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Le notti di Kyoto: tra Cielo e Terra

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Quella sera la taverna era davvero piena di gente. Era stata una giornata di festa, e molti avevano scelto di concluderla nel locale di Aya. A dare una mano con i clienti c’era la sempre pronta Nao che, quando Aya le telefonò per chiederle aiuto, non fece in tempo a terminare la chiamata che l’amica era già sulla soglia della taverna, urlando: «Certo che ci sono!»
Come facesse ad arrivare così in fretta restava un mistero per Aya. Verso le undici giunse anche Haruki. Si accomodò al bancone e chiese un tè verde, tiepido, non zuccherato. Mentre Aya lo preparava dandogli le spalle, il ragazzo mormorò piano: «Stavolta glielo dico! Coraggio, coraggio, coraggio!»
«Coraggio per cosa?» si intromise inaspettatamente la signora Fumiko, che, dalla sua solita postazione, pareva sentire tutto ciò che accadeva nel locale.
«Credo di sapere per cosa ti serve coraggio, ragazzo mio», continuò rivolta ad Haruki. «Non essere il solito timido. Parlale, e subito, senza pensarci!»
Il giovane prima sbiancò, poi arrossì fino a diventare quasi viola per l’imbarazzo. Quando il tè fu pronto, Aya glielo porse con il suo amabile sorriso: «Ecco il tuo tè, Haru-san.»
«Perché sei così rosso in viso?» chiese incuriosita.
«No, niente. Devo scappare, ciao.» Pagò il tè, non lo bevve e fuggì via.
«Non capisco, ho detto qualcosa che non va?» chiese Aya, rivolta alla signora Fumiko.
«No cara, stai tranquilla. È solo la Primavera…» disse sorridendo sorniona.
Aya non replicò. Si limitò a sorridere all’anziana signora e continuò il suo lavoro, pensando che Haruki negli ultimi tempi fosse particolarmente strano.
La signora Fumiko osservò Nao, che aveva assistito alla scena, ed entrambe sorrisero in modo complice e malizioso. “Ahhh, la Primavera…” pensò Fumiko, ritornando con la mente alla sua giovinezza.
La serata trascorse tranquilla. Quando l’ultimo avventore — un anziano signore che forse aveva bevuto troppo sakè — lasciò il locale, accompagnato dal nipote, Aya e Nao fecero le pulizie, sistemarono il locale per la mattina seguente, bevvero insieme un delizioso tè nero e si salutarono.
Dopo aver chiuso il locale, il buon vecchio Yoru, che l’aveva raggiunta saltando giù dal mobiletto all’ingresso dove era rimasto appollaiato tutta la sera, si unì a lei. Aveva cercato invano di fare un pisolino. Aya decise di tornare a casa, rinunciando alla solita passeggiata notturna. Era davvero stanca. La serata era stata soddisfacente, ma impegnativa. Per fortuna c’era Nao.
I due si incamminarono verso casa. Yoru zampettava allegramente, sempre vicino alla sua padrona, quando a un tratto scattò verso un piccolo pesco. Stranamente, alcune foglie ruotavano nell’aria, spinte da un vortice, benché non ci fosse un filo di vento. Il loro moto era prima rapido, poi sempre più lento man mano che il gatto si avvicinava.
«Yoru, che ti prende?»
Il gatto rispose con un miagolio e cominciò a saltellare attorno alle foglie, che parevano danzare.
Aya osservò la scena, confusa. Le sembrò di sentire una voce flebile, lontana, che le sussurrava: «Non guardare con gli occhi, ma con il tuo cuore.»
Rimase spiazzata. Era abituata a incontri strani, specie di notte, ma quella voce non l’aveva mai sentita. Che fosse solo frutto della sua immaginazione?
Yoru continuava il suo balletto, e Aya cercò di vedere se ci fosse qualcosa in quel vortice. Tirò un sospiro, cercò di non pensare a nulla e si mise a osservare. In quello stato di abbandono mentale, una figura prese forma davanti a lei.
Yoru non era impazzito. Stava danzando con una bambina, o meglio, con lo spirito di una bambina. La creatura giocava col gatto, visibilmente divertita. Aya udì le sue risate. Vestiva un abito d’altri tempi e irradiava una strana luce. A un certo punto, si fermò. Si era accorta che Aya la vedeva.
