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Le Cronache di Seimei: il respiro del rancore

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Mi chiamo Hisao, Hisao Takamura. Sebbene le mie mani tremino e i miei occhi lacrimino per la luce del giorno, la notte mi porta ancora i sogni di un tempo lontano. Quella volta, l’anno era il terzo dell’era Tentoku. I fiori di pruno tardavano a sbocciare, come se l’inverno non volesse cedere il passo, e sopra Heian-kyō gravava una nebbia che non veniva dalla terra, ma dal cuore delle persone.
Fu allora che un messaggero imperiale venne a cercare il mio maestro.
Abe no Seimei, mio mentore e guida, era intento a disegnare sul pavimento del suo studio i diagrammi delle dodici direzioni celesti, quando il tamburo del palanchino risuonò fuori dalla porta. Il messaggero portava un ventaglio nero, segno che la richiesta veniva dalla moglie dell’Imperatore stesso: la dama Fujiwara no Anshi.
«Una giovane dama della corte, Azusa no Aimi, figlia della nobile casata degli Azusa, è colpita da una malattia che sfugge alla medicina» disse il messaggero. «La notte la prende una febbre ardente. Grida nel sonno. E all’alba, non si sveglia. Resta tra la vita e la morte, come un fiore chiuso sotto la neve.»
Seimei non parlò. Tracciò un ideogramma invisibile nell’aria con il dito e si alzò. Portò con sé un piccolo ventaglio di cipresso, un rotolo di carta di riso e una sottile scatola laccata che sapevo contenere i suoi ofuda — i talismani scritti con inchiostro misto a sangue di gallo nero.
«Andiamo, Hisao. C’è un’anima che ha dimenticato la via.»
Il Palazzo del Padiglione Occidentale era avvolto da tende di broccato e silenzi nervosi. La dama Azusa giaceva su un letto basso, il viso bianco come cera, il corpo scosso da tremori. Intorno a lei, medici, monaci, lettori di sutra. Ma nessuno osava toccarla.

Il suo respiro era affannoso. A tratti parlava nel sonno con voce che non era la sua. E c’erano parole che nessuno voleva ripetere.
Seimei si inginocchiò. Posò un ofuda sulla fronte della ragazza. Lo vidi irrigidirsi. I suoi occhi si fecero sottili come quelli di un felino. Poi disse: «Non è malattia. È rancore. È memoria che sanguina.»
Scoprimmo che ogni notte, sempre alla stessa ora, Azusa cadeva in delirio e una nebbia densa invadeva la stanza. Quella notte rimanemmo lì, nascosti dietro un paravento.
Allo scoccare della seconda vigilia, la fiamma della lampada tremò. Un vento freddo attraversò il tatami. E poi apparve.
Era una donna. O almeno ciò che ne restava. I capelli lunghi e sciolti, come alghe di un fondo paludoso. Il viso era pallido e gonfio, la bocca dischiusa in un urlo eterno. I suoi occhi… erano pieni di morte.
Una yūrei.
La fissammo mentre si piegava sulla dama Azusa. Le sue dita d’ombra sfioravano il petto della ragazza, come per strapparle il cuore.
«Fermati!» ordinò Seimei, alzandosi in piedi.
Il fantasma emise un lamento che fece vibrare le pareti. Ma Seimei tracciò un cerchio d’argento intorno al futon con il polline di pino, recitò una formula antica e lanciò un ofuda verso l’apparizione.
Il talismano colpì la fronte del fantasma come un fulmine silenzioso. La figura indietreggiò, e per un istante, la vidi trasformarsi: era bellissima, con un kimono consunto da principessa. I suoi occhi, un tempo di ossidiana, si riempirono di lacrime.
«Perché perseguiti questa fanciulla?» chiese Seimei.
La yūrei parlò con voce spezzata: «Perché la sua stirpe ha macchiato la mia… Un uomo… suo avo… mi prese con la forza, e poi mi annegò nel laghetto del Padiglione Est. Il mio corpo è ancora là sotto. Nessuno seppe. Nessuno cercò. Nessuno piange per me.»
Seimei abbassò lo sguardo. Poi sussurrò: «Questa giovane, Azusa, è anch’ella vittima di una violenza. Sua madre fu posseduta da un uomo senza onore. Non conosce il padre. Anche lei… è frutto di un’ingiustizia. Fu adottata dal clan Azusa, di cui la madre, uccisasi per lavare il suo onore, faceva parte.»
La yūrei tremò. I capelli le caddero come fili sciolti. Per la prima volta, la vidi umana. Piangeva. Le sue mani tremavano.
«Tu… dici il vero?»
Seimei annuì. «Lei è te, cento anni dopo. Non punirla per ciò che non ha fatto. Il tuo dolore ha già attraversato abbastanza generazioni.»
La donna fantasma chinò il capo. Si inginocchiò accanto alla dama Azusa e le sfiorò la guancia. «Mi chiamo Fuji no Tsuyu», disse. «Voglio solo la pace.»
Poi guardò Seimei e sussurrò: «Ma tu, figlio di Kuzunoha… stai attento.»
«Attento a cosa?» chiese Seimei.
Fu allora che Tsuyu disse le parole che ancora oggi ricordo, scolpite nel mio cuore come su legno antico:
«Se sei nato da una Volpe, ricorda che anche tra loro si celano pericoli. Attento, Seimei-san. Attento alla minaccia che si nasconde nell’ombra.»
E svanì come nebbia dissolta dal primo sole.
Quando Azusa si svegliò, il giorno seguente, cantava un’antica ninna nanna che nessuno le aveva mai insegnato. Piangeva, ma senza sapere il perché. Da quel giorno non fu più tormentata.
La sua bellezza divenne proverbiale, ma rifiutò ogni proposta di matrimonio. Si fece monaca e visse fino a tarda età in un convento alle pendici del monte Kurama. Qualcuno narra che, al suo risveglio, il primo uomo che vide fu proprio Seimei, e di lui si innamorò e… beh, questa è un’altra storia!

