopo, i Takamura scoprirono che Akiko aveva lasciato tutto a loro.
Non aveva eredi, e si era affezionata a tal punto ad Aya da considerarla una nipote. Ryuji stesso la sentiva come una seconda madre: l’aveva visto crescere, lo aveva consigliato, quasi guidato. Era una storia fatta di legami invisibili e radici profonde.
«Da domani molte cose cambieranno, piccola mia. Mi dovrò rimettere in gioco e prendere in mano la locanda. Spero di essere all’altezza di Akiko. Ma so che ci sarai tu alla taverna ad aiutarmi, vero Aya?»
«Certo mamma, ci sarò sempre. E sono sicura che ce la farai.»
In quei giorni la locanda e la taverna restarono chiuse: avrebbero riaperto la settimana successiva, dopo le pratiche burocratiche e qualche ritocco alle stanze. Nulla di stravolgente, solo un tocco di ammodernamento. L’anima del posto non doveva cambiare: quella era di Akiko, e rimaneva sacra.
Quella sera, con il cielo ancora carico di nubi, Aya decise di sfidare la pioggerella e uscire a passeggiare con Yoru. Il gatto avrebbe preferito restare aggomitolato sul suo cuscino, ma si adattò, sornione, a rischiare due gocce di pioggia.
Camminarono lungo la solita strada che portava alla taverna. Poche persone incrociarono il loro passo, tutte con l’ombrello, tutte frettolose. Il cielo incombeva minaccioso. Giunti davanti alla locanda, Aya e Yoru si fermarono. La kominka, antica e solida, sembrava osservarli a sua volta.
All’improvviso la pioggia cessò. Yoru si stiracchiò, soddisfatto, e ringraziò con un sonoro miao. Aya sorrise, ma la mente corse subito ai ricordi: Akiko sulla soglia, pronta ad accoglierla.
«Buonasera Aya-chan, pronta ad affrontare un’altra serata con quei matti dei tuoi clienti?» diceva spesso, accarezzando Yoru.
“Mi mancheranno i tuoi saluti, mi mancherai tu, Akiko-san…”
«Scusate!»
Aya si voltò di scatto: alle sue spalle c’era una donna in un elegante kimono azzurro ornato da gru. I capelli raccolti, sulla quarantina, un sorriso dolce e quieto.
«Posso disturbarla, signorina?»
«Sì, non mi disturba affatto. Posso esserle d’aiuto?»
«Spero di sì. Vengo da Miyama, ho saputo della morte della signora Akiko. Lei è una sua parente?»
Aya esitò un istante.
«In un certo senso… credo di sì.»
La donna abbassò lo sguardo, accennando un sorriso. «È una risposta gentile, rispettosa. Non potevo aspettarmi altro…» sussurrò.
«Come ha detto?» chiese Aya, incuriosita.
«Nulla, non ci faccia caso… a volte parlo da sola.»
Seguì un breve silenzio, quasi irreale, poi la donna proseguì:
«Io e la mia famiglia non abbiamo potuto partecipare al funerale, ma volevamo onorare Akiko-san. Così abbiamo pensato di portare qui, in un luogo che lei amava, questo fiore.»
Dalla borsa in tela gialla estrasse un vaso di ceramica lucida. Dentro vi era un fiore straordinario.
Aya lo osservò rapita: non lo aveva mai visto, se non evocato da qualche racconto. Lo stelo sottile si ergeva con fierezza, privo di foglie, come se volesse mostrarsi al mondo senza filtri. I petali, rossi e sottili, ricurvi all’indietro come lingue di fiamma, facevano risaltare gli stami che vibravano come fili di seta nell’aria. Sembrava un fiore nato da un sogno, fragile e inesorabile al tempo stesso.
«Higanbana», disse la donna. «in Giappone lo chiamiamo fiore dell’equinozio, simbolo di separazione e ricordo.»
Aya lo fissò con stupore. Ne aveva udito parlare, ma vederlo dal vivo la colpì come una rivelazione: sembrava custodire un segreto antico, un presagio che la riguardava più di quanto potesse ancora capire.
Aya tese le mani e accolse il fiore. Per un istante ebbe l’impressione che il mondo svanisse, ridotto solo a quell’ardente presenza. Si riscosse quando la donna parlò di nuovo.
«Credo di averlo dato alla persona giusta. Ora devo tornare a casa, è tardi e potrebbe scoppiare un temporale.»
«E il fiore?» chiese timidamente Aya.
«È tuo ora, Aya-chan. Abbine cura. E abbi cura anche di quei matti dei tuoi clienti: sono brave persone.»
La donna fece un inchino profondo e si allontanò.
Aya rimase immobile. Come sapeva il suo nome? E quella frase… i tuoi clienti…
Le domande la seguirono fino a casa, dove rientrò appena prima che il temporale esplodesse.
Ryuji era seduto in poltrona a leggere Murakami, il suo autore preferito. Yoru corse sul cuscino in attesa delle crocchette. Hana la accolse sorridendo, ma quando vide il fiore la sua espressione cambiò.
«Da dove viene?» chiese. Aya le raccontò dell’incontro, e Hana rimase colpita dal dettaglio di Miyama.
«È strano… a quest’ora, da Miyama? Sei sicura?»
«Sì. E aveva un aspetto familiare, ora che ci penso bene…»
Hana osservò per un attimo il fiore. «Che strano… Akiko era nata proprio a Miyama.»
In quel momento, una folata di vento fece tremare i petali, come se qualcuno, invisibile, avesse sorriso.
Quella notte, nella sua stanza, con Yoru già addormentato, Aya posò lo sguardo sul fiore. Ripensò a quell’incontro fugace e i dubbi riaffiorarono:
“Come faceva a conoscere il mio nome? E quei matti dei miei clienti… Somigliava ad Akiko. E se…”
Si addormentò così, mentre il fiore, silenzioso sul comodino, sembrava vegliare su di lei, con i petali che al buio parevano vibrare come fiamme.
Note
Kominka (古民家)
Antiche abitazioni tradizionali giapponesi, spesso in legno, con tetti spioventi in paglia o tegole. In passato erano tipiche delle zone rurali, ma molte sono state recuperate e adattate a locande, caffè o case per ospiti. Mantengono il fascino delle case di una volta, con travi a vista e ambienti essenziali.
Higanbana (彼岸花 – Lycoris radiata)
Conosciuto in Italia come Giglio Ragno Rosso, è un fiore che sboccia all’equinozio d’autunno. In Giappone è legato alla tradizione buddhista: cresce spesso vicino a templi e cimiteri, diventando simbolo di separazione e addio. I suoi petali rossi e sottili, simili a fiamme, evocano la bellezza effimera e il confine tra la vita e la morte.