«Ciao, io sono Akemi (明美). E tu come ti chiami?»
«Io sono Aya. Ma da dove vieni? E perché sei qui?»
«Non lo so. Mi sono persa cercando il mio gatto, Kuro. Era nero come il tuo, ma è tanto che lo cerco. Mi manca, sai?»
Parlarono a lungo, ma la bambina non ricordava da dove venisse né sapeva come tornare… “Tornare dove?” si chiese Aya, mentre Yoru si era accomodato e si grattava un orecchio.
Improvvisamente si udì una voce di donna, prima lontana, poi sempre più vicina.
«Akemi… dove ti sei cacciata, amore della mamma?»
Aya si guardò intorno. Non c’era nessuno, ma poi vide avvicinarsi un altro vortice di foglie, e poi un altro ancora.
Le foglie si fermarono. Apparvero un uomo e una donna, anch’essi in abiti dalla foggia di tempi passati — sembravano del Novecento — ed emanavano la stessa luce della bambina.
«Quante volte ti abbiamo detto di non allontanarti da noi?» la rimproverò dolcemente la donna. «Io e tuo padre eravamo preoccupati!»
«Ma tu ci vedi, ragazza dagli occhi verdi…» disse incuriosita la madre di Akemi.
«Sì… spero non vi dia fastidio.»
«Per nulla. Anzi, ci fa piacere. Di solito, chi riesce a vederci scappa. E non ce n’è motivo.»
«Vostra figlia giocava con il mio gatto, e a lui sembra sia piaciuto.»
«Capisco.» La donna annuì. «Sai, Akemi aveva un gatto nero come il tuo, con splendidi occhi di giada. Poi sparì, e non lo abbiamo più visto.»
«Com’è successo?» chiese Aya.
«Te lo dirò. Hai gli occhi verdi e una luce che pochi possiedono…» rispose con tono malinconico. «In vita, la nostra casa era a Yokohama. Eravamo felici. Avevamo due figli: Akemi, di otto anni, e Shigeru, che ne aveva venti.»
Aya percepiva l’antico dolore dietro quelle parole.
«Era il primo settembre del 1923» continuò la donna trattenendo le lacrime. «Ci colse il terremoto. Io stavo preparando il pranzo. Prima un rumore sordo, poi le fiamme… e infine il buio. Poi, come svegliandoci da un lungo sonno, ci ritrovammo insieme, in quello che voi chiamereste forse un “luogo-non luogo”, tra cielo e terra. Non so quanto resteremo ancora in questo limbo…»
«E Shigeru?» domandò Aya.
«Non abbiamo più saputo nulla di lui. Era andato per lavoro a Sapporo, al nord, qualche giorno prima. Durante le nostre visite in questa realtà, lo abbiamo cercato, invano. Spero che si sia salvato, che abbia avuto una vita lunga e felice. E che un giorno ci ritroveremo tutti insieme.»
«Anche Kuro, vero mamma?» chiese Akemi.
«Certo tesoro, anche Kuro.» La donna le sorrise teneramente. «Ora però dobbiamo tornare. Grazie, Aya. È stato bello conoscerti. E grazie a te, Yoru-san, per la tua cortesia.»
Prima di svanire tra i vortici di foglie, il padre di Akemi, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, si rivolse ad Aya:
«Grazie, fanciulla. In te brilla qualcosa di raro, come un enigma che aspetta di essere svelato. Un giorno ne comprenderai la natura.»
Aya rimase in silenzio. La realtà era tornata normale. I tre erano vittime del Grande Terremoto del Kantō, che aveva causato oltre centomila morti. Ne aveva sentito parlare da un amico del padre, venuto in visita a Kyoto da Sapporo per lavoro. Diceva che suo nonno si era salvato per miracolo.
“Che strana coincidenza…” pensò Aya, accarezzando Yoru.
«Andiamo, Yoru. Stanotte hai avuto tante emozioni, vero?»
Il gatto si stiracchiò, guardò la sua padrona. Uno strano pensiero, forse un ricordo lontano, gli attraversò la mente.

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