Quanto a Seimei, fece sondare il lago dove Fuji no Tsuyu era stata annegata. Furono trovati antichi resti, ciò che l’acqua non aveva consumato. Fece chiamare i discendenti della famiglia Fuji, cui Tsuyu era appartenuta, e fece celebrare una funzione funebre per quella povera donna. Finalmente qualcuno pianse per lei.
Io ero lì. Avevo quindici anni e occhi grandi per il terrore e lo stupore. Ma quella notte imparai cosa significasse davvero servire Abe no Seimei.
Non si trattava solo di scacciare demoni o scrivere talismani. Si trattava di ascoltare i morti. E, quando possibile, guarire anche loro. Non serviva solo apprendere l’uso di grandi poteri, ma avere qualcosa di più: pietà e compassione.
Molte altre storie potrei ancora raccontare. Di draghi sepolti sotto le vie di Heian. Di specchi in cui si annidano volti dimenticati. Di un corvo parlante che un giorno, proprio a me, profetizzò la fine di un’epoca.
Ma la storia della dama Azusa e del fantasma della donna chiamata Tsuyu fu la prima in cui vidi, con occhi spalancati e mani tremanti, quanto possa essere sottile il confine tra la vita e la morte.
Quella notte Seimei dormì poco. Al mattino lo vidi scrivere in silenzio tre volte la parola kitsune sul suo ventaglio. E poi bruciarlo.
Persino io percepii, allora, che qualcosa si stava muovendo nell’ombra e che, prima o poi, Seimei avrebbe dovuto affrontarla.
Con il mio aiuto, ovviamente.

Glossario
Abe no Seimei (安倍晴明) – celebre onmyōji (indovino e mago di corte) dell’epoca Heian.
Onmyōji (陰陽師) – maestro della disciplina dell’onmyōdō, arte esoterica che combina astronomia, magia e divinazione.
Ofuda (お札) – talismano o sigillo esorcistico scritto su carta o legno.
Yūrei (幽霊) – spirito o fantasma giapponese legato a un forte rancore o desiderio irrisolto.
Kariginu (狩衣) – abito cerimoniale indossato dagli aristocratici.
Kitsune (狐) – volpe, spesso associata al soprannaturale nella mitologia giapponese.

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