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Una gita sul Monte Koya – 2 di 3

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Il giorno dopo, un timido chiarore rischiarava il cielo quando Aya si svegliò. Dalla veranda della loro stanza l’alba di quella domenica filtrava tra i bambù in ombre leggere. Il cinguettio discreto degli uccelli era oltremodo rilassante e piacevole. Sua madre, Hana, già vestita e pronta per la seconda giornata di ‘esplorazioni’, guardava fuori in silenzio.

«Buongiorno, Aya. Dormito bene?» le chiese con voce morbida.

La ragazza annuì, stiracchiandosi. Yoru, acciambellato ai piedi del futon, aprì un occhio e sbadigliò. Poi si alzò e si avvicinò alla porta, nervoso. Le orecchie dritte, la coda scattante, sembrava avvertire qualcosa.

Dopo una rapida colazione, la famiglia partì presto, decisa a esplorare i luoghi più iconici del Kōyasan.

La prima tappa fu il Kon-dō 金堂, la grande sala dorata. I riflessi del sole giocavano sulle tegole bronzee del tetto e, all’interno, l’odore dolce dell’incenso li avvolse. Aya osservò i monaci inginocchiati in meditazione: la loro quiete sembrava infondersi nell’ambiente stesso.

«Sembra che il tempo qui si fermi.» sussurrò Hana, mentre osservava la statua dorata del Buddha centrale. In quel momento, tornò con la mente alla loro prima visita, molti anni prima. Lei e Ryuji erano ancora giovani studenti, e si erano ripromessi che un giorno sarebbero tornati lì, con la famiglia che avrebbero costruito. Il pensiero le strinse il cuore con dolcezza.

Fu nel pomeriggio che intrapresero il cammino verso l’Oku-no-in 奥の院, la meta più sacra.

Il sentiero era lungo e silenzioso, immerso in una foresta primordiale di alberi altissimi. I raggi del sole penetravano a fatica tra i rami, creando lame di luce nel verde profondo. Ai lati del cammino, moltissime pietre tombali, circa duecentomila.

Aya camminava in silenzio, rapita. Ogni passo affondava nella storia. Le pietre sembravano parlare. A volte Yoru si bloccava, fissando qualcosa tra gli alberi. Ogni volta che accadeva Aya sentiva un brivido e il pensiero correva al monaco del giorno prima. Il suo sguardo, quegli occhi neri… «Strani occhi verdi.», aveva detto.

Dopo una lunga camminata, giunsero al cuore dell’Oku-no-in: il mausoleo di Kōbō Daishi.

Un ponte di pietra li introdusse al santuario, e l’atmosfera si fece quasi irreale. Il silenzio era totale, ma vivo. L’aria vibrava, come se respirasse.

Il padre si fermò davanti al mausoleo. Il volto, solitamente ironico, ora era solenne.

«Aya, questo è il punto più sacro di tutto il Kōyasan. Qui riposa Kōbō Daishi, o meglio, qui medita ancora.»

«Come sarebbe a dire, papà?» chiese Aya.

«La leggenda dice che non è morto. È entrato in un samādhi profondo, un’estasi meditativa, in attesa dell’arrivo di Miroku Nyorai, il Buddha del futuro.»

Aya sgranò gli occhi. Sentiva la pelle pizzicare sotto i vestiti. “probabilmente è l’umidità” pensò.

Guardò il mausoleo, una luce calda, dorata, sembrava proteggerlo.

Yoru, accanto a lei, si accovacciò all’improvviso. Il suo corpo teso, le orecchie piegate all’indietro, gli occhi color giada spalancati. Guardava nella direzione opposta al mausoleo. Aya si voltò, ma non c’era nessuno. Solo una pietra coperta di muschio.

Poco dopo, lasciarono il santuario in silenzio, in segno di rispetto, e ritornarono sui loro passi.

Quando il sole cominciò a calare dietro le montagne, tingendo di rosso i tronchi degli alberi e i tetti dei templi, la famiglia fece ritorno al ryokan. L’aria era fresca, e il cielo punteggiato dalle prime stelle.

Tra due cedri secolari, due occhi neri come la notte più buia osservavano in silenzio.

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