Quella sera, Aya aveva chiuso la taverna presto, già alle dieci, e si era incamminata lungo un sentiero vicino a un ruscello, assaporando il fruscio dell’acqua e il profumo umido della notte. Yoru, come sempre, trotterellava al suo fianco con l’aria da boss del quartiere. Ma quando il pelo sulla sua schiena si drizzò, Aya capì che qualcosa non andava.
Dall’acqua emersero improvvisamente cinque figure verdastre, con larghe bocche e ciuffi d’erba sulla testa. I loro occhi scintillarono di malizia. Aya riconobbe immediatamente chi fossero.
L’aspetto era umanoide, di piccola statura, la pelle verdastra; le mani e i piedi palmati, un guscio simile a quello di una tartaruga sulla schiena. E, infine, quella piccola cavità sulla sommità del capo, colma d’acqua—l’essenza del loro potere. Non vi era dubbio: erano Kappa!
«Ragazza umana,» disse il più grosso di loro, «verrai con noi. Non fare resistenza, è inutile.»
Aya arretrò, mentre Yoru balzò avanti e soffiò con ferocia. “Provate a toccarla e vi graffio la faccia!” fu il suo primo pensiero. Ahhh, Yoru l’impavido…
I Kappa risero sguaiatamente. «Un gattino contro di noi? Che ridicolo micetto!»
Ma Yoru non si lasciò intimidire. Si lanciò con artigli pronti, colpendo e mordendo, ma erano troppi.
«Lasciatelo stare!» Aya gridò, vedendo il suo amico sopraffatto.
Sembrava che la situazione fosse ormai disperata.
«La padrona sarà contenta.» si lasciò sfuggire uno degli aggressori.
Fu allora che una folata di vento fece tremare gli alberi e dal cielo piombò una figura inconfondibile che terrorizzò i Kappa.
«Via! Kappa disgustosi! Tornate nelle vostre acque!» tuonò un Tengu, rivelandosi una vecchia conoscenza.
Era Jojo-Yo, il nipote del Re dei Tengu. Calando in picchiata, sfoderò la sua katana e iniziò a dar loro il tormento. Alla vista della lama, i Kappa tremarono.
«Come osate minacciare una mia ami…—ehm—una ragazza indifesa?»
Nella confusione, uno dei Kappa inciampò maldestramente e l’acqua nella cavità sulla sua testa si rovesciò. Immediatamente il suo corpo si afflosciò. Gli altri, terrorizzati, fuggirono senza voltarsi indietro.
Il Kappa caduto, privato dell’acqua nel suo ‘sara’—la fonte del suo potere—rischiava ora la morte.
Il silenzio calò. Aya si inginocchiò accanto alla creatura.
«Oh no… sta morendo.»
«Beh, se lo è meritato!» commentò Jojo-Yo, incrociando le braccia, sotto lo sguardo perplesso di Yoru.
Senza pensarci, Aya prese un po’ d’acqua dal ruscello e la versò sulla sua testa, riempiendo nuovamente il ‘sara’.
Il Kappa rinvenne con un sussulto. Si alzò lentamente e si inchinò profondamente, ben attento a non far cadere di nuovo l’acqua.
«Hai salvato la mia vita, fanciulla dagli occhi verdi. Non posso dimenticarlo. Se mai avrai bisogno di aiuto, chiama il mio nome: Toku. Verrò subito in tuo soccorso, anche contro i miei fratelli.»
«Ehi!» tuonò Jojo-Yo. «Chi vi ha mandati? Chi è la vostra padrona di cui parlava uno dei tuoi amichetti?»
Toku abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace, non posso rispondere. Ho dei piccoli Kappa che mi aspettano e voglio rivederli. Ma non preoccuparti, Tengu dalle ali di corvo… quando sarà il momento, lei apparirà.»
E con questa frase sibillina, si tuffò nelle acque scure del fiume.
Jojo-Yo sbuffò. «I soliti Kappa! E tu sei troppo buona! Io lo avrei lasciato lì a marcire.»
Yoru soffiò contro di lui.
«Accidenti a te, gattaccio! Così ringrazi chi vi ha salvato?»
“Si, perché è me che volevi salvare, eh?” pensò Yoru, stringendo maliziosamente gli occhi di giada.
Aya sorrise. «Non avrei mai avuto il cuore di lasciarlo morire.»
«Va bene, come vuoi tu!» disse Jojo-Yo.
«Perché sei qui?»
Il Tengu si stiracchiò, facendo attenzione a stare lontano da Yoru, che lo terrorizzava.
«Beh, passavo di qui per caso e ho visto che eri nei guai… Ora scappo, mi aspettano. Ciao ciao!»
Volò via rapidamente e, se non fosse stato per il colore già rossastro della sua pelle, Aya avrebbe notato che il suo volto era diventato rosso, rossissimo, per l’emozione.
“Passava di qui per caso… sì, certo. Come no!” pensò Yoru, malizioso. Poi, miagolando stridulo, fece capire alla sua padrona che il loro futon li stava aspettando.
«Hai ragione, Yoru. Andiamo a casa.» disse Aya, guardando il fiume, i suoi pensieri carichi di preoccupazione.
Chi era la padrona dei Kappa? Perché volevano rapirla?
Riflettendo su domande senza risposta, lei e il suo fedele e agguerrito gatto ripresero la strada verso casa.
Nell’ombra, non visti, due figure li osservavano.
«Questa volta “lei” si è spinta troppo oltre. Ha mandato dei Kappa. Inaccettabile, mio signore.»
«Manda due dei nostri a controllare la ragazza. Non credo avremo altre visite inaspettate per un po’.» Sōjōbō sbuffò, visibilmente irritato.
«Provvedo, altezza. Invierò subito Ryu e Ybo.»
«Sì, ma di’ a quei due di mascherarsi con abiti di questi tempi, non come l’ultima volta da samurai del quattordicesimo secolo.»
Karasuba sogghignò.
«Un’ultima cosa,» aggiunse Sōjōbō. «Tienilo d’occhio, mio nipote. Si è comportato con onore questa notte, ma le sue motivazioni sono un po’ troppo… umane. Chiaro?»
«Certo, lo farò con discrezione.»
Quella notte, prima di addormentarsi, Aya si tormentò con mille pensieri. Paura, stupore, domande senza risposte.
«Per fortuna ci sei tu, Yoru… Buonanotte.»
«Miaooooooo…»
Le notti di Kyoto: l’ombra dei Kappa

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