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Shizuka e Yoshitsune – La danza tra i glicini (parte 4 di 7)

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Aya si stiracchiò con un sospiro, chiudendo la taverna dopo che il signor Okabe aveva salutato per andare a svolgere il suo lavoro notturno. Erano già le due. Il silenzio della notte avvolgeva la strada come un velo leggero, e l’assenza di Nao rendeva tutto stranamente più tranquillo. Quella sera doveva fare un servizio fotografico per una casa di moda di Kyoto. Accanto a lei, Haruki, che si era offerto di darle una mano, sembrava più nervoso del solito.
«Grazie per avermi aiutata. Questa sera c’era davvero tanta gente», disse Aya, accennando un sorriso.
Haruki annuì senza dire nulla. Poi, con un movimento rapido e inaspettato, si avvicinò e le sfiorò la guancia con un lieve bacio. Aya si bloccò di colpo, gli occhi spalancati per la sorpresa. Yoru osservava la scena con la coda leggermente ondeggiante, un lampo di divertimento nei suoi occhi felini. “Un comportamento poco ‘nipponico’, ma audace!” pensò divertito il gatto.
Aya non fece in tempo a dire nulla che Haruki arrossì violentemente, fece un passo indietro e, senza aspettare una reazione, si voltò salutando frettolosamente con un «Io… io… ciao!» e fuggì via più veloce di un ninja.
Aya rimase immobile per qualche istante, poi si voltò verso Yoru, ancora sconcertata.
«Non capisco, Yoru, ma che cosa è successo?»
“Eh eh…” pensò Yoru “… non è che ci voglia molto a capire, ma tu, amica mia, a volte sei un po’ troppo ingenua!”. Poi si leccò una zampa con calma sorniona, come se nulla fosse.
Aya scosse la testa, ancora incredula, e insieme si incamminarono verso il giardino dei glicini. Lei e Yoru avevano un altro appuntamento con Shizuka e Yoshitsune. La luna calante illuminava le fronde leggere che ondeggiavano al vento notturno.
Nel giardino, Yoshitsune e Shizuka, uno accanto all’altra, erano già lì ad attenderli.
«Bentornati…» disse Shizuka sorridendo, mentre il volto di Yoshitsune era particolarmente serio.
«Che è successo?» chiese la fanciulla, incuriosita dallo sguardo del samurai.
«Oh, il mio amato sta riflettendo. I ricordi delle nostre vite passate si fanno sempre più forti, a volte. Questa notte vuole raccontarvi di un episodio importante, forse quello più importante, della guerra che sconvolse la nostra vita e la nostra epoca.»
Aya e Yoru si sedettero sulla solita panchina e, in silenzio, attesero che Yoshitsune iniziasse il suo racconto.

Il samurai si avvicinò ai due, come faceva ormai di consueto. Li osservò negli occhi, accennò un debole sorriso, nonostante la serietà del suo volto, e iniziò a raccontare:
«Spero di non avervi spaventato con il mio atteggiamento, ma ciò che voglio raccontarvi è qualcosa che risveglia in me ricordi che preferirei non avere e mi fa sentire il peso delle mie responsabilità. È l’ultimo capitolo di una terribile guerra, quella tra i Taira e i Minamoto; il suo nome evoca da secoli tristi ricordi… Dan-no-Ura!»

Il Mare ricorda — Memorie di Minamoto no Yoshitsune sulla Battaglia di Dan-no-Ura

«Avevamo piegato Honshū. Avevamo preso Kyūshū. Eppure, non era finita. I Taira erano come l’ombra di un sole morente: ancora roventi, ancora in grado di bruciare, nonostante sapessero che il tramonto era vicino. Dopo averli battuti a Yashima, li inseguimmo sull’isola di Hikoshima, dove si erano trincerati tra gli scogli e la disperazione. Ma sapevo che la vera battaglia si sarebbe svolta nel mare stesso. Lì, il destino del Giappone sarebbe stato deciso.»
«Radunammo le nostre forze. Le mie, e quelle dei clan fedeli: i Watanabe di Settsu, i Kōno di Iyo, e i Kumano di Kii. Nave dopo nave, rematore dopo rematore, la nostra flotta prese forma come un grande drago disteso sul mare. Eravamo forti di ottocentoquaranta imbarcazioni secondo i resoconti più sobri. Tremila, dicono i poemi. Ero al comando, pronto a chiudere la pagina di un’epoca.»
«Il 25° giorno del quarto mese — era il 1185 — solcammo lo stretto di Kanmon. Di fronte a noi, la flotta dei Taira: cinquecento navi, forse mille, ma con uomini temprati dal sale e dal vento. I marinai Heike conoscevano quel tratto di mare come il palmo della mano. Avevano la corrente a favore, e navi leggere, affilate come le loro spade. Il nostro vantaggio numerico rischiava di affondare sotto la loro esperienza.»
«All’inizio fummo respinti. Le loro frecce cadevano su di noi, una pioggia letale. Le navi Minamoto, costrette a muoversi controcorrente, sembravano lottare contro il respiro stesso del mare. In quel momento capii che non bastava la forza. Ci voleva freddezza. Ordinai ai miei arcieri di colpire i timonieri e i rematori Taira, quelli che guidavano le navi. Non era onorevole, lo so, ma io non cercavo onore, cercavo la fine della guerra.»

«Fu allora che il mare mutò!»
«Le correnti cambiarono direzione verso mezzogiorno. Un alito divino ci sospinse. Il vento cambiò, e con esso la fortuna. Le nostre navi scivolarono come spade tra le file dei Taira. Li abbordammo. Li travolgemmo. Ed ecco il tradimento: Awa Shigeno, che aveva marciato per anni al fianco degli Heike, virò le sue trecento navi e colpì i suoi ex alleati. Fu lui a indicarci la nave dell’imperatore Antoku, e quella tragedia cominciò a scrivere con il sangue la sua ultima strofa.»
«I Taira, resisi conto che la marea della storia era cambiata per sempre, si arresero non ai nemici, ma al mare. Uno dopo l’altro, si gettarono tra le onde. Taira no Tokiko, la vedova del grande Kiyomori, prese il giovane imperatore tra le braccia. Lo guardò negli occhi — aveva solo sei anni — e gli sussurrò: “La capitale si trova sotto le onde.” Poi si immerse con lui, sparendo tra i flutti. Molte dame di corte e ancelle del clan Taira seguirono l’esempio di Taira no Tokiko e si gettarono in mare, scegliendo la morte piuttosto che la cattura da parte di noi Minamoto.»
«Molti li seguirono. Taira no Tomomori si legò un’ancora all’armatura e si lasciò andare. I suoi fratelli fecero lo stesso. Altri furono meno rapidi: Taira no Munemori fu catturato. Anche suo figlio. Noritsune, guerriero fiero come una montagna, cercò me tra le barche. Lo vidi avvicinarsi. Saltai via, da nave a nave, otto volte. Lo confusi. E allora, circondato, afferrò due dei miei uomini, uno per braccio, e si gettò in mare con loro, come un demone che si porta via le anime.»

«La nave imperiale fu abbordata. I Taira tentarono di gettare in mare i Tre Tesori Sacri: la spada Kusanagi no Tsurugi, la gemma Yasakani no Magatama e lo specchio Yata no Kagami…»
«Il gioiello fu recuperato. Lo specchio, anch’esso, strappato prima che potesse toccare l’acqua. Ma la spada no! Andò perduta per sempre tra le acque. Alcuni dicono che fu poi ritrovata e portata al santuario di Atsuta. Io credo invece che giaccia ancora laggiù, tra ciò che resta di chi vi morì e i sogni spezzati dei Taira.»
«Così finì il clan Taira. Con l’acqua salata negli occhi e la dignità tra le mani. Noi Minamoto avevamo vinto. La guerra Genpei era terminata. Ma il prezzo fu l’anima di un’epoca e troppe, troppe vite umane…»

Ancora una volta il tempo parve fermarsi. La luna era ancora alta nel cielo, ma attorno a loro vi era un silenzio innaturale. Perfino le creature che popolano la notte erano rimaste in silenzio ad ascoltare il racconto di Yoshitsune.
«Questa fu Dan-no-Ura, fanciulla dagli occhi verdi! Fu dopo quella battaglia che…»
«… che le cose cambiarono per noi due!» proseguì Shizuka.
«Fu un ritorno trionfale, eppure non fu un ritorno verso la pace. Yoshitsune aveva vinto guerre, piegato i mari, domato il fato con la spada e l’ingegno. Tornò a Kyoto con i prigionieri Taira, acclamato come un eroe, insignito di titoli, onorato dall’imperatore stesso, nominato governatore di Iyo, figlio prediletto di una nazione che sembrava inginocchiarsi al suo passaggio. Eppure, tutto questo splendore durò il tempo di un respiro.»
«La gloria, Aya-san, è una luce che acceca prima di spegnersi.»
«Dall’est di Kamakura, Yoritomo, suo fratellastro, ne osservava l’ascesa con occhi d’ombra. Non c’era gratitudine nel suo cuore, ma timore, e la paura genera potenti mostri nel cuore degli uomini…»
«Ma di questo dovremo parlare domani notte. Il nostro tempo, anche per questa notte, è al suo termine!» sentenziò Yoshitsune.
Si alzò una calda brezza ed il popolo della notte tornò a farsi sentire. L’incantesimo della quarta notte era finito e i due spiriti sparirono tra le ombre.

Aya e Yoru tornarono a casa, accompagnati dalle frasi del racconto di Yoshitsune. Una volta in camera sua, Aya si preparò a dormire quando sua mamma, ancora sveglia, entrò nella stanza inaspettatamente.
«Mamma, sei ancora in piedi?»
«Sì, tesoro, volevo darti questo», disse porgendole un oggetto.
Era un piccolo portachiavi, che non aveva mai usato per il suo scopo, preso al tempio Gōtoku-ji, a Tokyo: un piccolo Maneki-neko tutto nero.
«Lo ha portato prima Haruki, ha detto che l’ha trovato per terra e, sapendo che era tuo e che forse ti era caduto, ha deciso di portarlo qui, non sapendo dove fossi andata insieme a quel furbo di Yoru.»
«Non me ne ero proprio accorta!» esclamò con sorpresa.
«Ma Haru-san sì… è proprio carino quel ragazzo, e ci tiene a te, giusto?»
«Non capisco…» rispose a bassa voce Aya.
«Va bene, riposati, che sei sicuramente stanca. Buonanotte, tesoro, e buonanotte anche a te, Yoru, e fai la guardia!»
Il gatto osservò il Maneki-neko e pensò che quella fosse davvero una strana coincidenza. Si grattò un orecchio e, sistemandosi per dormire, sbadigliò.
Aya si adagiò sul futon e, stringendo tra le dita il piccolo portachiavi, lasciò che i pensieri la riportassero a quel bacio sulla guancia datole da Haruki. Non era solo lo stupore per quel gesto inatteso a farle battere il cuore più forte, ma quel fremito caldo e improvviso che le aveva attraversato l’anima, lasciandole addosso un’emozione difficile da ignorare…
Nel silenzio che precede il sonno, un solo nome le attraversò la mente, dolce e silenzioso come un sospiro: “…Haruki…”

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